Cultura Cibo
Il miele a Rosh haShanà

Il dorato ingrediente diventa il vero protagonista in un dolce simbolo di Capodanno: i tayglach

A una festa densa di significati come quella di Rosh haShanà non poteva che essere associata una moltitudine di alimenti simbolici. Del resto, è quasi impossibile trovare nella tradizione ebraica un cibo o una pietanza che non racconti una storia. Il miele è uno di questi alimenti ad altissima concentrazione di valore. Innanzi tutto, è dolce. Per quanto sia lapalissiano ricordarlo, è proprio il suo sapore ad attribuirgli il primo elemento di forza. Sia dal punto di vista gastronomico sia da quello simbolico. Da una parte abbiamo infatti quello che è considerato il primo dolcificante della storia umana, dall’altra questa sua stessa dolcezza diventa l’immagine perfetta del come ci si augura che sia l’anno che sta per iniziare.

Partendo dalla questione prettamente alimentare, si pensa che l’uomo sfrutti il lavoro delle api nel trasformare il nettare dei fiori in alimento da almeno 12mila anni. E se per la costruzione delle prime arnie pare si debba aspettare gli Egizi, pitture rupestri ritrovate nei pressi di Valencia e risalenti al 5000 a.C. mostrano già individui attorniati da piccole creature volanti mentre si arrampicano a saccheggiare quello che ha tutta l’aria di essere un alveare.

Facendo un passo avanti di qualche millennio, i primi alveari intatti in Medio Oriente sono stati scoperti una quindicina di anni fa a Tel Rehov, nella valle israeliana di Beit Shaean. Si trattava di centinaia di arnie suddivise in tre file per una produzione stimata di forse mezza tonnellata di miele all’anno. Risalirebbero alla fine del X secolo a.C. e sono la prima testimonianza di una produzione di miele su larga scala nella “terra del latte e del miele”. A questo proposito va a questo punto detto che nell’Esodo questa espressione si riferisce molto probabilmente a un altro tipo di miele, quello di datteri. Allo stesso modo, quando nel Deuteronomio si legge delle sette specie che benedicono la Terra Promessa, alla voce miele corrisponderebbe il dolcificante estratto dal succo di dattero, prodotto ancora oggi e noto in Medio Oriente con il nome di silan. Nonostante il miele di api fosse già un prodotto conosciuto, la Torah non lo citerebbero mai in quanto tale, ma solo come estratto dalla frutta. Vanno diversamente le cose con il Talmud, dove la parola ebraica devash pare riferirsi effettivamente al prodotto delle api, come quando si legge che “il miele e il cibo dolce illuminano gli occhi dell’uomo”. Nonostante si sapesse come procedere, produrre miele nell’antichità era comunque difficoltoso, soprattutto quando si aveva a che fare con le feroci api siriane. Avrebbero dovuto arrivare le più mansuete api europee dalla Grecia perché nel Medio Oriente si affermasse la produzione e il consumo del miele propriamente detto.

Abbandonando le questioni tecnologiche per addentrandosi nella storia della cucina, ritrovare le tracce vischiose del nostro ingrediente è abbastanza agevole. I ricettari più antichi ne sono zeppi, in particolare quelli giunti a noi dall’epoca romana. Apicius nel suo De Re Coquinaria ne fa un grande uso, citandolo come dolcificante per diverse pietanze. Un dolce, in particolare, lo sfrutta in una maniera che in un certo senso è giunta fino a noi, diventando patrimonio da una parte della cucina italiana e spagnola e dall’altra della tradizione gastronomica ebraica, sia sefardita sia ashkenazita. Si tratta di una portata semplicissima anche se apparentemente laboriosa, che prevede la preparazione di una polentina a base di farina e acqua che viene fatta rassodare per poi essere divisa a pezzetti che vengono prima fritti e quindi passati nel miele. Tocco finale, una spolverizzata di pepe.

Ora, a parte l’ultimo dettaglio pungente, il resto del procedimento pare avere molto a che spartire con diversi dolci della tradizione italiana, soprattutto meridionale. Struffoli napoletani, cicerate calabresi e purcidduzzi pugliesi hanno in comune con gli antichi dolcetti romani le cotture in serie, con l’aggiunta delle uova all’impasto e dei canditi nel finale come dettagli più evidenti. Non tutti però la pensano allo stesso modo. Gill Marks, ad esempio, ritiene che l’uso del miele per addolcire, ammorbidire e conservare le palline di impasto sia giunto in Meridione facendo un altro giro. Lo studioso statunitense afferma che la pratica avrebbe origine mediorientale e sarebbe da qui approdata in Italia, non si sa se passando dalla Sicilia, se grazie ai Sefarditi o attraverso entrambi i canali. Marks non dimentica che anche gli ebrei spagnoli hanno il loro bravo carico di dolcezze fritte, primi tra tutti i bimuelos, le palline di pasta fritta tanto amate dalla tradizione sefardita e preparate soprattutto per Hanukkah.

