Cultura
La crisi politica e istituzionale d’Israele

La «riforma» del sistema giudiziario israeliano, per come è stata congegnata dai suoi proponenti, costituisce il primo di una serie di passi che potrebbero portare Israele a seguire le cosiddette «democrature»

Israele sta vivendo una crisi storica, quale mai si era registrata dal 1948 in poi. Non riguarda la sicurezza dei suoi confini, ad oggi tuttavia ancora  sottoposti a pressione. Non rimanda al terrorismo come minaccia tanto camaleontica quanto persistente. Non demanda al solo rapporto con il mondo arabo, che pure ha conosciuto mutamenti significativi, almeno sul piano diplomatico, in questi ultimi anni. La sua crisi, ad oggi, rinvia semmai ad un problema strategico, presente in tutte le società nazionali ma ancora più pronunciato in quelle d’avanguardia (sì, la parola a certuni non piace per nulla ma ha una sua ragione d’essere), tali poiché costituiscono come dei segnavia nel percorso collettivo nell’umanità: il futuro condiviso, sarà ancora quello democratico dove, con tutti i limiti del caso, si intende generare cittadinanza sulla base di un vincolo di lealtà costituzionale, oppure subentrerà un’appartenenza etnica, clanica, neofeudale, magari gabellata come “innovazione” ed efficace risposta alle grandi crisi di coesione che invece attraversano – e disarticolano – le società medesime, mettendone in discussione l’interna coesione?

Non a caso, infatti, la crisi di identità d’Israele è, al medesimo tempo, una minaccia così come un’opportunità: minaccia dal momento in cui si reiteri, in forma maniacale, ossessiva, conativa, in una specie di solipsismo politico, ideologico e culturale, sempre i medesimi canoni d’interpretazione di una realtà che, invece, sta mutando. Tanto velocemente quanto radicalmente. E per la quale non abbiamo ancora gli attrezzi intellettuali per comprenderne appieno i nuovi lineamenti, semmai solo appellandoci riguardo alla necessità di muoversi comunque in tale senso; opportunità, nella misura in cui è specchio di ognuno di noi, costituendo una sorta di panoplia delle nostre speranze, delle delusioni, delle paure, delle illusioni così come della fiducia in qualcosa a venire.

Il pensiero collettivo, soprattutto quello cristallizzato in formule auto-consolatorie, propende per un’ideologizzazione forsennata della lettura dei fatti: dai rimandi ai «nazi-sionisti», denunciati dagli abituali detrattori, ai «traditori», accusa formulata da chi si è invece eletto a nume tutelare di un’inesistente «identità etnica», che si darebbe in quanto dimensione statica, astorica, mitografica, impermeabile. Con il corredo, nell’uno come nell’altro caso, di invettive, sarcasmi, improperi, ingiurie personali, insolenze, maledizioni, oltraggi e quant’altro. Sia ben chiaro: la crisi d’Israele, se divenisse non mediabile con gli strumenti a disposizione, quindi non più componibile proprio perché volta a mettere in discussione lo stesso riscontro in base al quale la democrazia esiste come spazio di condivisione e mediazione, rischierebbe di divenire crisi dell’ebraismo contemporaneo. Generando fratture destinate a rifrangersi nei tempi a venire. Il problema, quindi, non è solo il presente ma, soprattutto, il futuro. Di ognuno di noi, ebreo e non.

La premessa, venendo ai fatti, è una sola: la «riforma» del sistema giudiziario israeliano, per come è stata congegnata dai suoi proponenti, costituisce il primo di una serie di passi che potrebbero portare Israele a seguire, nel corso del tempo, le cosiddette «democrature». Il modello politico di riferimento, infatti, è una commistione tra l’Ungheria di Viktor Orbán, l’America di Donald Trump, la Polonia di Mateusz Morawiecki, il Brasile di Jair MessiasBolsonaro e l’India di Narendra Damodardas Modi. Il fatto che alcuni di questi nomi (altri se ne potrebbero ancora fare) siano, al momento, non in sella al potere ma in opposizione a quello esistente, nulla toglie alla loro capacità di esercitare una fortissima attrazione verso il rispettivo elettorato di riferimento. In attesa – si intende – di tornare al governo. Poiché un autocrate, quand’anche egli non sia assiso in maniera permanente agli scranni del comando, non cesserà mai di perseguire l’obiettivo di ritornarci il più presto possibile.

