Hebraica
Il corpo di Dio e l’immagine dell’uomo nel midrash

Storia di un rapporto speculare tra l’uomo e Dio, regredito, dopo Abramo, in favore di un avvicinamento dell’uomo alle scimmie…

La Torà vieta di adorare dèi diversi dal Dio di Israele. «E non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo o immagine di ciò che sta nei cieli in alto o sulla terra in basso o nelle acque intorno alla terra. Non ti inchinerai di fronte a loro e non li servirai». I lettori di questo celebre passo dell’Esodo hanno di solito messo in relazione la prima asserzione («non avrai altri dèi di fronte a me») con quanto segue, e cioè il divieto di adorare idoli e immagini di ciò che non è l’unica divinità ammessa. Nella Torà peraltro il divieto di idolatria vale soltanto per il popolo di Israele. Il culto di altri dèi da parte di altri popoli è generalmente ammesso, tranne quando è visto come un pericolo per gli israeliti che potrebbero essere indotti per imitazione ad abbandonare il loro Dio, come nel caso dei culti cananei. Il divieto della Torà in ogni caso riguarda le immagini di altre divinità, non l’immagine di Dio. È dunque permesso rappresentare il Dio di Israele? Questo Dio è visibile? E ha un corpo?

Sinteticamente potremmo rispondere con tre sì, a patto di aggiungere due chiarimenti. Nella civiltà ebraica antica Dio ha senza dubbio un corpo. Questo corpo è visibile, ma non da tutti e non in tutte le circostanze. Può essere rappresentato, ma non in tutti i modi disponibili agli uomini. Non viene posto un limite alla rappresentazione di Dio attraverso le parole, cioè la descrizione linguistica, mentre c’è un limite per quanto riguarda le immagini bidimensionali o plastiche (pittura e scultura). In questo secondo caso non è ammessa la rappresentazione diretta (per esempio una statua di Dio) ma è ammessa quella indiretta (per esempio i cherubini ai lati dell’Arca dell’alleanza) con cui a essere raffigurato non è direttamente Dio ma qualcosa a cui viene riconosciuto il potere di sostituzione e rimando a lui.

E per i rabbini nell’età della Mishnà e del Talmud che rivoluzionano la civiltà della Torà dando forma a una civiltà nuova da cui deriva l’ebraismo medievale e moderno? Nel secolo scorso studi ormai datati proponevano una distinzione tra la scuola di Aqiva, che interpretando in modo letterale il testo della Torà avrebbe una visione antropomorfica di Dio, e quella di Ishmael, che in nome dell’interpretazione allegorica rifiuterebbe l’antropomorfismo. Oggi di fatto una distinzione tanto netta non è accettata, semplicemente perché se scorriamo i testi della letteratura rabbinica non troviamo neanche un passo in cui si nega o anche soltanto si dubita che Dio abbia corpo, volto o forma. Il midrash Vayiqrà (Levitico) rabbà, per esempio, racconta la storia di Hillel il Vecchio il quale si incammina verso le terme – luogo tipico della civiltà grecoromana verso cui i rabbini hanno spesso, anche se non sempre, un atteggiamento di sospetto o rifiuto. Quando i discepoli gli chiedono dove sta andando, il maestro risponde:

«A compiere una mitzvà».
I discepoli: «Quale mitzvà?».
Hillel: «Fare il bagno alle terme».
I discepoli: «Davvero questa è una mitzvà?»
Hillel: «Sì. Come le statue dei re esposte nei teatri e nei circhi [altri luoghi caratteristici della civiltà grecoromana] vengono lavate e pulite da un addetto responsabile […] così a maggior ragione faccio io, che sono stato creato a immagine e somiglianza di Dio come è scritto nella Torà».

