Riflessioni intorno alla benedizione dei kohanim, da dare nella gioia al singolo e al popolo
Insieme all’ascolto del suono dello shofar (soprattutto a capodanno) e alla preghiera di neilà (che chiude i riti di Kippur), la birkat kohanim ossia la benedizione che i sacerdoti dànno a tutto il popolo di Israele nelle grandi feste ebraiche, in diaspora, è uno tra i momenti più solenni e significativi della liturgia sinagogale. In Israele è data ogni giorno, ma durante la festa di Sukkot e di Pesach, dunque due volte l’anno, essa ha luogo al kotel ha-ma‘aravì, al Muro occidentale, con centinaia di kohanim che, ricoperti dai loro tallitot, stendono le mani o alla lettera ‘volgono i loro palmi’ verso il popolo trasmettendo così la speciale protezione divina.
La benedizione consiste nella recita ad alta voce in ebraico, stando ritti su luogo elevato e a piedi scalzi, di tre versetti della Torà (Bemidbar/Nm 6,24-26): “Il Signore ti benedica e ti protegga; faccia il Signore risplendere il Suo volto su di te e ti sia propizio; il Signore volga verso di te il Suo volto e ti conceda pace!”. Si tratta di una berakhà collettiva, sebbene i verbi siano al singolare, la più antica delle Scritture ebraiche, che probabilmente costituiva un momento topico dei riti del Tempio, di cui i sacerdoti erano i più alti dignitari, e che è sopravvissuta nei riti religiosi in ogni sinagoga del mondo. Davvero straordinario: è forse l’anello più certo – attraverso la continuità patrilineare dei sacerdoti, i kohanim (pl. di kohen, in tutte le sue varianti) che sono i discendenti di Aronne – che lega la pratica cultuale dell’Israele biblico alla liturgia ebraica odierna. Potremmo dire che la sua antichità, scientificamente parlando, precede la Torà stessa, nella quale è incastonata in forma di un comando divino: “Il Signore disse ancora a Mosè: ‘Parla ad Aronne e ai suoi figli e di’ loro: Voi benedirete così i figli di Israele dicendo…’” (ivi 6,22-23).
Una recente pubblicazione in onore di Mordekhai Mordi Arazi Hakohen zl, opera di rav Reuven Roberto Colombo e stampata da Morashà [senza ISBN né colophon], dal titolo Birkàt kohanìm. La benedizione sacerdotale (42 pagine), offre l’occasione per studiarne il testo attraverso la sua rifrazione nelle grandi fonti del pensiero rabbinico: dai Talmudim ai midrashim, dai commentatori medievali, Rashì in primis, ai maestri a noi più vicini, come il Ben Ish Chai, ma soffermandosi anche sulla halakhà che si trova nello Shulchan ‘arukh, il codice halakhico più autorevole del giudaismo, di cui è redattore il talmudista e mistico sefardita Joseph Caro (XVI secolo), integrato per gli ashkenaziti dalle glosse del coevo rabbino polacco Moshe Isserles.
Dei molti spunti e dettagli offerti dal testo di rav Colombo vorrei sottolineare la diversità della benedizione che i sacerdoti, che si alzano per questo compito, devono recitare prima di pronunciare la birkat kohanim. Una benedizione prima della benedizione? Esattamente, perché per loro – discendenti di Aronne, fratello di Mosè – come abbiamo visto sopra, quella benezione sui ‘figli di Israele’ è una vera e propria mitzwà, un precetto, e come per altre azioni religiose (ad esempio la lettura dal sefer Torà) va preceduta e poi seguita da berakhot specifiche. Nel caso della benedizione sacerdotale, i kohanim devono dire: “… che ci ha santificato con/nella santità di Aharon [Aronne] e ci ha ordinato di…”. Le berakhot lunghe dicono di solito: “… che ci ha santificato con i Suoi precetti e ci ha ordinato di…”. Perché questa differenza? Spiega rav Colombo: “Un kohen non deve benedire il pubblico solo come un dovere imposto dalla Torà ma anche come un atto di vero amore e rispetto, spinto dal carattere di Aharon che era noto per mostrare sempre grande riguardo e affetto per ogni componente del popolo ebraico”. Infatti questa benedizione preliminare termina specificando che la birkat kohanim va data be-ahavà, “con amore”. Sebbene il giudaismo rabbinico si sia sviluppato nei secoli come una ‘religione di laici’ imperniata sullo studio e l’osservanza della Torà, il ruolo dei sacerdoti non è del tutto scomparso con la distruzione del Tempio, è stato anzi preservato proprio al servizio del popolo ebraico, chiamando per primo un kohen alla lettura della Torà, nel precetto del pidyon haben o riscatto del primogenito e, non da ultimo, nella birkat kohanim. Onori del ruolo, che come tale è ben protetto dalla siepe dei molti oneri fissati dalla stessa halakhà.
