Cultura
Israele, un nome eterno

Nel libro di Georges Bensoussan una riflessione sull’opinione comune per cui la nascita dello Stato di Israele nel 1948 è una conseguenza quasi diretta della Shoah

Lo storico Georges Bensoussan nel suo libro intitolato Israele, un nome eterno, esordisce con queste parole: “Soltanto tre anni separano l’assoluta tragedia del popolo ebraico dalla sua rinascita politica e nazionale avvenuta grazie alla costituzione dello Stato di Israele. Questa vicinanza nel tempo conferisce ai due avvenimenti una dimensione quasi provvidenziale e alimenta l’idea che siano intimamente legati”. Questa sensazione di vicinanza tra i due avvenimenti è parte integrante del sentire odierno, come se Israele fosse una riparazione offerta dall’Europa alle vittime ebree, o ancor peggio come una rivincita degli ebrei di fronte all’antisemitismo. In entrambi i casi questa analisi farebbe scomparire l’ideologia del sionismo e i suoi molteplici significati, mentre il mito di una resurrezione nazionale scaturita dalla catastrofe e veicolato dall’influenza esercitata dai più diversi orizzonti politici e intellettuali è un’ipotesi rassicurante e devastante allo stesso tempo. Lo Yom HaShoah (Giorno della Shoah), lo Yom HaZikaron (Giorno del ricordo dei caduti in guerra) e lo Yom Ha’atzmaut (Giorno dell’indipendenza) sono tre festività civili vicine non solo nel corso dell’anno ma anche e soprattutto nella semantica nazionale di Israele. Lo Stato ebraico comincia così ad acquisire la consapevolezza che il proprio passato deriva anche dalla storia europea (l’evento della Shoah che si è consumato in Europa) e non solo mediorientale, distinguendo la sfera religiosa del giudaismo da quella della stessa identità israeliana.

È doveroso considerare che, in un primo momento, i sopravvissuti al dramma della Shoah erano testimoni di una realtà totalmente aliena da quella conosciuta da chiunque li incontrasse, inclusi i propri familiari venuti dopo di loro, pertanto risulta estremamente difficile parlare di universalità della Shoah in Israele. Tuttavia in Israele negli anni Sessanta, la memoria non è una pagina bianca, e sarebbe sbagliato considerare il processo Eichmann come l’unico punto di partenza di una riscoperta della Shoah o della scoperta della diaspora. Il processo di conoscenza della Shoah era iniziato da qualche anno e le associazioni dei sopravvissuti, costituitesi negli anni Cinquanta, avevano giocato in ciò un ruolo indubitabile. Due anni dopo il processo, sono queste ad organizzare i primi viaggi in Polonia, dando inizio ad una dinamica che farà del genocidio un elemento cardine dell’identità israeliana, facilitando l’identificazione dei suoi giovani con le vittime. Così Israele non è vissuto più come l’antitesi della Diaspora, ma come il prolungamento del mondo ebraico.

Dopo la metà degli anni Settanta, la memoria della Shoah si è ad un tempo individualizzata (da collettivo il cordoglio è divenuto familiare) ed estesa ai luoghi dello sterminio. Inglobando un pubblico sempre più vasto e oltrepassando quello dei soli discendenti dei morti e dei sopravvissuti, essa vede moltiplicarsi i monumenti commemorativi e le cerimonie di omaggio.

Il ruolo centrale del giudaismo e della Shoah progrediscono parallelamente e in modo concomitante nell’identità israeliana di oggi. Nel 1946, in un opuscolo di istruzioni per le reclute, l’esercito assicura che “la Shoah è la nostra coscienza nazionale e il cammino attraverso il quale noi comprendiamo a nostra volta come percepiamo il mondo nel quale viviamo”.