Qui e in numerosissimi altri passi viene dato per assodato che Dio ha un corpo. Il ragionamento di Hillel, non esplicitato ma chiaramente sottinteso nel dialogo, è che poiché l’uomo ha un corpo ed è scritto in Bereshit/Genesi che è creato a immagine e somiglianza di Dio, Dio deve avere un corpo simile a quello umano. La somiglianza è infatti una proprietà simmetrica degli oggetti. Se A è simile a B, allora necessariamente B è simile ad A.

Il concetto di immagine di Dio è d’altra parte sviluppato poco dai rabbini, ai quali dopo i disastri delle guerre contro Roma e la fine della centralità del Tempio di Gerusalemme interessa soprattutto sottolineare i valori unici della Torà e di Israele. L’immagine come ciò che lega Dio e Adamo (progenitore di tutti gli uomini e non solo degli ebrei) ha un evidente potenziale universalistico ed è forse per questo che non viene molto ampliata. In testi successivi di epoca medievale “immagine” verrà intesa come “corpo” e “somiglianza” come “anima”, oppure con la coppia vita eterna/vita terrena. Ma queste sono categorie che non appartengono alla riflessione del periodo della Mishnà e del midrash più antico. La distinzione tra materia e spirito c’è in Filone di Alessandria ed è poi centrale nei cristiani, nella letteratura rabbinica classica invece non esiste una opposizione metafisica tra due componenti che costituiscono una sola unità. Forse per questo nel II secolo il cristiano Giustino rimprovera gli ebrei di raffigurare antropomorficamente Dio. Giustino ha certamente intenti polemici nei confronti degli ebrei, ma è un fatto che nella Mishnà, all’incirca a lui contemporanea, l’anima non sia mai considerata divina e in quanto tale contrapposta al corpo. La stessa vita futura è la resurrezione dei morti, non la vita eterna delle anime, come mostra ancora in Vayiqrà rabbà il midrash del cieco e dello zoppo.

Un re aveva un meraviglioso giardino con alberi di fichi. Mise di sorveglianza due guardiani, uno zoppo e un cieco. Lo zoppo disse al cieco: «Vedo meravigliosi fichi maturi. Vieni, salirò sulle tue spalle, così li prenderemo e li mangeremo». Lo zoppo salì sulle spalle del cieco, presero i fichi e li mangiarono. Quando arrivò il re chiese: «Dove sono i fichi?». «Ho forse occhi per vederli?», disse il cieco. «Ho forse gambe per andare a raccoglierli?», disse lo zoppo. Che cosa fece allora il re? Ordinò allo zoppo di salire sulle spalle del cieco e li giudicò come se fossero una persona sola. Allo stesso modo il santo, sia egli benedetto, chiama l’anima, la riunifica al corpo e giudica tutti e due insieme.

Esiste uno stretto rapporto tra dualismo anima/corpo e interpretazione allegorica o metaforica. Sono concetti rintracciabili nell’ebraismo antico e tardoantico (per esempio nel già citato Filone, che infatti influenza molto i padri della Chiesa e per nulla i rabbini), non nei testi rabbinici prima del medioevo. Il midrash utilizza addirittura il termine ikonim, dal greco eikon da cui “icona”, per indicare che l’uomo è immagine di Dio. L’icona – che di lì a poco diventerà nel cristianesimo l’immagine per eccellenza del tentativo di rappresentare pittoricamente il divino – in Bereshit rabbà indica, senza alcuna sfumatura negativa ma al contrario una positiva, la riproduzione delle fattezze di Yaakov sul volto di Dio.