Altro dettaglio importante, le mani. Che devono essere lavate prima della berakhà, e in fase benedicente vanno distese, a palmi aperti all’ingiù e con le dita unite a due a due (come si vede spesso nei cimiteri ebraici, per marcare le tombe dei kohanim). “La mano è emblema di aiuto – spiega il curatore del libretto – ma anche di unione e di ipotetico schermo, e aprendosi ci insegna che il Santo benedetto, anche se nascosto, continua a guardare il Suo popolo, a rapportarsi con i propri figli e non li abbandona mai. Ecco perché le mani dei kohanim devono essere purificate prima della benedizione e non dal kohen stesso, ma da altre persone…”. Bella la citazione dal midrash Tanchumà (Nasò 8) secondo il quale è come se Iddio stesso “guardasse attraverso gli spazi vuoti tra le dita della mani dei sacerdoti, come sbirciando attraverso un reticolo [cfr. Cantico 2,9] quando essi allungano le dita”. Infatti i kohanim sono quasi totalmente avvolti dal tallit, impedendo che gli astanti guardino all’uomo-kohen invece di concentrarsi sull’ascolto delle parole che ripete (suggeritegli dal chazan o dall’officiante, per non sbagliare), invece di gustare la berakhà stessa di cui i kohanim sono meri strumenti, dato che ovviamente la berakhà viene dal Signore. “Dietro le mani del kohen stese verso Israel, simbolo di unione e appoggio, si nasconde quindi la presenza divina e il Signore, dalle fessure generate dagli spazi tra le dita, scruta il volto di ogni ebreo… panim, il viso, e penim, l’interiorità”, annota rav Colombo.
È un momento intenso: in un consapevole silenzio, questa berakhà viene ricevuta dal singolo ma anche da tutta la comunità nel suo insieme; ci si raggruppa in nuclei familiari e il capofamiglia alza e allarga il proprio tallit per accogliere figli e nipoti; nella azrat nashim (il matroneo) le nonne e le madri si stringono a figlie e nipoti; la berakhà esprime e consacra così anche i vincoli affettivi, familiari, e non raramente gherim e discepoli finiscono sotto il tallit del rav, che, come è noto, è ‘come un padre’ per i suoi allievi. Studiando l’halakhà si apprendono molte cose. Ad esempio, la riflessione se un kohen non sposato possa dire questa berakhà. Perché sollevare il problema? Perché secondo alcuni maestri “chi vive senza moglie vive senza gioia e chi benedice deve essere in uno stato gioioso”. Chi fa tali osservazioni è il Rema, quel rav Isserles che ha aggiunto glosse allo Shulchan ‘arukh, e secondo il quale ‘dalle sue parti’ era usanza che anche i kohanim non sposati benedicessero, a meno che non volessero; ne conclude: non vanno forzati. “Solo la persona felice è portata a benedire” pensa e scrive il Rema. Non è chi non veda che questo pensiero contiene una verità non solo halakhica ma anche psicologica, esistenziale: in fondo proprio la gioia sembra essere la chiave di questa benedizione divina, veicolata attraverso questa categoria di persone che nasce kohen senza merito (e, ovviamente, senza demerito!), una gioia che non a caso si esprime pubblicamente soprattutto nelle feste di Pesach e di Sukkot.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma