Cultura
Israele, vita quotidiana in tempo di guerra

O della consapevolezza collettiva che nulla sarà più come prima

La regione meridionale d’Israele, almeno fino ad Ashqelon e ancor più a nord, Ashdod, è stata al centro dell’aggressione terroristica. La pioggia di razzi è servita soprattutto a cercare di immobilizzare la popolazione civile, nel mentre gli uomini di Hamas violavano, e quindi varcavano fisicamente, la complessa (ma inefficace) linea di difesa che avrebbe dovuto invece garantire la separazione tra il territorio d’Israele e la Striscia di Gaza. Le due città israeliane sono abitualmente sulla linea di tiro dei razzi di Hamas. Tuttavia, ad essere stati fatti obiettivo dell’aggressione da terra, sono stati soprattutto i centri abitati in prossimità del nord di Gaza. Almeno una ventina, dove si è combattuto a lungo, fino alla mattinata di lunedì 9 ottobre. Tra di essi alcuni kibbutzim e moshavim. Che sono parte integrante del territorio, ossia della sua antropizzazione. Ciò che le prime, sofferte testimonianze hanno offerto come resoconto di quanto è successo, in una sorta di caos iniziale – dove i più non comprendevano ancora cose stesse per davvero succedendo – al quale è poi invece sopraggiunta la consapevolezza che non ci si trovava di fronte all’ennesimo lancio di razzi, bensì ad un’aggressione coordinata, è soprattutto lo stato d’animo che molti hanno vissuto in quel mentre.

Tanto per capirci, la prima linea di divisione non intercorre solo tra chi abita in prossimità dei Territori palestinesi (quindi Gaza e West Bank) e coloro che – invece – risiedono in aree non troppo vicine ad essi. Semmai si dà tra quanti potevano attendersi qualcosa di riconducibile a quanto è poi concretamente successo, ed il resto della popolazione, altrimenti disattento. Beninteso, Israele, la cui superficie non supera i 22mila chilometri quadrati, è facilmente raggiungibile, in ogni sua parte, da chi volesse, potesse e intendesse impossessarsi dei suoi territori. Tuttavia, i minuti, e ancor più i secondi, nonché la consapevolezza repentina delle circostanze, possono fare la differenza tra la vita e la morte. In quanto lo Shabbat di venerdì 6 ottobre (21 Tishrì 5784) si stava avviando nel migliore dei modi, tra la cena di ingresso della festività e l’attesa del riposo. All’alba di sabato, invece, tutto Israele è stato letteralmente investito dal ciclone che si stava manifestando nella sua imprevedibile potenza.
Le sirene, infatti, hanno iniziato a suonare. La vera linea di divisione, a quel punto, non era solo territoriale (chi stava al Sud e chi, invece, al Nord del Paese; i primi, si intende, maggiormente esposti a quanto stava avvenendo rispetto agli altri). Semmai, il problema era diventato quello che opponeva chi aveva un luogo sicuro nell’edificio di residenza, in cui riparare, e quanti – invece – ne erano sprovvisti. I palazzi antecedenti alla prima guerra del Golfo (1991), per capirci, non sono stati costruiti per resistere ad un attacco, al medesimo tempo, missilistico e da terra. Semmai, in Israele, si danno molteplici punti di raccordo e incontro, quelli che noi europei conosciamo come «rifugi», luoghi in cui celermente convergere nel momento del pericolo. Ma se il vero pericolo sta nelle strade,  come si può correre verso luoghi di protezione collettiva, senza rischiare di essere catturati?