Se Dio ha un corpo simile a quello dell’uomo – quindi orecchie, occhi, naso e così via – qual è la differenza, per esempio, tra le sue orecchie e quelle degli idoli? I rabbini rispondono che le orecchie di Dio ascoltano, quelle degli idoli no. Devarim (Deuteronomio) rabbà vieta di rappresentare il corpo di Dio non perché Dio non ha corpo, ma perché il suo corpo è incomparabile con qualsiasi altro corpo. Proprio perché Dio ha un corpo e questo è simile a quello dell’uomo, inoltre, è sancito il divieto di raffigurare il corpo dell’uomo. Il corpo dell’uomo è immagine di Dio, ma se Dio ha un’immagine esistente e allo stesso tempo non riproducibile anche il primo non può essere raffigurato. Esattamente perché Dio ha un corpo dunque è vietato rappresentarlo, non perché non lo ha. Le stesse statue d’altra parte non sono sempre viste negativamente, tranne in contesti polemici nei confronti dei non ebrei come il trattato mishnico Avodà zarà. Ma perfino in Avodà zarà si leggono passi che non chiudono ogni possibilità di raffigurazione plastica. In un testo, per esempio, sono proibite soltanto le statue con un bastone, un uccello o una sfera in mano, probabilmente perché riconosciuti come attributi di regalità e divinità. La Mishnà non distingue perciò tra statue (mondo pagano) e aniconismo (Israele), ma tra statue di divinità proibite e altre statue, per esempio di uomini, che sembrano ammesse.

E se l’immagine di Adamo fosse cambiata nel succedersi delle generazioni? Se, insomma, l’uomo condividesse l’immagine di Dio da principio ma non più oggi? Il problema viene posto da Bereshit rabbà in un passo che verrà poi riletto in chiave filosofica ottocento anni più tardi da Maimonide in una pagina magnifica. Ma limitiamoci al midrash originale, che parla dei discendenti di Adamo.

«Questo è il libro delle generazioni di Adamo» (Bereshit 5,1): queste sono generazioni, ma le prime non erano generazioni. Allora che cos’erano? Erano divine. Chiesero ad Abbà Kohen Bardela: «Adamo, Set, Enosh. Perché poi il testo si interrompe?». Rispose loro: «Fin qui, a immagine e somiglianza; da qui in poi, si guastarono le generazioni e ne nacquero dei centauri. Quattro cose si cambiarono all’epoca di Enosh: i monti diventarono roccia; i morti cominciarono a putrefarsi; le facce diventarono come quelle delle scimmie; divennero preda dei demoni». Disse rabbi Yitzhaq: «Proprio essi causarono a sé stessi di divenire preda dei demoni: che differenza c’è fra colui che si inchina a una statua e colui che si inchina a un uomo?».

Abbà Kohen Bardela, prendendo a riferimento la conclusione del capitolo 4 e l’inizio del capitolo 5 di Bereshit, divide la storia dell’umanità in due parti. Nella prima, da Adamo a Enosh, gli uomini sono divini perché la loro figura è a immagine e somiglianza di Dio. Ma al tempo di Enosh avviene un cambiamento decisivo: la terra si indurisce diventando difficile da coltivare, i cadaveri cominciano a putrefarsi trasfigurando e cioè trasformando irreversibilmente la figura umana dopo la morte, il volto degli uomini assume fattezze scimmiesche e gli uomini sono terrorizzati dai demoni. Così comincia il secondo segmento della storia, segnato da un regresso rispetto alla condizione di Adamo e dei suoi primi discendenti. Analogamente a tradizioni mitiche mediterranee e del vicino oriente antico, il modello di storia proposto dal midrash è quello di una decadenza dalla mitica età dell’oro, decadenza che non comincia però con Adamo ma alcune generazioni più tardi. Per rabbi Yitzhaq la colpa degli uomini che determina questo declino è l’idolatria, intesa come la presunzione che una statua di legno o pietra non sia semplicemente legno o pietra ma rimandi a qualcosa d’altro fuori da sé. Che abbia potere. Per questo Enosh diventa il primo idolatra della storia. Non meno interessante, le due epoche sono contraddistinte a partire dalla somiglianza tra l’immagine di Dio e quella dell’uomo, somiglianza che c’è nella prima e si perde a quanto sembra senza possibilità di recupero nella seconda. Gli uomini perdono così quel qualcosa di divino che li avvicinava a Dio, che è proprio la somiglianza. E, in un paradossale rovesciamento ante litteram della teoria darwiniana, diventano simili a scimmie.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.