Benjamin Netanyahu, nel suo narcisismo coalittivo (la capacità di raccogliere intorno a sé, quindi alla sua persona, al suo egocentrismo, le forze politiche più radicalizzare, spaccando Israele in due parti), sta seguendo e assecondando questa deriva. Ha compreso, a modo suo, che la riformulazione integrale del proprio ruolo individuale – quindi delle sue fortune non solo politiche ma anche personali – gli deriva, ad oggi, dall’assecondare il declino delle democrazie liberali, sociali e inclusive. Lo fa, in tutta franchezza, per calcolo d’interesse, non per prospettiva ideologica di fondo. Ossia, vuole essere colui che salva se stesso dai suoi medesimi guai non solo perché intende, nel caso di una comprovata e sanzionata colpevolezza, rimanere impunito ma anche poiché ritiene che l’animo profondo d’Israele, in fondo, sia rappresentato da lui medesimo. Nell’età dell’egotismo di massa, lui ne costituisce un esempio cristallino. Qualcosa del tipo: se io sono il «re Bibi», allora il Paese è esclusivamente una mia proiezione. Proprio per questo è (anche) un potenziale autocrate. Non per cattiveria, e neanche solo per un ardito calcolo politico, bensì per un maturato auto-convincimento, tale in quanto si rafforza da sé: i confini di una nazione, in questo caso, corrispondono a quelli del suo leader, al suo pensiero, al suo modo di concepire il mondo.

Non si tratta di follia ma di un’implacabile consapevolezza, ovvero che il tempo della consensualità, delle mediazioni, delle negoziazioni (con le opposizioni) sia finito. Così come l’età del pluralismo civile, sociale, culturale. Dopo di che, se il premier appare fortemente ripiegato su questa posizione, di taglio personalistico, non è meno evidente che essa si traduca in fatti politici, poiché raccoglie ed esprime spinte, provenienti da una parte della stessa collettività nazionale, che sono volte a trasformare irreversibilmente l’equilibrio tra i poteri. Più che una specifica razionalità di fondo dell’elettorato – ovvero una corrispondenza tra intenzioni e progetti, tra intuizioni e azioni – è come se un’onda lunga, di piena, che catalizza diffusi malumori, si sia riversata nel voto. Che ha premiato, quanto meno nelle ultime elezioni, quelle del 1° novembre 2022, le formazioni politiche maggiormente radicalizzate, tutte collocate a destra, accomunate, nelle loro diversità, da un obiettivo di fondo, ovvero quello di mutare gli assetti istituzionali. Tema, quest’ultimo, quanto mai delicato in una democrazia.

Non di meno, in una sorta di rullo compressore, da ciò ne potrebbero derivare profonde trasformazioni all’interno dello stesso Paese, quanto meno in prospettiva, per quello che riguarda la stessa composizione demografica, le regole d’uso comune, gli spazi – individuali e collettivi – di libertà, la nozione e la prassi di giustizia sociale e così via. Se è vero che non sono le leggi a fare la società (semmai, in una democrazia rappresentativa, dovrebbe valere l’esatto opposto) è non meno fondato il riscontro che ciò che queste permettono (e soprattutto proibiscono) possa favorire, così come osteggiare, l’evoluzione di una collettiva sul lungo periodo. Di mezzo, poi, c’è anche l’autonomia e l’imparzialità degli ordinamenti amministrativi, ossia dell’intero apparato pubblico che è chiamato ad applicare le leggi medesime.

È infatti un classico del conflitto politico, soprattutto se vissuto da destra, l’accusare questi ultimi di appoggiare, o comunque agevolare, gli indirizzi di fondo volti a tutelare gli interessi della controparte, ossia la «sinistra». Tale imputazione viene formulata secondo un registro comunicativo tipico del populismo: nel nome di un’asserita «par condicio» (il qualunquistico regime di pensiero di senso comune per cui «uno vale l’altro») si reclamano maggiori spazi per sé stessi, dichiarandosi al contempo in ciò legittimati in quanto espressione dei crescenti malumori della collettività. Questo modo di procedere, da tempo sta catalizzando le scelte elettorali, non solo in Israele, traducendo il diffuso malessere che è presente in diverse parti delle nazioni a sviluppo avanzato in una sorta di richiamo alla rottura dei bilanciamenti tra poteri, additati come tra le maggiori cause dello stato di insoddisfazione, se non di prostrazione, vissuto da non pochi.

