Cultura
Israele al bivio

Quali sono i veri obiettivi della contestatissima riforma della giustizia che vuole ridurre i poteri di controllo della Corte suprema per affidarli al governo. Un braccio di ferro politico, ma anche un evidente conflitto tra potere esecutivo e giudiziario

Il quadro è cambiato. Radicalmente. Anche se i segni premonitori erano già di antica data. Quel che conta, comunque, è ciò che si vede ad oggi. Un panorama, per capirci, dove la polarizzazione politica e, in immediato riflesso, sociale, è diventata nettissima. In Israele, al pari di altri paesi, la svolta a destra porta con sé molte conseguenze. Alcune, al momento, ancora ipotetiche. Altre, invece, già da adesso tangibili. Quanto meno in prospettiva. Occorre quindi partire da una premessa: ciò che sta avvenendo non è in linea di continuità con il passato, ossia con la consolidata tradizione politica, ed anche civile e sociale, dell’intero paese ma ne rappresenta una sorta di discontinuità. Di quale genere e natura, e soprattutto con quali esiti di lungo periodo, bisognerà capirlo. Nessuno è aruspice né, tanto meno, indovino.  Ma è comunque un capitale errore di interpretazione il pensare che tutto sia destinato a rimanere come prima, ovvero identico a sé. Poiché è l’insieme dei paesi a sviluppo avanzato, dei quali Israele è parte a pieno titolo, a conoscere un profondo mutamento. Soprattutto sul piano delle società. Il transito da un capitalismo industriale, con le sue forme di organizzazione della rappresentanza politica, a società in via di digitalizzazione, inesorabilmente chiama in causa la funzionalità di queste ultime sul piano della decisione collettiva e della sua traduzione in fatti. Non sono in discussione la persistenza e la continuità delle funzioni rappresentative delle moderne democrazie (quindi il ricorso al voto tra partiti e liste concorrenti) bensì altri aspetti che, tuttavia, sono non meno importanti di queste ultime. Tra di essi, l’intermediazione svolta dalla molteplicità di corpi intermedi (sindacati, associazionismo diffuso, modelli e pratiche di impegno civile strutturato in organizzazioni non effimere) e, soprattutto, i regimi di separazioni tra poteri.

Si inserisce in quest’ordine di considerazioni il ripetersi, da più settimane, di grandi manifestazioni popolari nelle maggiori città israeliane. In esse confluiscono motivi differenti, come sempre capita quando si assiste ad una mobilitazione popolare. Senz’altro c’è anche l’espressione dello sconcerto degli sconfitti, a partire da una oramai quasi inesistente sinistra che ha un presidio parlamentare ridottosi al lumicino e che, non di meno, si è consegnata alla sostanziale irrilevanza. Tuttavia, il punto d’attacco è al momento soprattutto uno, quello alla riforma parlamentare del potere giudiziario, che intende limitare soprattutto il ruolo della Corte suprema. Dietro questa grande tema in realtà si celano anche altri problemi non meno importanti, a partire da quelli del rapporto con la controparte palestinese e, in immediato riflesso, con l’oramai vasto e ramificato insediamento ebraico in Cisgiordania, che nell’esprimere una netta preferenza per le destre israeliane, manifesta anche, almeno in alcuni suoi componenti, una crescente indisponibilità verso il tradizionale ordinamento istituzionale d’Israele. La destra dei coloni, che è di molto cresciuta, sia sul piano quantitativo che sul versante della capacità di influenzare le decisioni politiche nazionali, è estranea per più aspetti al patto politico (e costituzionale) che dal 1948 in poi si è andato formulando e rigenerando, per arrivare quasi fino ai giorni nostri. Non per questo è un soggetto politico unitario. Semmai, al suo interno, somma componenti tra di loro anche molto diverse, articolate in una vasta gamma che va dal nazionalismo più tradizionale alle posizioni autenticamente eversive di alcune frange estreme. Il minimo comune denominatore è tuttavia la centralità della terra, ossia della dimensione spaziale d’Israele, come asse su cui ridisegnare l’intera identità nazionale.

