Intervista a rav Riccardo Di Segni a proposito della specificità liturgica italiana, né sefardita né ashkenazita
“Potrebbe sembrare che il nostro rito sia molto vicino a quello ashkenazita, ma in realtà è esattamente il contrario”, spiega rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma con cui abbiamo fatto una chiacchierata a proposito del rito italiano, così peculiare da non rientrare in nessun’altra grande categoria: è tale e basta. Anzi, continua Di Segni, “Il rito ashkenazita discende da quello italiano, diventando la sua diramazione più rigogliosa”. Già, perché quello che si chiama rito italiano, oggi praticato solo in alcune sinagoghe sparse per la penisola, non è né ashkenazita né sefardita. Il rito o minhàg italiano fa parte del panorama liturgico ebraico mondiale, minore per diffusione ma non per importanza. Ha un proprio formulario di preghiera con differenze specifiche, canti liturgici originali, una specifica tradizione giuridica e ritualistica, ma anche lingue e dialetti giudeo-italiani, folklore e aspetti artistici specificamente localizzati. E quello ashkenazita “Nasce proprio grazie alle migrazioni degli ebrei italiani dalla Puglia, dalla Campania e da altre regioni più a Nord che si sono stabiliti in Germania sin dai tempi di Carlo Magno”, spiega rav Di Segni.
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“Le caratteristiche del rito italiano vanno rintracciate nel formulario della tefillah e quella più importante è liturgica”, continua il rabbino capo di Roma, “Perché contiene alcune particolarità che altri minaghim non hanno. Per esempio la formula del Kadish, in cui manca il riferimento al Messia proprio all’inizio della preghiera, le benedizioni speciali prima e dopo lo Shemà della sera di Shabbat, che altri non hanno, o la preghiera per le donne il sabato mattina. Ma anche questo è un work in progress: bisogna continuamente confrontare i testi scritti con l’uso corrente per vedere le continue modifiche che anche il rito italiano, gelosamente conservato e portato avanti nella storia, ha subito nel tempo. Tanto che le diverse sinagoghe che lo portano avanti hanno a loro volta tradizioni diverse”. Per esempio? “Quello che avviene per Tisha B’Av e le relative haftarot (i brani profetici dopo la lettura del Torà il sabato mattina). A Roma si fa così: una haftarà di contenuto severo prima e tre di consolazione dopo, ma altri, anche italiani, seguendo la regola generale più comune, anticipano il digiuno con tre haftarot severe, a cui seguono sette consolazioni”. Dettagli, che sono il frutto anche delle diverse contaminazioni che ogni comunità, piccola o grande, ha vissuto nella propria storia. Le principali città dove si pratica ancora il rito italiano sono Milano, Roma e Torino, oltre a qualche piccola comunità come quella di Ancona, Bologna, Padova, in molte altre è scomparso per l’assottigliamento demografico, oppure è stato soffocato da altre tradizioni, come a Firenze, attualmente sefardita. Il rito italiano ha poi una sua sede importante a Gerusalemme, nella storica Sinagoga di rechov Hillel, dove è un mix di tradizioni italiane, mentre in un’altra sede si fa esclusivo rito romano.
Ha diversi nomi, come minhag qahal qadosh (“della sacra comunità degli”) italiani, o minhag lo’ez o lo’azim (letteralmente: “di chi parla una lingua straniera”, probabilmente il volgare), o minhag benè Roma (“dei figli di Roma”), a indicare la centralità originale di Roma. Dove però si sono susseguiti rabbini provenienti da altre località, che hanno introdotto parte della propria tradizione nel rito romano stesso. Ecco perché ci sono caratteristiche peculiari, anche all’interno del rito italiano stesso, a cominciare dalla cantillazione tradizionale della Torà, momento centrale della celebrazione liturgica, ascoltabile oggi solo a Milano e Torino, pur con alcune differenze rispetto al modello originario.
Dal punto di vista filosofico quali sono le differenze più profonde tra rito italiano, ashkenazita e sefardita? “Posso rispondere in termini mistici”, continua rav Di Segni; “ nella Kabbalà le sefiroth sono le modalità attraverso cui avviene la rivelazione della divinità al mondo e sono divise in triplette: da un lato la severità e la giustizia, dall’altro amore e misericordia, al centro la sintesi. Si dice che la severità e la forza eroica (Ghevurà) caratterizza gli ashkenaziti, l’amore e la passione (Chesed) rappresenta i sefarditi e la sintesi, la gloria o bellezza (Tiferet) gli italiani. Ed è un ruolo di mediazione indubbio, con particolare attenzione al tema della bellezza, perché la sensibilità italiana all’arte, che si esprime nella musica ma soprattutto nell’arte rituale è unica e speciale”.
Molto interessante ed esaustivo
Grazie mille Franca, e auguri di felice Tu b’Av!