È la presenza del miele, però, che fa la differenza. Per quanto non se ne escluda l’uso anche per guarnire le frittelline sefardite, il dorato ingrediente diventa il vero protagonista in un dolce simbolo di Rosh haShanà come i tayglach (“piccola pasta” in yiddish). Questi dolcetti oggi considerati tipici della cucina ashkenazita avrebbero in realtà origini più mediterranee di quanto si possa pensare. Lo stesso autore dell’Encyclopedia of Jewish Food ritiene che siano i discendenti di quei primi dolcetti fritti e poi glassati nel miele passati dalla Spagna all’Italia. Nell’affermarsi al Centro ed Est Europa grazie ai sefarditi o agli ebrei italiani, però, avrebbero perso per strada la componente fritta per affermare quella mielosa, eventualmente con l’aggiunta finale di frutta secca e candita. Le ragioni sarebbero qui più legate all’opportunità che ai valori simbolici. Fatte salve le occasioni come Hanukkah, dove la frittura è praticamente un atto dovuto, in tutti gli altri casi la cucina di queste zone tende a evitare la cottura nell’olio, principalmente a causa della sua scarsa disponibilità. Ecco così che quelle palline di impasto a base di farina, uova e poco più finiscono con l’essere cotte direttamente nel miele bollente.

Si tratta di una cottura piuttosto lunga e, va detto, dai risultati incerti. Secondo gli esperti, il rischio è che i dolcetti alla fine risultino piuttosto gommosi. L’alternativa è quella di passarli prima nel forno, con il risultato di trasformarli in un attentato ai denti dei commensali. Lungi dallo scoraggiare le cuoche ashkenazite, i tayglach mantengono comunque la pole position tra i dolci preparati per Capodanno, nei paesi di origine e soprattutto negli Stati Uniti. Qui sono stati introdotti dagli immigrati dell’Est Europa di fine Ottocento e si sono affermati anche dal punto di vista commerciale e al di fuori delle pasticcerie ebraiche.

Accanto alle palline fritte e glassate, un altro dolce simbolo di Rosh haShanà è la torta al miele. Preparata senza l’impiego di burro e di altri latticini, potrebbe come i suoi compagni fritti rischiare di risultare un po’ coriacea. La salva il suo ingrediente principale, che non si limita a donarle dolcezza e il suo bravo carico simbolico, ma si abbina anche a meraviglia con il mix speziato che ne aromatizza l’impasto. Una sua versione alternativa sfrutta, anziché il miele d’api, quello che abbiamo visto essere il suo principale concorrente nell’antichità, il silan o miele di datteri. Questo prodotto può ancora oggi essere acquistato nei negozi specializzati di cucina mediorientale e, per quanto si potrebbe prepararlo anche a casa, richiede una lavorazione troppo lunga per risultare conveniente. Completamente di origine vegetale, può rappresentare una degna alternativa al miele di api anche per quanti, nonostante seguano una dieta veg, non vogliono rinunciare al rito di intingere le fettine di mela nel miele per propiziare un dolcissimo Nuovo Anno.

Torta al miele (di api o di datteri)

Ingredienti

400 g di farina

240 g di miele (di api o di datteri)

120 ml di caffè

60 ml di olio di semi di mais

80 g di zucchero

2 uova

1 bustina di lievito in polvere

½ cucchiaino di bicarbonato

½ cucchiaino di cannella in polvere

½ cucchiaino di zenzero in polvere

noce moscata

1 arancia non trattata

1 limone non trattato

sale

Setacciare la farina con il lievito e il bicarbonato e mescolarla in una larga ciotola con la cannella, lo zenzero, una grattugiata di noce moscata, un pizzico di sale e la scorza grattugiata del limone e dell’arancia. Tenere da parte.

Riunire in un’altra ciotola il miele con il caffè e l’olio vegetale e mescolare con cura. Montare in un terzo recipiente le uova con lo zucchero per 2-3 minuti con uno sbattitore elettrico, fino a ottenere un composto gonfio e chiaro. Unire il composto al miele alle uova e amalgamare bene, poi aggiungervi quello di farina e mescolare con cura per sciogliere gli eventuali grumi.

Versare l’impasto preparato in uno stampo da plumcake foderato con carta da forno bagnata e strizzata. Cuocere nel forno caldo a 160° per circa un’ora, infilando al termine uno stecchino al centro del dolce e proseguendo la cottura per altri 10 minuti nel caso non ne uscisse pulito.

Sfornare, lasciare riposare per 10 minuti, poi sformare la torta e lasciarla raffreddare completamente su una gratella.

 

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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