Hebraica
Il mese di Tishrì: quando il presente si collega al passato e anticipa il futuro

Che cos’è il tempo? Un ragionamento a partire dalla festa di Rosh haShanà

Il mese di Tishrì, che quest’anno inizia la sera del 25 settembre, ci propone una catena quasi ininterrotta di feste, alcune gravi altre gioiose: Rosh ha-Shanah, Yom Kippur, Tzom Ghedaliah, Sukkot, Sheminì Atzeret, Simchat Torah. Il mese di celebrazioni ci conduce, quasi necessariamente, a riflettere sul valore del tempo. Un valore che non nasce solo dal calendario, ma che nell’ebraismo unisce allo scorrere ciclico delle stagioni, il percorso lineare che muove dal Sinai verso i tempi della redenzione, disegnando una sorta di spirale aperta.
Abraham Joshua Heschel, nel suo bellissimo testo sul Sabato, ricorda che «Agli albori della storia vi era soltanto una santità nel mondo: la santità del tempo (cfr. Gn 2,3). Quando sul Sinai stava per essere pronunciata la parola di Dio, fu elevata una invocazione alla santità nell’uomo: “Voi sarete per me un popolo santo” (cfr. Es 19,6). Soltanto dopo che il popolo cedette alla tentazione di adorare un oggetto, un vitello d’oro, fu ordinata l’erezione di un Tabernacolo, la santità nello spazio (cfr. Nm 7,1)». Il tempo è dunque la prima realtà a venire dichiarata «santa/sacra» (kadosh); è Dio stesso a santificarla sul finire del processo creativo: «Iddio benedisse il giorno settimo, e lo santificò; poiché in esso cessò da tutta l’opera sua, che Dio aveva creata e fatta» (Gn 2,3). Entrare nella scansione ebraica del tempo, significa quindi entrare in una realtà sacra, anzi: nella realtà sacra per eccellenza.

Naturalmente quando parliamo di tempo da un punto di vista ebraico, non intendiamo la «misura dello spazio secondo il prima e il poi», come scrive Aristotele nella Fisica. Qui il tempo è misurabile, calcolabile, gli istanti sono tutti uguali e la loro identità può essere rappresentata nello spazio. Il modo ebraico di percepire il tempo è forse più vicino, se volessimo dirlo in termini filosofici, al concetto di «durata» di cui parla Henri Bergson (1859-1941): non una successione di momenti tutti uguali, che hanno un valore quantitativo (si possono contare), bensì degli stati qualitativi percepiti dalla coscienza umana. In questo flusso ininterrotto gli istanti che si susseguono non sono tutti uguali, nel presente si percepisce anche il passato (o almeno il suo ricordo), un po’ come accade con le note di una melodia. Se per esempio ascoltiamo la Nona di Beethoven, la successione di suoni “diventa” una sinfonia solo nello scorrere delle note, nel flusso in cui un suono si lega a quello che lo precede e a quello che lo segue e viene così percepito dall’ascoltatore. La Sinfonia è molto più di una pura somma di note, considerate ciascuna per sé. Così anche nel calendario ebraico ogni giorno ha senso in sé, ma ne acquista molto di più all’interno di una sinfonia di giorni: per fare solo un esempio, non è un caso che Yom Kippur cada dieci giorni dopo Rosh ha-Shanah e il significato di Kippur nasce anche da quei dieci giorni e dal legame con Rosh ha-Shanah. È poi quasi superfluo sottolineare quanto ogni giorno, nel mese di Tishrì ma in realtà in qualunque momento dell’anno ebraico, abbia un significato dato anche dalla coscienza di chi lo vive. Shabbat viene anche se non ci sono ebrei ad osservarlo, ma il modo in cui un ebreo percepisce e vive il giorno di Shabbat, è molto diverso dal modo in cui percepisce un altro giorno della settimana.

Questo disegna un legame indissolubile tra percezione del tempo e ruolo attivo del popolo ebraico. Nel celebre apologo contenuto in TB, Sanhedrin 98a, il messia cui viene rivolta la domanda “Quando verrai?” risponde senza esitazione “Oggi!”, ma poi passa tutta la giornata ed il messia non arriva. Sarà il profeta Elia a spiegare che la risposta era in realtà “Oggi, se ascolterete la sua voce” (Sal 95,7). Franz Rosenzweig commenta questa pagina talmudica scrivendo che «ogni atto dovrebbe essere compiuto come se il destino dell’eternità ne dipendesse. Infatti non si può mai sapere se non ne dipende affatto». È proprio durante il mese di Tishrì che scorrere del tempo, melodia dei giorni, percezione di tale melodia e atti del popolo ebraico sono più fortemente legati. Ed è proprio in questo mese che con grande frequenza il presente si collega al passato, ma anticipa anche il futuro.

Che cos’è la festa di Rosh ha-Shanah? Memoriale della creazione del mondo, ma anche momento del giudizio di Dio sull’umanità: un giudizio che viene formulato nel giorno del Capodanno e che prefigura in qualche modo il giudizio che ciascun individuo riceverà al termine della sua esistenza. Nell’«oggi» di Rosh ha-Shanah, passato e futuro si incontrano (senza confondersi!) e, per dirla ancora con le parole di Rosenzweig, nel ciclo dei giorni ebraicamente intesi «il movimento circolare non si genera, per così dire, per spinta, ma per trazione; il presente trascorre non perché il passato lo spinge avanti ma perché il futuro lo trae a sè». In questa visione del tempo, l’«oggi», il singolo giorno, in qualche modo rompe il flusso uniforme dei giorni e consente ad un lampo di eternità di entrare nel tempo. Il concetto di eternità infatti è ben diverso da quello di futuro: l’eternità non è dopodomani, ma «eternità è un futuro che, senza cessare di essere futuro, è tuttavia presente. Eternità è un oggi che è però consapevole di essere più che un oggi». Così il giudizio emesso da Dio sull’umanità a Rosh ha-Shanah ha una data precisa (quest’anno dalla sera del 25 settembre), ma insieme anticipa e rende presente il giudizio dell’ultimo giorno. E poiché l’umanità, ebraica e non, vive ancora nel tempo, tale giudizio è post posto di dieci giorni e così si arriva a Kippur, quasi che Dio accetti di entrare in una logica tutta umana del tempo, in cui anche quando ci si deve presentare al Creatore per essere giudicati, si chiede di poter giocare i tempi supplementari. E lo si ottiene.


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