Se per tante persone, i deficit di cittadinanza (a partire da quella sociale, ovvero dal declinante ruolo di redistribuzione collettiva delle risorse svolta da ciò che conosciamo come «Stato») sono tali da determinare una caduta di credibilità verso la medesima, e con essa di lealtà verso le istituzioni esistenti, allora si deve procedere ad una disintegrazione degli ordinamenti esistenti. Poiché solo da un ritorno ad appartenenze elementari (le tribù della post-modernità?), organizzate secondo criteri completamente diversi da quelli di una democrazia inclusiva (ovvero pluralista), deriverebbero le risposte definitive alle angosce dei tempi correnti. A partire dalla paura di un declassamento collettivo, soprattutto verso nuove forme di povertà. La frattura che attraversa Israele non è poi troppo diversa da quella che costituisce la faglia divisiva in altri paesi, tra cui la stessa Italia: da una parte un ceto medio in via di retrocessione, spesso disilluso, che cerca rappresentanza politica ma, soprattutto, protezione e tutele anche attraverso un radicale cambiamento delle regole di vita collettiva; dall’altra, quelle componenti che, invece, vedono e temono i rischi di un cedimento della democrazia. In mezzo, per così dire, ci stanno quelle formazioni politiche e quei leader che giocano la propria partita in un senso (difendere l’esistente) oppure nell’altro (stravolgerlo in misura significativa).

Anche dalla consapevolezza della complessità di tutto ciò, quindi dei rischi per la democrazia in quanto tale, è derivata la risposta di quella parte della società israeliana che, già da gennaio, ma con un’apprezzabile visibilità a partire soprattutto dai due mesi successivi, si è pressoché permanentemente mobilitata nelle strade e nelle piazze, per esprimere il suo netto ed incontrovertibile diniego alla trasformazione di un insieme di poteri democratici, comunque già fragili di per sé, in un qualcosa d’altro. Non è solo un impegno legato ad un singolo capitolo di cronaca politica. Se fosse altrimenti, l’esacerbata contrapposizione, la netta polarizzazione, la costanza degli appelli che si sono susseguiti nel tempo, si sarebbero già esauriti. Mentre invece, nulla è cessato, assumendo piuttosto la natura di un movimento permanente. Riscontro che costituisce, al medesimo tempo, l’elemento di forza (spontaneità e continuità in piena autonomia) ma anche il vero limite: se è vero che i sondaggisti rilevano un significativo calo di credibilità di Netanyahu e della sua coalizione, avendo inibito con le sue secche prese di posizione anche una parte dei suoi iniziali sostenitori, al momento non esiste nessuna formazione politica israeliana che sia in grado di tradurre il dissenso collettivo in un preciso indirizzo di governo, alternativo a quello esistente.

In altre parole, benché il premier risulti sempre più spesso isolato e appannato, forse in parte troppo condizionato dai membri più radicali del Likud come il ministro Yariv Levin (che già nel 2009, alla sua prima elezioni in parlamento, affermava che «occorre fare una vera rivoluzione nel sistema giudiziario! Non tutto è giustificato e i giudici che occupano posizioni estreme che contraddicono i valori fondamentali condivisi dalla maggioranza delle persone non sono qualificati per decidere su questioni di valore, che sono una questione di politica e visione del mondo»), ad oggi il conflitto politico in Israele si è comunque continuato a giocare come se fosse un plebiscito pro o contro la sua figura. Che è esattamente in terreno sul quale Netanyahu risulta essere ancora vincente. Il fatto che i suoi alleati di governo più estremisti (come Sionismo religioso di Bezalel Smotrich, Potere ebraico di Itamar Ben-Gvir e Noam di Dror Aryeh) cerchino di piegare tutto ciò a proprio favore, eventualmente liberandosi, in un ipotetico futuro, dell’attuale primo ministro quando la sua figura dovesse risultare politicamente obsoleta, nulla toglie allo stallo che il Paese continua a vivere. Poiché Netanyahu, per rimanere in sella, ha bisogno di alimentarsi del processo di radicalizzazione in atto. Dopo di che, per più aspetti, rischia di pagarne poi lo scotto, rivelandosi al pari dello sciamano che evoca gli spiriti senza saperne gestire gli effetti. Il vaso di Pandora, in altre parole, è al momento nelle sue mani. Un segno del connubio tra impasse politica (mancanza di alternative) e polarizzazione («con me oppure contro di me») che continua ad attraversare Israele oramai da molto tempo. In un clima di drammatizzazione permanente.