Il tema della riforma della giustizia, che assomma su di sé diverse ricadute, va quindi inserito anche in un tale quadro di riferimento. Presentata dal nuovo ministro della Giustizia Yariv Levin, ha trovato da subito l’assenso delle forze di maggioranza, a partire dallo stesso Likud di Benjamin Netanyahu e dai partiti ultraortodossi. La formazione politica del premier accusa la magistratura israeliana di accanirsi contro il suo maggiore esponente per ragioni meramente politiche, dando corso ad una vera e propria persecuzione giudiziaria con l’obiettivo di delegittimarlo. Le formazioni religiose, a loro volta, non solo accusano la Corte di interferire con le libertà degli elettori che si sono incaricati di rappresentare (ad esempio, con la limitazione delle esenzioni al servizio militare altrimenti rivendicate dagli appartenenti all’ultraortodossia) ma anche di svolgere un ruolo, quello di giudice di ultimo grado, che non intendono riconoscere come funzione primaria ad un organismo laico.

L’insieme di queste obiezioni, ovvero la loro rilevanza, è pero comprensibile solo se si ha a mente l’organizzazione dei poteri pubblici e delle istituzioni nel Paese. Alcuni elementi, infatti, emergono come dirimenti: l’assenza di una Costituzione (non voluta a suo tempo, con un vero e proprio fuoco di sbarramento, dagli stessi partiti religiosi); la presenza di un sistema di Leggi fondamentali, a carattere costituzionalistico, che stabiliscono e tutelano i diritti imprescindibili nonché i rapporti tra cittadini e amministrazioni; la scarsità di contrappesi istituzionali all’operato dell’esecutivo che, a sua volta, è quasi sempre fortemente condizionato dall’azione della maggioranza parlamentare che lo sostiene; la natura coalittiva – con un vero e proprio bricolage di gruppi parlamentari – di qualsiasi governo; l’unicameralità parlamentare, che di fatto impedisce qualsiasi forma di confronto dialettico tra camera bassa e camera alta; il ruolo meramente rappresentativo del presidente dello Stato, che non ha potere di veto sulle leggi come, invece, è dato in altri sistemi a democrazia rappresentativa.

Da quando il Likud, con la seconda metà degli anni Novanta, è tornato al governo, dopo la stagione di Yitzhak Rabin, le trasformazioni introdotte dai governi di destra proprio sul versante giudiziario hanno, di fatto, incrementato il ruolo della Corte suprema d’Israele in quanto effettivo contrappeso all’azione dell’esecutivo. Con un’ampia successione di sentenze, di fatto non si è impegnata solo ad abrogare o a neutralizzare gli effetti di quelle norme che potevano risultare in contrasto con le Leggi fondamentali ma è più volte intervenuta nel merito delle singole leggi così come degli stessi provvedimenti di natura amministrativa emanati dalle istituzioni pubbliche. La cosiddetta «clausola di ragionevolezza», nella sua tendenziale discrezionalità, permette infatti alla Corte di sovrapporsi al parlamento anche in passaggi decisivi della vita pubblica del Paese. Un esempio recente – al riguardo – sono le repentine dimissioni del ministro Arye Dery, a carico del quale, in seguito a un patteggiamento con sospensione della pena, gravava l’ipotesi di una sospensione pluriennale dall’esercizio dei pubblici uffici. La Corte ha giudicato la sua permanenza al governo come contraria alle leggi e all’interesse collettivo. Benjamin Netanyahu, a quel punto, non ha potuto fare altro che ritirargli le deleghe.

La riforma voluta da Levin e sostenuta da tutta la maggioranza ruota intorno a due assi. Il primo di essi è la trasformazione delle modalità di selezione, candidatura e nomina dei giudici della Corte. Attualmente l’identificazione dei magistrati, anche di quelli delle corti di rango inferiore, è affidata ad una commissione mista, composta da nove membri. Due di essi sono parlamentari (maggioranza e opposizione), due sono titolari di dicasteri nell’esecutivo, due sono espressione dell’associazionismo forense israeliano e tre sono essi stessi già giudici in carica presso la Corte. Va da sé che il margine di influenza per il governo  ruoti intorno ai quattro rappresentanti di sua nomina. Benché l’indirizzo della Corte suprema sia già da tempo orientato in senso conservatore, la sua autonomia è tuttavia elemento di forte attrito con il nuovo esecutivo. Che caldeggia quindi la ricomposizione in undici membri della commissione elettiva. Otto di essi dovrebbero essere di nomina politica. La qual cosa, va da sé, darebbe al governo, un significativo vantaggio in tutte le procedure di selezione dei magistrati.

