Cultura Musica
It Sounds Jewish #8

Darius Milhaud, tre assaggi del geniale compositore francese. Anzi, provenzale, francese ed europeo, come amava definirsi

“Ci vediamo per l’aperitivo al Bar Gaya… ah no, scusate, si chiama Le boeuf sur le toit…”

Potrei aprire il pezzo dandovi quest’appuntamento. Va da sé che, a Parigi, quel Bar Gaya non c’è più da tempo. E non troverete traccia nemmeno del Bue sul tetto (evidentemente, c’è una certa ossessione ebraica per cose piazzate sul tetto in ambito teatral-musicale, dal violinista al bue…). Peccato, sarebbe stato molto più interessante e divertente delle solite, tristissime happy hours di Milano Londra e Parigi e Amburgo o Anversa…

Perché le sorprese non sarebbero mai mancate, vicini a quel calderone scoppiettante di inventiva magmatica, di gioia e allegria del far musica, di curiosità insaziabile per ogni oggetto capace di produrre suoni che risponde(va) al nome di Darius Milhaud. Sì, insomma, il protagonista principe degli eventi e delle chiacchiere piccole del Bar Gaya, colui che mise il Bue sul tetto.

Eccolo, il pezzo. Surreale, sorprendente, imprevedibile. Scritto come colonna sonora di un inesistente film di Charlie Chaplin e divenuto subito un balletto, pieno di melodie contrastanti, ritmi sovrapposti, tanti echi del Brasile e dei tropici… Scenario di Jean Cocteau, con personaggi da circo, nani, ballerine (mooolto prima del PSI di Craxi e del pentapartito…), allibratori, pugili, una donna travestita da uomo, ecc. ecc….

Chi è, o meglio fu, Milhaud, l’autore di questo pezzo (che è del 1919)? Signore e signori, il più misconosciuto fra i grandi del Ventunesimo secolo. Più prolifico di Bach e Mozart, capace di scrivere pezzi in più tonalità e modi antichi simultanei, con molteplici strutture ritmiche, con fonti di ispirazione a volte lontane e (per allora) esotiche, quali il jazz e il musical degli albori o il Brasile, ove visse anni felicissimi verso la fine della Prima Guerra Mondiale e subito dopo; oppure vicinissime, come i contadini della sua amatissima Provenza, o come le melodie tradizionali del suo rito, del suo minhag oramai quasi scomparso, il minhag del Comtat Venaissin, un’enclave del Midi francese che comprendeva anche quattro comunità ebraiche (Carpentras, Avignone, Cavaillon, L’Isle sur la Sorgue) separate dal resto della Francia a partire dall’inizio del XIV secolo e poste sotto l’autorità papale fino alla Rivoluzione del 1789. L’unico territorio della Francia odierna, assieme all’Alsazia, dal quale gli ebrei non furono mai espulsi. Ma anche capace – Milhaud – di far suonare oggetti di uso comune, di mettere in scena concerti solistici per armonica o percussioni, affascinato ancor prima di John Cage dalla meravigliosa simultaneità vitale ed esistenziale di tanti suoni e rumori, la sinfonia reale della vita

Innamorato del jazz, del café chantant, dei choros brasiliani, delle musiche modali, di quelle atonali. Capace di mettere in musica con assoluta felicità, stupore, curiosità, di tutto. Un catalogo di macchine agricole (Machines agricoles), per dire. Chi va ad esaminare le sue partiture autografe, le trova sicure, senza ripensamenti, prive quasi del tutto di cancellature o correzioni. Scrivere, creare, era un continuum del tutto privo dell’aura sacrale legata al concetto di opus, un qui-ed-ora felice, cosciente, diretto, fluido, anche nelle creazioni più tragiche. E non ne mancarono, nell’immenso catalogo di Milhaud. Come in Ani maamin, concepito assieme ad Elie Wiesel.

Biograficamente, e non solo, protagonista dell’avanguardia parigina del Primo Dopoguerra, esploratore del Brasile e della sua musica colta allora sconosciuta (vedi gli echi del pianismo di Ernesto Nazareth in tanti lavori), onnivoro, lanciato perfino sulla musica concreta fatta di suoni e “strumenti” della vita reale, appassionato della realtà sonora in quanto tale con tutta la sua ricchissima cacofonia, Milhaud ci si presenta come un meraviglioso antidoto alla dotta serietà di tanta avanguardia anche nei suoi protagonisti ebrei (pensate ad Arnold Schönberg, e in Milhaud troverete la perfetta antitesi). Si rifugia in America nel 1940, per tornare in Francia a liberazione avvenuta. Fino quasi alla fine della sua vita rimarrà comunque professore di composizione al Mills College di Oakland (suo successore, il grandissimo “minimalista” Terry Riley. Per i rockettari fra voi, andate a sentirvi Baba O’ Riley degli Who. Il Baba è lui, Terry).

Fra i tanti lavori di ispirazione ebraica (l’opera Ester de Carpentras, per esempio, ma anche il Service Sacré), spicca una composizione della vecchiaia. Fu commissionata all’inizio degli anni 70 nel secolo passato dalla Braemer Foundation di Philadelphia assieme alla Comunità ‘Edat Yeshurun della medesima città. Doveva essere un quartetto d’archi (Milhaud ne scrisse non pochi) basato su temi ebraici. E come nel Service Sacrè, Milhaud si rivolge ai temi della sua infanzia, quelli di Avignone, del suo particolarissimo Beith ha-knesseth. Attinge ad una raccolta gloriosa ed importante, le Zemirot Israel keMinhag Carpentras, pubblicate nel 1885 da Jules Salomon e Mardochée Cremieu.

Ne nasce un Étude per due violini, viola, violoncello (il quartetto d’archi, cari miei) basato su un’infinità di temi della sua tefillà, né ashkenazita, né sefardita. Di Carpentras: temi della tefillà di Rosh HaShanà e di Kippur, temi di tutti i giorni. Una armonizzazione semplice, quasi del tutto lineare, una musica scarna, ridotta alle sue componenti essenziali ma con estrema sapienza: i segni tipici della saggezza, del “saggio consiglio dell’età”, come è scritto in tanti testi ebraici. Una semplicità disarmante, quella semplicità cui è così difficile arrivare, nella parole di Bertold Brecht. Il degno omaggio di un compositore prolifico, felice, geniale, sorridente, immensamente nel solco della vita (“in the key of life”, per dirla à la Stevie Wonder), come si conviene ad ogni buon ebreo, che per tutta la sua esistenza si definì così: “Un ebreo provenzale, francese ed europeo”. Precisamente in quest’ordine.


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