Torniamo ancora una volta ai presupposti, per poi arrivare agli eventi di queste ultime settimane. La cosiddetta «riforma giudiziaria» in atto, proposta già a gennaio di quest’anno e approvata in primo passaggio, nella sua natura di disegno di legge, dal parlamento il 24 luglio (con la significativa assenza dell’opposizione, che ha boicottato il voto) ha ad obiettivo prioritario la limitazione dei poteri della Corte suprema israeliana. In ciò, al netto delle frizioni da tempo esistenti tra il potere esecutivo e quello giudiziario nello specifico d’Israele, è espressione, e quindi parte, di una più generale contrapposizione esistente, in non pochi paesi, tra governi e magistrature. Il punto da cui partire è, infatti, questo. Gli esecutivi chiedono sempre più spesso “mano libera”. Ossia, la possibilità di decidere da sé, quindi in assenza di significativi vincoli d’azione e contrappesi. Demandano alla scelte popolari, pertanto alle elezioni, intese come una sorta di espressione plebiscitaria, il mandato in tale senso.

È senz’altro vero che in regimi democratici nessuno governo viene votato alle urne. Semmai, si sceglie la composizione della maggioranza parlamentare che lo sosterrà, traducendo quindi le sue volontà in leggi. Ma non è meno fondato il fatto che i rapporti tra esecutivi e legislativi (i parlamenti) sempre più spesso, in questi ultimi decenni, si siano tradotti un una prevalenza dei primi sui secondi. Si tratta, ancora una volta, di una questione complessa, che non può essere liquidata in poche parole di circostanza. Non a caso, attraversa un po’ tutte le democrazie a sviluppo avanzato. Israele tra queste.

Nello specifico, vale la pena di ricordare che il progetto israeliano di riforma giudiziaria ha come capisaldi alcuni peculiari obiettivi, Due in particolare: la secca limitazione dell’influenza che le magistrature esercitano sul processo legislativo così come la strategica questione dell’ordine pubblico. Quest’ultimo, in tutti i suoi aspetti, a cose fatte, dovrebbe essere delegato al solo esecutivo. Le due facce della medaglia, per capirci, si presentano di pari passo. Poiché se nel primo caso si tratta di sottrarre alla Corte suprema il controllo di aderenza degli atti di governo (e delle pubbliche amministrazioni) alle Leggi fondamentali (ovvero alle norme di diritto che regolano gli aspetti cardinali della vita democratica), nel secondo si tratta di ridefinire il ruolo delle forze dell’ordine, ovvero della polizia, e in prospettiva dell’esercito, subordinandole alla volontà dei singoli ministri competenti. In altre parole, trasformandosi in un’emanazione di questi ultimi.

Vale la pena di ricordare che nelle democrazie le forze armate e quelle dell’ordine, se non sono mai amministrazioni indipendenti, dovendo sempre e comunque rispondere, nel loro operato, alle autorità istituzionali e politiche, tuttavia hanno un mutevole ma imprescindibile margine di autonomia. Senza di esso, infatti, rischierebbero di trasformarsi in milizie al soldo – per così dire – dei singoli politici. Che sono e rimangono persone private, quand’anche, per l’appunto, siano chiamati a svolgere un ruolo pubblico sulla base della delega (il voto parlamentare) ottenuto dai cittadini. A tutto ciò si aggiunge la volontà di imporre il controllo governativo sulle nomine dei singoli magistrati e la limitazione dell’autonomia dei consulenti legali dei ministeri.

Come sempre capita per qualsiasi progetto di riforma, quest’ultima non è “figlia di nessuno” ma espressione di una specifica parte politica che trova nelle figure di Yariv Levin, vicepremier e ministro della giustizia, e di Simcha Rothman, presidente del comitato parlamentare per la Costituzione, le leggi e la giustizia, le due maggiori figure di riferimento. Nel suo concreto operare, nel corso del tempo, la Corte suprema ha fatto proprio la capacità di invalidare quelle leggi (e gli atti amministrativi) che possano risultare in contrasto con i principi basilari contenuti nelle Leggi fondamentali, ovvero l’insieme delle norme di valore costituzionale (in assenza tuttavia di una Costituzione formale) dalle quali nessun’altra norma di diritto dovrebbe derogare. Tutto ciò, nelle intenzioni dell’attuale governo Netanyahu, invece cesserebbe. Una volta per sempre. Poiché, per esso, ovvero per i suoi esponenti, quello che conta non è il maturare di equilibri tra poteri bensì il fatto che il governo sia un sorta di asso pigliatutto. «Lo vuole il popolo!» è il motto che ha sostituito quello dei crociati, «Deus lo volt». Poiché siamo dinanzi ad una vera e propria guerra di “religione”, dove la rivendicazione, per sé, di una ragione incontrovertibile, è alla base delle fratture che da essa ne vengono fatte seguire.