Lo Stato d’Israele trova la sua principale ragion d’essere come porto sicuro per gli scampati; contraltare della precarietà e vulnerabilità della Diaspora, deve riscattare la vergogna e l’umiliazione della Shoah. Come scrive il quotidiano Davar nel 1951, “il monumento più idoneo alla memoria degli ebrei e lo Stato d’Israele, dove si esprime la speranza del popolo e dove trovano rifugio gli ebrei che desiderano vivere una vita libera e indipendente”. Con il tempo e in particolare con la guerra del Kippur nel 1973 quel porto è diventato meno sicuro per gli stessi israeliani. Al mito dell’eroismo subentra così progressivamente quello della rinascita, della redenzione in Terra d’Israele.

Un passaggio espresso dall’ultimo episodio realizzato a Yad Vashem nel 2005: il museo della storia della Shoah realizzato da Moshe Safdie.

Israele oggi conta più di 400 monumenti commemorativi dedicati alla Shoah: nel corso del tempo la commemorazione ha abbandonato sempre più la forma del libro del ricordo (Yitkor Buch), per assumere quella del monumento eretto all’interno del cimitero.

Dunque, dopo essere stati a lungo come ombre, ignorate o sconfessate, i sopravvissuti sono oggi al centro dell’immaginario israeliano. Questo avviene grazie ad alcuni percorsi scolastici, in cui la storia del genocidio è stata a lungo insegnata mediante l’identificazione con le vittime, quasi come una storia familiare. Un gruppo di pittori israeliani approfondisce fin da subito questo legame con la diaspora annientata. Moshe Bernstein, anch’egli sopravvissuto, organizza nel 1964 un’esposizione sul tema del villaggio (shetl) distrutto. Le pubblicazioni memoriali sul mondo disperso si moltiplicano negli anni Settanta, a dimostrazione che il processo ad Eichmann non è all’origine di questa fioritura di pubblicazioni, anche se le favorisce: gli anni 1961 e 1967 rappresentano i due picchi di questo flusso editoriale. Promulgata il 9 agosto 1953, la legge sulla creazione ufficiale di Yad Vashem obbliga all’insegnamento della storia della Shoah. All’epoca si parlava di “lezioni di Shoah” in un insegnamento che era ridotto all’essenziale. “Avevamo vergogna della Shoah come di un vizio terribile, visibile da tutti. Ci aggrappavamo all’eroismo come ad un residuo di fierezza, come ad un diritto di mantenere alta la testa”, scrive Haim Gouri, parlando di quei tempi.

Oggi l’identità ebraica oscilla tra due poli, stretti dall’opinione comune in uno strano rapporto: Auschwitz e Gerusalemme, poiché il peso della Shoah nella vita politica israeliana è più forte che mai, anche se questo non era il sogno dei pionieri, né quello dei padri fondatori. Lo Yishuv, e poi lo Stato d’Israele dei primi decenni, saranno tentativi di occultare questa realtà con un silenzio quasi terapeutico e pieno di vergogna. Con il pervenire all’età adulta da parte della seconda generazione e con il processo Eichmann, la parola pubblica cede il posto a quella individuale del sopravvissuto. Il progetto sionista non potrà non uscirne modificato.

La tragedia della Shoah ha cementato, in ogni aspetto della cultura e dell’identità ebraica, l’eterogenea azione israeliana. Non si è trattato di una manipolazione della memoria, né di una sua strumentalizzazione, semplicemente, nel tempo, con lo studio storico e la parola dei testimoni finalmente ascoltata, da una parte all’altra del paese, ci si è convinti del fatto che ciò che le vittime ebree europee avevano patito, non era dovuto ad un caso nella storia, ma ad un crimine legato alla nascita, che avrebbe potuto portare ancora alla stessa orribile morte.

Eirene Campagna
collaboratrice

Classe 1991, è PhD Candidate dello IULM di Milano in Visual and Media Studies, cultrice della materia in Sistema e Cultura dei Musei. Studiosa della Shoah e delle sue forme di rappresentazione, in particolare legate alla museologia, è socia dell’Associazione Italiana Studi Giudaici.


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