Cultura
Israele sotto attacco: un primo commento

Un attacco terroristico, un atto di guerra senza precedenti che avrà conseguenze di lungo periodo. Materiali, politiche e militari

Le analogie con la guerra del Kippur sono molte: i tempi, i modi, forse gli obiettivi. In una giornata di riposo, lo Shabbat, Sheminì Atzeret e Simchàt Torà, Israele è stato attaccato. L’intera parte meridionale del Paese è sottoposta ad una violentissima pressione che parte da Gaza. Nella regione settentrionale, Hezbollah ha animato le sue milizie. Le modalità degli eventi di queste ore presentano alcune affinità con il passato, sia pure con la sostanziale differenza che l’aggressione è, al momento, voluta da Hamas, con il pressoché certo concorso dell’Iran. Non si tratta di un evento destinato a rimanere isolato. Avrà senz’altro conseguenze di lungo periodo. Materiali e politiche.

Le forze armate e di sicurezza israeliane si sono impegnate, pressoché casa per casa, nel tentativo di sgominare i nuclei terroristici che, in un’operazione di gigantesche proporzioni, hanno minacciato un grande numero di insediamenti e centri abitati, a partire da Sderot, facendo diversi ostaggi tra i civili. Le vittime al momento sono più di duecento, ma i conti si faranno a violenze concluse. Nel mentre, i corpi dei soldati israeliani assassinati sono stati esibiti come degli osceni trofei. Al pari delle carcasse di alcuni veicoli militari, blindati e corazzati. Nelle grandi città del Paese le sirene hanno suonato ripetutamente. Israele è stato colto di sorpresa, come cinquant’anni fa. Il cordone di sicurezza israeliano nel meridione, a isolamento di Gaza, è saltato con una sorprendente facilità. Questa, in fondo, è la similitudine più evidente rispetto al passato.

C’è poi il resto. Oltre Gerusalemme, è comunque evidente che sono in gioco altri attori ed obiettivi. Primo tra tutti, l’ipotetico accordo in divenire tra Israele e l’Arabia Saudita, che avrebbe dovuto mettere definitivamente in sicurezza i rapporti politici tra Israele e i Paesi del Golfo. L’Iran va da sé che non lo voglia, intendendo pertanto giocare un ruolo pesantissimo al riguardo. Non di meno, ed è un secondo passaggio, già da tempo è aperta la questione del transito di potere in Cisgiordania, dove l’anacronistico potere dell’ottuagenario Abu Mazen, cristallizzato e ripiegato da almeno due decenni su di sé, è come una sorta di vuota icona: nel momento in cui cesserà, tra i più diretti pretendenti alla sua sostituzione c’è Hamas che, in tale modo, estenderebbe al West Bank il suo dominio. Una parte del mondo musulmano, che per nulla ha digerito i tentativi di “normalizzazione” nei rapporti con Israele, ora valuta gli scenari che si potrebbero aprire di fronte a questa fiammata di inaudite violenze. Che per molti aspetti sembrano assomigliare ad una sorta di guerra, ancorché perlopiù di carattere civile. E che chiama in causa, sia pure tra le quinte, il disagio che da molto tempo attraversa la componente araba della società israeliana. Tanto più dal momento che nei confronti della maggioranza politica che sorregge l’esecutivo in carica, dall’inizio di quest’anno è maturata una diffusa opposizione nella stessa società israeliana.

Un terzo elemento è infatti la tangibile difficoltà nella quale l’attuale governo Netanyahu – che ha costruito, altrimenti, anche sul tema della sicurezza parte della sua credibilità – si trova adesso a dovere operare. L’iniziativa militare è destinata a raggiungere i suoi obiettivi, rintuzzando l’aggressione in corso. Ma il prezzo politico non verrà risolto con il ristabilimento di un qualche ordine, più o meno certo, basato sulla mera compressione dell’avversario. Si apre infatti un nuovo capitolo del conflitto tra Israele, i palestinesi e il mondo arabo. Siamo entrati già da più di due decenni in un nuovo secolo. Il confronto tra Israele e le società arabe e musulmane ha assunto fisionomie del tutto differenti da quelle del Novecento. Anche da ciò bisognerà quindi ripartire, per ritessere una rete di sicurezza che, evidentemente, richiede non solo la capacità di risposta militare ma anche una negoziazione in grande stile che dal 2000 è invece completamente assente. Ovvero, che si consuma solo per piccoli passi, perlopiù con l’intenzione di sanare singole screpolature senza tuttavia avere un obiettivo tanto generale quanto definitivo. Il conflitto è tanto armato quanto politico. Ci vuole forza e determinazione in entrambi i campi, posto che Israele stesso, al suo interno, è attraversato da complesse trasformazioni ed è diviso su molti aspetti del suo medesimo futuro.

Un quarto fattore è la presenza di civili (e militari) israeliani come ostaggi a Gaza. È il tema per molti aspetti più urgente. Bisogna verificare in queste ore, con la più assoluta certezza, quale sia la reale situazione. Poiché il quadro potrebbe essere ancora più fosco di quanto già non sia al momento in cui scriviamo queste poche, immediate, affannate, tumultuose note. Si ha come l’impressione che si sia verificata una violenta scossa sismica alla quale potrebbe accompagnarsi un lungo sciame, destinato a durare nel tempo.

 

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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