Cultura
Israele: lo Stato e la divisione dei poteri

Gli attacchi terroristici, I diritti, il rapporto con la Corte Suprema, l’intermediazione sociale e le manifestazioni di piazza dopo l’insediamento del nuovo Governo: una riflessione

Dunque una nuova serie di attentati sta costellando le vie di Gerusalemme e le strade d’Israele. Dopo l’attacco terroristico di inizio Shabbat, con sette vittime, a Neve Yacoov, tra cui due novelli sposi e una donna ucraina residente per ragioni di lavoro, è seguita la sparatoria causata da un tredicenne proveniente dall’area di Silwan. Il tutto, in un clima sospeso tra apprensioni, timori e tensioni. Non è solo il rinnovarsi del contenzioso con la controparte palestinese a pesare. Semmai è la situazione politica che si è generata nel Paese a costituire un interrogativo. Dentro e fuori i confini nazionali.

Ha detto lo scrittore David Grossman: «Incontro sempre più persone, soprattutto giovani, che non vogliono continuare a vivere qui. Che si sentono alienati da quanto accade e ciò li rende, a malincuore, degli estranei in patria. Israele, come lo conosciamo oggi, ha smesso di essere la loro casa e, per non soffrire a causa di questo senso di estraneità, si sono rifugiati in una sorta di “esilio interiore”. È una sensazione che comprendo, ma fa male. Perché lo Stato di Israele è stato fondato per essere il luogo nel mondo in cui ogni ebreo, e il popolo ebraico, si sentano a casa. E se così tanti israeliani si sentono “esuli nel proprio Paese”, è chiaro che qualcosa sta andando storto. […]

Nel ricorrere del settantacinquesimo anniversario dalla sua fondazione, Israele si trova di fronte a una lotta fatale sulla propria identità: sui tratti della sua democrazia, sul ruolo dello Stato di diritto, sui diritti umani. Sulla libertà di creazione e sulla libertà di espressione artistica. Sull’autonomia dell’informazione pubblica. Si tratta di una lotta contro leggi volte a istituzionalizzare il razzismo e la discriminazione, a umiliare le minoranze. Una battaglia contro politici cinici, alcuni dei quali corrotti, determinati a ridefinire la giustizia in modo unilaterale, antidemocratico. E in un batter d’occhio. […] Dietro al programma unilaterale e oppressivo della “riforma giudiziaria”, vediamo una casa in fiamme. E capiamo che se lo Stato di diritto viene danneggiato in maniera critica anche tutte le altre battaglie importanti si disintegreranno gradualmente. Per tutti questi motivi mi rifiuto di essere un esule in patria e penso sia così anche per voi. Altrimenti non saremmo qui. Manifestiamo perché ci rifiutiamo di essere passivi, ci rifiutiamo di rimanere indifferenti. Ci rifiutiamo di essere esuli nel nostro Paese». 

In un clima per nulla disteso, tra ripetute manifestazioni di piazza, che vedono di volta in volta la partecipazione di decina di migliaia di persone, il governo di Benjamin Netanyahu, il settimo nella sua oramai quasi trentennale carriera politica di leader nazionale (e il trentasettesimo nella vita d’Israele, dal 1948 in poi), ha spiegato le vele. L’agenda degli obiettivi, presentata alla Knesset come all’intero Paese, è esplicita nei suoi diversi passaggi: rafforzamento dell’identità ebraica nella sfera pubblica; incremento della presenza israeliana in Cisgiordania; revisione del rapporto tra potere legislativo e poteri giudiziari; incremento del ruolo dell’esecutivo – attraverso i ministri che ne fanno parte – soprattutto nel campo delle politiche di indirizzo di una parte dell’amministrazione pubblica (a partire dalla polizia), quand’anche ciò dovesse comportare una limitazione delle sfere di autonomia di quest’ultima; interventi sistematici rispetto alla criminalità comune, soprattutto, nella comunità arabo-israeliana. A un tale quadro, come ovvio corredo di qualsiasi enunciazione di principio, si accompagnano i rimandi alla necessità di governare i processi inflattivi, intervenendo, laddove possibile, nelle dinamiche economiche, altrimenti oramai quasi auto-referenziate. Si inscrive in una tale logica anche il richiamo alla questione dei trasporti pubblici che, in un paese molto piccolo, ma con una popolazione che oramai supera i nove milioni di abitanti, è un tema strategico della vita collettiva. 

Così, nel suo insieme, le prime guidelines del nuovo esecutivo. Tanto per capirci sulla fisiologia istituzionale israeliana, queste debbono essere presentate al parlamento nazionale almeno un giorno prima che il governo presti giuramento. Come tali, costituiscono una sorta di carta di identità rispetto alla fisionomia e alle intenzione che esso nutre nel merito delle molte questioni legate al Paese. Se le linee guide non sono mai totalmente vincolanti, non trasformandosi quindi in impegni inderogabili e potendo semmai subire anche significative trasformazioni nel corso del tempo, tuttavia indicano priorità, obiettivi e metodi di prassi prevalenti. Peraltro, negli accordi programmatici di coalizione intercorsi tra i diversi partiti che fanno parte dell’attuale maggioranza, sono elencati, o quanto meno evocati, intendimenti da molti ritenuti controversi: la trasformazione della legge che vieta agli esercizi privati di rifiutare servizi ai clienti in base alle proprie “convinzioni religiose”; le modifiche alla legge del Ritorno, che regola l’attribuzione automatica della cittadinanza agli immigrati ebrei, col proposito di escluderne le persone che non sono ebree secondo la Halakhà (ossia, la «legge religiosa»); l’aumento dei finanziamenti a favore degli ultra-ortodossi che studiano i Sacri Testi a tempo pieno e così via. 

Rimane quindi il fatto che se per la Legge fondamentale sul Governo (del 2001), al pari delle consuetudini parlamentari,  la presentazione del programma di governo costituisca un atto in qualche modo obbligato, i margini di discrezionalità poi ascritti ai dicasteri rimangono corposi. In altre parole, concretamente faranno poi quello che potranno. Ciò, per intenderci, non conferisce ad essi un arbitrio assoluto – ogni esecutivo, in Israele come altrove, è soggetto a molte necessità di aggiustamento, solo in parte ascrivibili alla sua volontà – ma comunque un indirizzo di merito che ne connota la specificità d’azione. Quello che più inquieta molti manifestanti, quindi, non è solo lo spazio di azione dei singoli ministri ma soprattutto un programma politico basato sul binomio tra identità e suolo: identità ebraica, formulata tuttavia secondo direttrici particolariste, vincolanti, strettamente legate al ritorno in ruolo non tanto dei “religiosi” quanto di un’idea di desecolarizzazione che attraversa, come una sorta di controcanto, le società nell’età della globalizzazione; suolo inteso come una sorta di simbolismo che sopravanza le necessità oggettive di una società in evoluzione, per invece sacralizzare la terra in quanto espressione materiale di una condizione che sta al di sopra della storia e, con essa – quindi – della mediazione politica.

Ecco quindi, in analitico, per come è stata riportata da Times of Israel nella sua edizione del 28 dicembre scorso, l’agenda del settimo governo Netanyahu:

«Il popolo ebraico ha diritto esclusivo e inalienabile su tutte le parti della Terra d’Israele. Il governo promuoverà e svilupperà l’insediamento di tutte le parti della Terra d’Israele: Galilea, Negev, Golan, Giudea e Samaria. Il governo si adopererà attivamente per rafforzare la sicurezza nazionale e fornire sicurezza personale ai cittadini, combattendo con risolutezza e determinazione la violenza e il terrorismo; il governo agirà per continuare la lotta contro il programma nucleare iraniano; il governo si adopererà per rafforzare lo status di Gerusalemme; il governo si adopererà per promuovere la pace con tutti i vicini, preservando la sicurezza e gli interessi storici e nazionali di Israele; il governo mirerà alla giustizia sociale, sviluppando le regioni periferiche del Paese, riducendo i divari sociali e combattendo senza compromessi la povertà attraverso l’istruzione, l’occupazione e una maggiore assistenza alle fasce più deboli della popolazione.

Il governo agirà per incentivare l’uso dei trasporti pubblici e risolvere i problemi di congestione del traffico sulle strade; il governo avanzerà un piano per far fronte all’aumento del costo della vita e si adopererà per creare condizioni economiche che consentano una crescita sostenibile; il governo considererà la riduzione dei prezzi delle case e l’aumento dell’offerta di appartamenti come un obiettivo nazionale e agirà per abbassare il costo delle abitazioni; il governo adotterà misure per garantire la governance e per ripristinare il giusto equilibrio tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario; il governo agirà per incrementare l’immigrazione ebraica da tutti i paesi del mondo; il governo considererà l’istruzione come una massima priorità nazionale e si adopererà per promuovere riforme nel sistema educativo, garantendo al contempo l’uguaglianza tra tutte le popolazioni nei vari sistemi educativi e rafforzando l’identità ebraica; il governo preserverà il carattere ebraico dello Stato e il retaggio d’Israele e rispetterà le pratiche e le tradizioni dei membri di tutte le religioni nel paese, in conformità con i valori della Dichiarazione di Indipendenza; Lo status quo sulle questioni fra religione e Stato sarà preservato come lo è stato per decenni in Israele, anche per quanto riguarda i Luoghi Santi.

Il governo agirà per affrontare il problema della sicurezza personale nella società araba e per combattere la criminalità nella società araba, nel contempo incoraggiando l’istruzione, offrendo soluzioni adeguate e appropriate per i giovani e investendo ove necessario in infrastrutture nelle località arabe; il governo agirà per promuovere la formazione professionale e l’istruzione nelle professioni tecnologiche al fine di soddisfare adeguatamente le attuali esigenze dell’industria in Israele come importante fattore di crescita economica.

Il governo si adopererà per integrare nella vita sociale le persone con disabilità di qualsiasi tipo, assistendole nella loro istruzione e occupazione, si prenderà cura dei bisogni fondamentali di coloro che non sono in grado di sostenersi e agirà per migliorare la condizione di anziani, disabili e famiglie con molti figli; il governo agirà per proteggere l’ambiente, per migliorare la qualità della vita degli abitanti del paese e per fare in modo che Israele contribuisca allo sforzo globale sulle questioni climatiche e ambientali; il governo si adopererà per rafforzare le forze di sicurezza e garantire sostegno a soldati e agenti di polizia nel combattere e sconfiggere il terrorismo; il governo agirà per il riconoscimento delle alture del Golan come regione strategica con un ampio potenziale di sviluppo e si farà promotore di uno slancio di insediamento, sviluppo e promozione di iniziative nel Golan preservando i suoi valori unici di natura, umanità e ambiente».

Al di là dell’inevitabile ed obbligata genericità dei diversi richiami, così come per ciò che riguarda le esortazioni di principio, rimane poi l’effettiva sostanza, che va invece identificata e indagata nel suo merito. Alcuni elementi, quindi, sono preponderanti rispetto ad altri. Ed in particolare, il rapporto tra identità ebraica e terra (Eretz Israel); il legame tra ebraicità e democrazia (un nodo irrisolto, che si trascina dall’età delle emancipazioni, tra Ottocento e Novecento); la definizione di «ebreo» e di ciò che da essa deriva, non tanto in termini religiosi quanto di cittadinanza. Se gli osservatori internazionali si soffermano sul rapporto con i palestinesi, e quindi sulla politica degli insediamenti in Cisgiordania (dei quali alcuni ministri sono non solo vessilliferi ma esponenti del milieu più radicale, non riconoscendo diritto alcuno alle comunità arabe) per molti israeliani, invece, il vero fuoco della polemica risiede nello spostamento non tanto, o non solo, dell’asse politico verso una destra radicale e “post-istituzionale” (come tale sostanzialmente diffidente, se non estranea, rispetto agli assetti e agli equilibri stabiliti a suo tempo da quanti, nel 1948 ed oltre, forgiarono lo Stato d’Israele) quanto sulle concreta condizioni di coesistenza e divisione tra i diversi poteri, senza le quali nessuna democrazia può continuare a ritenersi tale. 

