Hebraica Nizozot/Scintille
Il Kotsker Rebbe, chassid asceta e cercatore radicale della verità

Storia e storie di Menachem Mendel Morgenstern

Uno dei libri più intriganti sul mondo chassidico è stato scritto da Abraham Joshua Heschel (1907-1972). Si tratta del confronto tra il Rebbe di Kotsk, Menachem Mendel Morgenstern, e il filosofo proto-esistenzialista cristiano Søren Kierkegaard: due mondi in apparenza lontanissimi, ignari l’uno dell’altro; due vite diversissime e ispirate a sistemi religiosi quasi in conflitto, un ebraismo ascetico il primo, un luteranesimo non convenzionale il secondo; e tuttavia due esperienze religiose con molti tratti in comune, come Heschel cerca di mostrare appunto nel suo originale volume dal titolo Passione di verità (A Passion for Truth, 1973; tradotto in italiano dalla Rusconi nel lontano 1977 ma ancora in circolazione). Entrambi erano un po’ degli outsider nel loro ambiente; entrambi disdegnavano ogni forma di mondanità e di ipocrisia, specie religiosa; entrambi cercavano di perseguire gli ideali più alti addentrandosi nei sentieri più imprervi di una loro esigentissima e radicale ricerca della verità. Heschel ha scelto un buon termine – passion – per esprimere questa loro dedizione non solo intellettuale ma anche emotiva.
Ma chi era davvero questo rebbe chassidico dalla vita tanto strana eppure ancor oggi studiato e citato come uno dei più originali pensatori ebrei del XIX secolo? La sua bio sta in un breve paragrafo, almeno nella prosa di Heschel: “Il Kotsker Rebbe è nato nel 1787 a Goraj, nei pressi di Lublino (Polonia), da una famiglia estranea al chassidismo ma fu attratto da esso sin dalla sua giovinezza. Divenne dapprima discepolo di reb Jaakov Yitzchaq, il Veggente di Lublino, e poi di reb Simcha Bunam, al quale succedette come leader, risiedendo per un certo periodo a Tomazsow e infine a Kotsk. Morì nel 1859, a settantadue anni”.

Può sembrare un cv troppo stringato, ma potrebbe già dirsi eccessivo per un uomo che, pur essendo considerato uno dei due capi spirituali più importanti dell’ebraismo polacco del suo tempo, decise a 52 anni di rinchiudersi in una stanza e di non uscirne più per i successivi vent’anni, fino alla sua morte. Parlare di un comportamento bizzarro è un eufemismo; dirlo enigmatico pure. Un diario di memorie chassidiche della prima metà del Novecento lo descrive in quella mitica stanzetta attorniato da bestioline a lui care come rane e topi, alla cui sopravvivenza provvedeva egli stesso con gli avanzi dei suoi più che sobri pasti, che sua moglie – altrettanto in miseria – gli passava. Divenuto nel frattempo vedovo, non rinunciò molto ebraicamente a risposarsi. I suoi pochi e, il va sens dire, a loro volta poveri discepoli videro in tutte queste scelte il segno evidente della sua santità, tanto più rifulgente quanto più nascosta e lontana dalle luci del mondo…

Facendo pure la tara a siffatta agiografia (che non tardò a preservarne la memoria, a dispetto – o forse a motivo – di tanta seclusione, che significò la fine di ogni attività in mezzo ai suoi chassidim), del Kotsker Rebbe resta un discreto numero di insegnamenti e aforismi e parabole, che messi insieme lasciano intravvedere un maestro di rara lucidità intellettuale, di cui l’ascetismo era mezzo più che velo o scorza. Infatti egli additò ai suoi seguaci un ethos di assoluta integrità morale, interiore prima che comportamentale, ispirata a un’inflessibile metodo introspettivo e tale da sentirsi permanentemente ‘in guerra’ contro ogni ombra di venità, di compiacimento di sé e di auto-inganno. In più di un senso, potremmo definirlo un Qohelet moderno il cui mantra può essere riassunto nell’espressione: cercate sempre la verità, anche a costo dell’emarginazione sociale! Scavando nei detti che gli sono attribuiti – perché di suo, ovviamente, non lasciò nulla di scritto – si evince che reb Morgenstern aderì e diede corpo a una corrente chassidica lontana dalla tradizionale mistica imperniata sulla devequt, l’unione con il divino; inoltre egli non abbracciò mai l’ideale dell’annullamento dell’anima (bittul ha-nefesh) nel solco del Grande Magghid, cioè Dov Ber di Metserich (l’erede erudito del Ba‘al Shem Tov); e fu tra i sostenitori di uno studio del Talmud – più che della qabbalà – consapevole dei limiti del pilpul ossia della discussione sofisticata ma fine a se stessa (esattamente come Kierkegaard diffidava delle speculazioni teologiche per la vita cristiana).

Che non fosse dunque uno sprovveduto né insegnasse una vuota fuga mundi è chiaro soprattutto dalla qualità dei suoi discepoli, alcuni dei quali divennero grandi maestri nel corso dell’Ottocento: dall’Alter Yitzchaq Meir Rottenburg (1799-1866), fondatore dell’importante chassidut di Gur, a Chanokh di Alexander (1798-1870), da Avraham Bornstein (1939-1910), il genero di Menachem Mendel in quanto ne sposò la figlia Zine e fondatore della dinastia di Sokhach che adottò lo stile di vita di Kotsk, fino al più noto di tutti, quello Yehudà Leib Alter (1847-1905), nipote del sopramenzionato Yitzchaq Meir, meglio conosciuto con il nome della sua opera più famosa, Sfat emet, una raccolta di derashot e di lezioni apparsa postuma nel 1906 dove non a caso torna centrale l’emet, la verità, parola chiave del Kotsker Rebbe. In quest’opera l’afflato della pietas chassidica si combina con il rigore del pensiero del Maharal di Praga e, non ultimo, con un messinismo già tutto orientato alla gehulà, alla redenzione nazionale.

Tra gli aforismi più conosciuti del Kotsker Rebbe, uno sta in questa breve storia: “Un giorno il Rebbe di Kotsk chiese ad alcuni uomini pii e dotti che erano venuti a trovarlo: ‘Dove abita Dio?’. Essi si stupirono della domanda e risposero ridendo alle sue spalle: ‘Che dite mai? Se tutto il mondo è pieno della Sua gloria…!’. Ma il Rebbe di Kotsk rispose egli stesso alla propria domanda: ‘Dio abita dove lo si lascia entrare’”. (Lo si legge anche nei Racconti dei chassidim di Martin Buber). Se di primo acchito la simil-parabola sembra soltanto moralistica, in realtà essa va intesa come tentativo, da parte di questa vera e propria scuola di pensiero chassidico, di contrastare un misticismo ormai di superficie, che ripeteva le formule elaborate un secolo prima a Metserich ma senza più rigore e privo di vera interiorizzazione. La risposta suona come una sferzata alla stessa tradizione chassidica, percepita a metà del XIX secolo come in decadenza (per via degli stili di vita principesci nelle corti di alcuni maestri). La scuola di Kotsk significò e veicolò dunque un ripensamento della spiritualità di un’ormai diversificata chassidut, che non desse affatto per scontata la presenza divina. Solo una ricerca tanto appassionata quanto disinteressata e severa con se stessi permette di accedere a quell’emet, a quella verità, che è il sigillo stesso del Divino.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.