Tra gli insediamenti dispersi nel territorio meridionale, in prossimità di Gaza, quello che conta era quindi semmai di dotarsi, nella propria residenza, di «mamad», ossia di una stanza di sicurezza, una sorta di security room, potenzialmente inespugnabile, che, proprio dai trascorsi dettati dalle vicende della prima guerra contro Saddam Hussein (1991), è divenuta il cuore pulsante della protezione di un’intera famiglia. In origine era una sorta di stanza antimissile. Oggi è divenuta anche un’area domestica protetta dall’aggressione dei terroristi. Così, al riguardo, un’italiana che da tempo ha scelto di vivere in Israele, ovvero una dei diciottomila italalkim attualmente residenti, posto che un migliaio di essi è stato mobilitato tra riservisti e personale di prima linea: «il moshav nel sud d’Israele nel quale vivo si chiama Kokhav Michael. Noi siamo meno sotto tiro, ma da sabato mattina è un continuo di allarmi ed esplosioni. Ci siamo rifugiati della stanza antimissile da sabato mattina. Io, mio marito e il piccolo di due anni, a cui abbiamo raccontato che facevamo un gioco e dormivamo tutti insieme. Lui è stato bravissimo, ma adesso vuole uscire, giocare fuori, vedere i suoi amici, però non si può ancora”. Per lunghi tratti sono mancate informazioni, ma “è stato da subito chiaro che si trattava di una cosa diversa: appena si è diffusa la notizia dei terroristi infiltrati nei kibbutzim abbiamo capito che stava succedendo qualcosa di gravissimo». Così anche da ciò che molti siti ebraici italiani, ci stanno restituendo. Le testimonianze in sé, tali poiché transitano attraverso soprattutto il web e gli oramai abituali mezzi di comunicazione, a partire da quelli raggiunti dagli smartphone, restituiscono il chiaro suggello della situazione che si sta vivendo: un generale senso di sconcerto ed incertezza; la crescente consapevolezza che da ciò che sta avvenendo, nulla sarà più come prima; il ripetersi di qualcosa che da sempre accompagna gli israeliani, e che ora ritorna con maggiore prepotenza, ossia quella commistione tra claustrofobia (l’essere circondati da elementi ostili) e abbandono (il non essere compresi, in quanto «ebrei», nella propria richiesta di sopravvivenza).

In queste ore è seguita una mobilitazione collettiva. I riservisti hanno immediatamente risposto alla chiamata. I reparti di sicurezza si sono prodigati per liberare le aree, del sud del Paese, ancora occupate dai terroristi di Hamas. Va da sé, tuttavia, che una tale questione non sia solo di ordine militare. Se mai lo sia stata. Poiché chiama in causa, ancora una volta, le ragioni della sopravvivenza d’Israele come Stato degli ebrei al pari della sua convivenza con il mondo arabo-musulmano. Ad oggi, Israele intero è come un paese che si muove silenziosamente, attraverso gli scarponi anfibi della sua gioventù. E non solo essa.

Le analogie con la guerra del Kippur sono molte: i tempi, i modi, forse gli obiettivi. In una giornata di riposo, lo Shabbat, Sheminì Atzeret e Simchàt Torà, Israele è stato attaccato. L’intera parte meridionale del Paese è sottoposta ad una violentissima pressione che parte da Gaza. Nella regione settentrionale, Hezbollah ha animato le sue milizie. Le modalità degli eventi di queste ore presentano alcune affinità con il passato, sia pure con la sostanziale differenza che l’aggressione è, al momento, voluta da Hamas, con il pressoché certo concorso, se non con la diretta regia, dell’Iran. Non si tratta di un evento destinato a rimanere isolato. Avrà senz’altro conseguenze di lungo periodo. Materiali e politiche.

Le forze armate e di sicurezza israeliane si sono impegnate, pressoché casa per casa, nel tentativo di sgominare i nuclei terroristici che, in un’operazione di gigantesche proporzioni, hanno minacciato un grande numero di insediamenti e
centri abitati, a partire da Sderot, facendo diversi ostaggi tra i civili. Le vittime potrebbero essere centinaia. I conti si faranno a violenze concluse. Nel mentre, i corpi dei soldati israeliani assassinati sono stati esibiti come degli osceni trofei. Al pari delle carcasse di alcuni veicoli militari, blindati e corazzati. Nelle grandi città del Paese le sirene hanno suonato ripetutamente. Israele è stato colto di sorpresa, come cinquant’anni fa. Il cordone di sicurezza israeliano nel meridione, a isolamento di Gaza, è saltato con una sorprendente facilità. Questa, in fondo, è la similitudine
più importante rispetto al passato.

C’è poi il resto. Oltre Gerusalemme, sono in gioco altri attori ed obiettivi. Dall’ipotetico accordo in divenire tra Israele e l’Arabia Saudita,  la questione del transito di potere in Cisgiordania,  il disagio che da molto tempo attraversa la componente araba della società israelianae la diffusa opposizione della società israeliana nei confronti della maggioranza politica che sorregge l’esecutivo in carica. Lo scenario sembra aprire un nuovo capitolo della storia, dove niente sarà più come prima.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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