A tale riguardo, due sono al momento gli elementi di maggiore criticità: l’ebraicità come elemento fondamentale del legame di cittadinanza e il conflitto, a questo punto non solo dichiarato ma pressoché permanente, tra lo schieramento politico della destra le magistrature, a partire dalla Corte suprema, nei confronti della quale l’esecutivo vorrebbe ridurne significativamente l’autonomia. Tra gli israeliani, peraltro, non c’è mai stato unanimismo riguardo a cosa voglia dire essere ebrei. Un paradosso, a ben vedere, fonda uno Stato che si vorrebbe «ebraico» ma i cui cittadini non sono d’accordo su quel che debba implicare tale aggettivazione così impegnativa. Il “dramma identitario” è alla base della fondazione della comunità politica nazionale e si riflette in tutto l’operato del Paese, dalla sua nascita ad oggi. A partire dagli aspetti, in sé essenziali, della giurisprudenza, ossia del modo e dei termini in cui si intendono definire le cose che vanno regolate dalle norme di legge, impegnando tra di loro i cittadini e vincolandoli ad un patto di lealtà verso le istituzioni comuni. 

La svolta che le destre intendono oggi imprimere è l’etnicizzazione delle relazioni civili e sociali, attraverso l’enfatizzazione del legame tra identità collettiva e «terra». L’opzione a favore dell’espansione della presenza israeliana in Cisgiordania, quindi, non risponde solo ad un processo oramai consolidato, radicalizzatosi già alcuni decenni fa, ma anche ad una riscrittura dell’identità ebraica in Israele che, dal magmatico pluralismo che l’accompagna, dovrebbe invece trasformarsi in un monismo basato sul rapporto tra il controllo esclusivo della terra e la sua omogeneizzazione nel paradigma dell’israelianità come vincolo etnico totalizzante. Nella storia dell’ebraismo, l’etnicità non è un dato permanente. Semmai è un costrutto di circostanza. Che non a caso – oggi – ritorna, più in accordo con il netto spostamento verso la destra nazionalpopulista di non pochi paesi a sviluppo avanzato, piuttosto che a dinamiche esclusivamente intestine o endogene ad Israele in quanto tale. Si tratta a tutti gli effetti di un’onda lunga, che si riflette anche su Gerusalemme .  Non è quindi un caso se una parte di quello stesso schieramento di maggioranza osservi con particolare diffidenza la Diaspora, intesa quasi come “cattiva maestra” poiché portatrice di idee e convinzioni che mal si conciliano con l’orizzonte radicale di alcuni esponenti politici adesso al governo.

Netanyahu, leader indiscusso di una non facile coalizione di partiti, sospesa com’è quest’ultima tra la destra nazionalista, quella religiosa e la componente radicale, al netto della sua personale posizione, che sarà giocata soprattutto sulla difficile gestione dei rapporti all’interno dell’alleanza che gli dà sessantaquattro voti in parlamento, dovrà comunque mantenere il rigido controllo della barra di comando. Soprattutto a fronte degli appetiti che da subito si sono manifestati da parte delle componenti più estreme, assurte al governo non tanto per forza propria quanto per debolezza altrui. Lo spazio estremo in Israele – come peraltro anche in molti altri Paesi a sviluppo avanzato – non nasce infatti dentro un progetto politico preciso ma all’interno di un processo di vero e proprio travaso della rappresentanza del disagio sociale, e non solo di esso, dalle componenti politiche tradizionali, sia di estrazione socialista, liberale che popolare, a una nuova forma di adesione politica che intreccia motivi populisti, sovranisti e identitari. Soprattutto, per il tramite della contrazione e dell’annichilimento del criterio dell’intermediazione che, insieme a quello della divisione dei poteri, sono invece elementi imprescindibili di qualsiasi democrazia pluralista. Non è questo, per capirci, un albero maturato nel campo delle destre post-liberali ma è senz’altro qualcosa di cui esse ne raccolgono ora i frutti. Israele, quindi, pur nella sua specificità, è segnata da una sorta di trend generale che è parte della trasformazione in atto delle società democratiche. Che cosa ne sarà, ce lo diranno solo i tempi a venire.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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