Hebraica
Inferi e inferno nella cultura ebraica

Geografie infernali e viaggi extraterrestri. Tra ironia ed edificazione personale

“Chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?” sono le più classiche delle grandi questioni esistenziali, eterne e universali. Non ci stupiremo, dunque, se anche l’ebraismo abbia sollevato – quasi lettera per lettera – questa domanda. Un esempio è nel commento al trattato di etica Avot dal titolo Avot de-Rabbi Natan (I “Padri” secondo Rabbi Natan), versione B (capitolo 32, folio 35a): “Aqavya ben Mahalal’el dice: Si badi a quattro cose e non si finirà in balia del peccato: da dove vieni, dove vai, in chi sei destinato a trasformarti […] e chi è il giudice di tutti i fatti, benedetto-sia. Rabbi Shimon ben Eliezer dice: Da dove viene? Viene da un luogo di fuoco, e così torna a un luogo di fuoco. Da dove viene? Viene da un luogo al di là e così torna a un luogo al di là. Da dove viene? Viene da un luogo che nessuno può vedere e così torna in un luogo che nessuno può vedere. Da dove viene? Da un luogo d’impurità e così torna a rendere impuri gli altri.

La risposta, che richiama l’attenzione a fiamme, oscurità e sudiciume, è inusualmente tetra. Ma non dimentichiamo la finalità ultima a cui essa è indirizzata: convincere il pubblico del testo a condursi nel più morale dei modi possibili. Evocare le terrificanti disavventure che toccano all’individuo dopo la propria morte costituisce, quindi, anche nella cultura ebraica, un escamotage assai produttivo per l’edificazione personale – escamotage che, oltre a una funzione didattica, esercita un intrinseco fascino immaginativo. Il tremendum è sempre fascinans, d’altronde.
Vediamo allora quali sono, storicamente, le immagini dell’aldilà nel mondo ebraico.

Iniziamo – come sempre – dalla Bibbia: prevedibilmente, non troviamo una trattazione completa e inequivocabile su cosa capiti (e se qualcosa capiti) dopo la morte. Deduciamo però l’esistenza di un regno infero, chiamato Sheol, popolato di ombre che, se opportunamente congiurate da un professionista, possono risalire sulla terra dei vivi. È il celebre caso della vicenda di Saul e della strega di En Dor (1Samuele 28:8 ss.): nonostante il divieto capitale contro la negromanzia da egli stesso istituito, Saul si reca da un’anonima medium per poter parlare e chiedere consiglio allo spirito del profeta Samuele. Spirito che godeva il proprio meritato riposo sotto terra, stando alla prima battuta scambiata con il re israelita: “Perché mi hai disturbato, facendomi risalire?” (1Samuele 28,15).

Il viaggio di Enoc
Il passaggio da un oltretomba – per così dire – neutrale, non lontano dal modello greco-romano, all’inferno tradizionale, ovvero a un aldilà dove i peccatori scontano i propri misfatti, avviene durante l’epoca del Secondo Tempio, con la spiritualizzazione del concetto di peccato. La trasgressione religiosa, cioè, non è più solamente un errore giuridico a cui si possa rimediare ingraziandosi la divinità con un sacrificio – ma diviene una macchia, spesso indelebile, nell’anima di chi la commette. Di conseguenza, si fa necessario un luogo extramondano destinato alla punizione dell’io eterno di chi pecca. E l’immagine di questo luogo assume sin da principio i tratti attraverso cui siamo abituati a pensarlo ancora oggi: fuoco, tenebra e tormenti. La prima occorrenza di una descrizione dell’inferno compare in un testo apocrifo, 1Enoc (conservatosi integralmente solo in lingua etiopica, e composto nelle sue varie sezioni tra il terzo e il primo secolo a.e.v.) capitoli 17-36, parte del cosiddetto Libro dei vigilanti. Lì il patriarca Enoc – che godette del privilegio di essere assunto in cielo anziché morire (Genesi 5:24) – viene condotto in un lungo viaggio extraterrestre nel quale visita il cosmo. E una parte del viaggio è dedicata anche a un tour di un luogo poco celestiale: “E mi portarono in un luogo dove (quelli che c’erano) erano come fiamma ardente e, quando volevano, apparivano sotto sembianze umane. E mi portò in un luogo ventoso, su un monte la cui cima arrivava al cielo. E vidi luoghi splendenti e tuoni all’interno. In fondo (vi erano) archi di fuoco, frecce, le loro faretre, spade di fuoco e tutti i fulmini. E mi portarono fino alla cosiddetta ‘Acqua della Vita’ e fino al fuoco di occidente che è quello che raccoglie tutti i tramonti del sole. E giunsi fino al fiume di fuoco il cui fuoco scorreva come acqua e si versava nel gran mare che si trova verso occidente. E vidi tutti i grandi fiumi e arrivai fino alla grande tenebra e andai dove si muovevano tutti (gli esseri) di carne. E vidi montagne di caligine della stagione delle piogge e il luogo da cui scaturiscono le acque di tutti gli abissi. E vidi la bocca di tutti i fiumi della terra e quella dell’abisso” (Cap. 17, ed. Apocrifi dell’Antico Testamento, vol. 1, U.T.E.T., pp. 492-494).