Il secondo asse riguarda invece il potere che la Corte può esercitare nell’abrogazione, totale o parziale, delle leggi licenziate dalla Knesset. A tale riguardo, la riforma Levin intende cancellare la «clausola di ragionevolezza», riconducendo la discrezionalità giudiziaria al solo esame della pertinenza delle norme rispetto ai principi contenuti nella Leggi fondamentali. A ciò si aggiungerebbe poi la facoltà del parlamento di arrivare ad annullare le stesse decisioni della Corte, votando, a maggioranza semplice e non qualificata, una seconda volta sulla legittimità della legge in discussione, rendendola infine operativa a prescindere dal giudizio altrimenti espresso dagli alti magistrati.

Intorno a queste due opzioni, quindi, nel giro di pochi giorni si è alimentata una discussione vivacissima e la conseguente mobilitazione di piazza. Non solo le opposizioni parlamentari ma anche un grande numero di giuristi si sono espressi negativamente. Lo stesso presidente Isaac Herzog ha pubblicamente dichiarato che la riforma, se definitivamente approvata – poiché è già stata discussa e licenziata in sede di commissione referente, essendo ora in attesa di essere dibattuta in aula – creerebbe «gravi preoccupazioni per gli impatti negativi sulle fondamenta democratiche dello Stato di Israele». La richiesta, rivolta ad entrambi gli schieramenti, di giungere ad un compromesso, se in un primo momento è sembrata in via di accoglimento da parte di Simcha Rothman, esponente della destra radicale nonché presidente della commissione parlamentare che ha seguito l’iter della legge, di fatto è poi stata azzerata dall’azione della maggioranza, che ha proseguito sul suo cammino senza coinvolgere né, tanto meno, negoziare alcunché con l’opposizione.  Gli stessi lavori in commissione sono stati costellati da accesi diverbi e temporanee espulsioni di parlamentari.

L’aggravio decisionale attribuito alla Corte suprema nell’attuale sistema istituzionale e legale del Paese è riconosciuto da molti. Così come altrettanti rivendicano la necessità di un riequilibrio dei poteri, nel senso della loro maggiore concorrenza. Rimane il fatto che la riforma voluta dall’attuale maggioranza, oltre ad attribuire all’esecutivo un’influenza pressoché insindacabile, determinerebbe anche una situazione per molti aspetti disallineata rispetto ai sistemi costituzionalisti vigenti, impedendo ad un organismo diverso dal parlamento di valutare la liceità, la legittimità e la stessa legalità delle norme che esso stesso licenzia. I suoi oppositori hanno quindi paventato l’ipotesi della «morte della democrazia». I suoi sostenitori, invece, dichiarano di volersi pronunciare contro il fatto che «il potere supremo su quasi ogni questione della vita politica [sia] nelle mani di un’aristocrazia giudiziaria auto-perpetuante, non eletta, la quale gestisce il paese non secondo una legge scritta ma in base alla propria visione del bene» (Russel Shalev).

La limitazione del potere giudiziario è parte integrante dell’accordo di coalizione che ha portato Netanyahu per la settima volta ad occupare lo scanno di premier. Al nocciolo della contesa, nei fatti, vi è la contrapposizione tra diversi modi di intendere il potere. Mentre sul versante politico e parlamentare avanza l’idea che solo chi è «eletto dal popolo» possa, in ultima istanza, decidere dell’interesse collettivo, sul piano giurisdizionale la magistratura intende se stessa come l’autentico ed esclusivo organismo che è chiamato a vigilare sulla tutela della democrazia. I suoi detrattori la descrivono come perlopiù depositaria esclusiva della «dottrina del guardiano». Così, a tale riguardo: «i guardiani, piuttosto che agire come argini nelle circostanze più estreme, si sono costituiti come sovrani alternativi ai cittadini e alla Knesset». Ed ancora: «se la Knesset dovesse adottare politiche che limitano i diritti dei cittadini israeliani, saranno prontamente espulsi alle prossime elezioni. Ciò è in contrasto con la Corte Suprema, che è isolata dalla responsabilità popolare e non deve affrontare nessuna conseguenza per la legislazione giudiziaria o la creazione di specifici indirizzi politici».