La geografia dell’inferno sarà un tema disquisito anche nella letteratura rabbinica della tarda antichità. Nel trattato del Talmud Babilonese Sotah 10b, ad esempio, abbiamo un breve riferimento a una suddivisione dell’inferno in sette compartimenti. I nomi di queste bolge si cristallizzeranno nella tradizione letteraria, fino a canonizzarsi (ad esempio nel grimorio medievale Sefer Raziel) come segue: Sheol, Abbadon, Beer Shachat, Tit ha-Yawen, Shaare Mawet, Tzalmawet, Gehinnom – traducibili all’incirca come: Inferi, Perdizione, Pozzo della corruzione, Fango sudicio, Porte della morte, Ombra funebre, Geenna.

La storia di Onqelos
Sempre nel Talmud, incontriamo un altro episodio di necromanzia dal quale emerge una visione inquietante e irriverente di quanto accade agli spiriti peccatori dopo la morte corporea (bGittin 56b-57a). Si tratta della storia di Onqelos (da identificarsi forse con il traduttore del targum omonimo?) che aveva intenzione di convertirsi al giudaismo. Per accertarsi di aver scelto il lotto esatto, il nostro ricorre all’ambigua quanto indispensabile arte della divinazione, grazie alla quale può interrogare tre personaggi famosi defunti su chi sia il popolo più stimato nell’aldilà. La risposta, unanime, è “Israele”. Ma chi sono i tre a cui Onqelos chiede lumi e cosa fanno nel mondo infero? I primo è l’imperatore Tito, che soffre il contrappasso di vedere ogni giorno raccolte e poi cosparse in mare le proprie ceneri. Il secondo personaggio è il profeta gentile Balaam, che sconta i propri peccati immerso nello sperma bollente. Infine, incredibilmente, troviamo niente di meno che Gesù, immerso stavolta in una fossa di escrementi fumanti. Un testo satirico che, nei secoli a venire, costerà al Talmud censure, damnationes memoriae e, persino, distruzione tra la fiamme.

Ma l’ironia sull’aldilà non finisce qui. Nel medioevo, sulle orme del best seller dantesco, il poeta italiano di origine ebraica Immanuel Romano (Roma 1261-Fermo 1328) scriverà sonetti in ebraico sul modello dell’Inferno. Uno di questi sonetti, in particolare, spicca per ironia e comicità: Nel profondo del cuor mio un pensiero ho partorito: Di chiuderla col Paradiso, e andarmene all’Inferno. Ché là troverei fiumi e fiumi di dolce miele, tutte pollastrelle graziose e goderecce là. Che me ne faccio del Paradiso senza degne amanti? Lì solo more più nere del carbone, Solo vecchiacce cespugliose lì. Quanto trista sarebbe l’anima mia in tal compagnia? Che abbiamo da spartire io e te, Paradiso? Cosa mi hai? Donne difettate e uomini vergognosetti, Ed è per questo che per me vali niente. Inferno! Con me non hai che guadagnato rispetto: Da te ogni pollastra è tirata a lucido. Tu sei un tesoro di delizie per gli occhi.
L’ebraismo italiano, così strettamente a contatto con la cultura cattolica circostante, non ha smesso di produrre materiali letterari sul tema infernale. Un altro celebre esempio è dato dal poema drammatico Tofteh Arukh (L’inferno allestito) del rabbi di origine sefardita Mosheh Zacuto (Amsterdam 1625-Mantova 1697). Il testo in versi, probabilmente pensato per la rappresentazione teatrale, si svolge come dialogo tra un (ignaro) rabbi fresco di decesso e le figure demoniache che lo accompagnano nell’ultimo viaggio tra i gironi dell’oltretomba. Fortunatamente per il lettore di lingua italiana, il testo è stato recentemente tradotto da Michela Andreatta per una sapiente edizione con testo a fronte per Bompiani. Un ottimo punto di partenza per esplorare il curioso mondo dell’aldilà ebraico.

Ilaria Briata
Collaboratrice

Ilaria Briata è dottore di ricerca in Lingua e cultura ebraica all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Ha pubblicato con Paideia Editrice Due trattati rabbinici di galateo. Derek Eres Rabbah e Derek Eres Zuta. Ha collaborato con il progetto E.S.THE.R dell’Università di Verona sul teatro degli ebrei sefarditi in Italia. Clericus vagans, non smette di setacciare l’Europa e il Mediterraneo alla ricerca di cose bizzarre e dimenticate, ebraiche e non, ma soprattutto ebraiche.


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