Proprio perché uno squilibrio di fatto sussiste da tempo, ma non sarà in alcun modo sanato dalla volontà del governo Netanyahu, è bene ricordare che l’epicentro delle controversie sul ruolo della Corte si era già determinato quasi quatto decenni fa, quando l’alta magistratura intervenne con una sentenza che riguardava l’esenzione degli studenti delle yeshivot dall’espletamento del servizio militare. Il campo ultraortodosso, non a caso, oggi più che mai vicino alla destra di governo, costituiva già allora un terreno minato rispetto all’intera partita dei diritti e dei doveri civili e di cittadinanza. Pronunciandosi contro le esenzioni, di fatto la Corte nell’oramai lontano 1988 aveva deciso di venire meno a quella pratica di astensione, la dottrina della «giurisdizionalità», per la quale invece dichiarava la non competenza giuridica su alcune materie che semmai riguardavano e richiamavano, per la loro stessa natura, la negoziazione e la loro soluzione per parte di soggetti diversi dalle magistrature medesime.

La dottrina della «ragionevolezza» rivista e rafforzata si inscrive quindi in un quadro di cambiamenti delle funzioni dei massimi organi istituzionali israeliani, trasformatisi significativamente dagli anni Ottanta in poi. Per usare il linguaggio dei costituzionalisti, si tratta del farsi di quella «Costituzione materiale» che non corrisponde alle regole formali, come tali inserite in norme di diritto, ma a consuetudini che poi diventano prassi ineludibili. L’instabilità politica  del Paese ha peraltro concorso molto ad un tale esito. Una figura innervata e, al medesimo tempo, espressione di una tale traiettoria rimane Aharon Barak, presidente della Corte per una decina di anni (tra il 1995 e il 2006)  nonché suo membro per oltre un quarto di secolo. Durante la sua presidenza ha sostenuto un  approccio basato sull’interventismo giudiziario, in base al quale il tribunale supremo non era tenuto a limitarsi all’interpretazione legale dei fatti segnalatigli ma anche, e soprattutto, ad impegnarsi a colmare le lacune della legge attraverso la produzione di sentenze vincolanti. Questo criterio rimane per molti controverso, incentivando l’opposizione di una parte della politica, ora riconosciutasi in Netanyahu. «Barak vede la Corte suprema come una [forza per il cambiamento della società], ben oltre il ruolo primario di decisore ultimo nelle controversie. La Corte suprema, sotto la sua guida, ha adempiuto a un ruolo centrale ruolo nella formazione della legge israeliana, non di molto inferiore alla Knesset» (Ze’ev Segal, nel 2004). L’estensione del ricorso alla dottrina della ragionevolezza ha quindi implicato, in più di un caso, soprattutto sul piano dell’annullamento degli atti di natura amministrativa, notevoli frizioni con i diversi governi succedutisi nel frattempo. Il ricorso alla Corte è stato esteso anche a soggetti terzi, ossia individui o gruppi d’individui non direttamente coinvolti nelle questioni fatte oggetto di parere legale vincolante, permettendo ai cittadini estranei alle singole vertenze di adire le vie del tribunale superiore. Fino al punto di teorizzare la sussistenza di un potere di annullamento nei confronti di tutte quelle norme che contrastassero con la natura costituzionalistica delle Leggi fondamentali.

La questione dell’evidente conflitto di poteri, tra esecutivo e giudiziario, è tuttavia soprattutto un braccio di ferro politico che il governo Netanyahu rilancia con forza e potenza. Per molti, con deliberata prepotenza. Poiché al centro della contesa non c’è solo il grado di legittimazione e lo spazio di azione dei singoli poteri ma, più in generale, la rinegoziazione dei complessi rapporti di forza tra di essi nel momento della radicalizzazione della politica nazionale. Un tema strategico, quindi, soprattutto in un’età, quella nella quale stiamo vivendo, dove le correnti populiste rivendicano un po’ ovunque, in base all’investitura popolare di rappresentanza, di potere limitare altre intermediazioni e, soprattutto, di rivedere l’assetto degli organi istituzionali a favore delle funzioni di governo.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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