La riforma del sistema giudiziario porta con sé anche altre trasformazioni, volte comunque a ridimensionare l’autonomia della magistratura, nel suo insieme, rispetto all’azione del potere politico ed in particolare al governo. Benjamin Netanyahu ha ripetutamente affermato che tali modifiche si imporrebbero in ragione dell’eccessiva ingerenza del potere giudiziario nella vita pubblica, condizione che avrebbe determinato un forte disequilibrio tra i legislatori eletti democraticamente e i magistrati selezionati in base a criteri concorsuali, favorendo i secondi.

Alla prima parte, non ancora in essere (la Corte suprema, il 26 luglio, ha annunciato che avrebbe accolto eventuali ricorsi o contestazioni nel merito della legittimità e della liceità dell’impianto del disegno di legge approvato dalla Knesset), ne dovrebbero seguire altre, relative all’ampliamento dei poteri delle corti rabbiniche, consentendo la soluzione delle vertenze civilistiche, in presenza di un comune assenso, con il ricorso alla legge ebraica (che non corrisponde al diritto israeliano, trattandosi di disciplinamento religioso); l’introduzione di limitazioni al ricorso al voto di sfiducia e ai più generali criteri per i quali viene dichiarata la decadenza di una legislatura; un rafforzamento dei vincoli alla procedibilità penale nei confronti dei primi ministri in carica; più in generale, una maggiore discrezionalità da parte dei poteri politici nell’attribuzione di incarichi pubblici, consolidando l’aspetto fiduciario piuttosto che quello professionale, quest’ultimo informato a imparzialità nell’esercizio delle funzioni. Benché in prossimità di Pesach (il 27 marzo) il premier Netanyahu avesse dichiarato una parziale moratoria nell’iter legislativo, e nonostante le ripetute richieste da parte del Presidente dello Stato Isaac Herzog di fermarlo completamente, per poi procedere ad una mediazione che coinvolgesse anche le opposizioni, il parlamento ha poi votato a favore della prima parte della controversa riforma (in presenza dei 64 deputati della maggioranza e con la significativa assenza di quelli della minoranza). A margine di ciò, la Corte suprema, sia pure in via ancora informale, al parti del Procuratore generale dello Stato, si sono espressi sull’illegittimità dell’intero pacchetto legislativo.

Nel mentre il conflitto politico era in corso (di fatto avviato già il 4 gennaio, con la dichiarazione del ministro della giustizia Levin rispetto alla necessità di una riforma generale delle magistrature), si è quindi andato costituendo e sovrapponendo un vasto movimento popolare, che perdura a tutt’oggi. Il fuoco delle proteste si è sviluppato a Tel Aviv (la prima manifestazione risale al 7 gennaio, organizzata tuttavia essenzialmente come espressioni di opposizione e rigetto alla composizione radicale ed estremista dell’attuale governo). Nelle settimane successive, anche Gerusalemme e Haifa sono state coinvolte dalla mobilitazione, che è andata ingrossando sempre di più le sue schiere, contando decine di migliaia di manifestanti. Inoltre, le proteste (sit-in, flash mob, raduni, marce in ambito metropolitano, blocchi stradali temporanei, cortei spontanei e organizzati, così come alcuni scioperi selettivi, ossia su base politica, in alcuni settori produttivi) hanno assunto un carattere tanto periodico quanto persistente. Le piazze e le strade sono a tutt’oggi letteralmente “invase” il sabato sera, alla conclusione della giornata festiva ebraica.

La presenza in Kaplan Street, a Tel Aviv, già alla fine di gennaio, aveva infatti raggiunto una consistenza media che variava, a seconda delle giornate, dai 50mila ai 150mila partecipanti. Il 7 febbraio i leader della protesta, tra i quali Moshe Ya’alon, già capo di stato maggiore delle forze armate e poi ministro della difesa fino al 2016, avevano affermato di volere proclamare uno sciopero generale di carattere politico. Il 1° marzo, quindi, è stato dichiarato dagli organizzatori delle proteste come «giornata nazionale di interruzione delle attività». I blocchi stradali (a partire da quello dell’Highway 20, l’autostrada Ayalon a Tel Aviv, snodo fondamentale nelle comunicazioni su ruota del Paese), che si sarebbero poi ripetuti nelle settimane e nei mesi successivi, sono stati sciolti, a volte con durezza, da parte della polizia, attraverso il ricorso a idranti, granate assordanti, cariche a cavallo. Sia Netanyahu che il ministro della Sicurezza nazionale Ben-Gvir, nella circostanza, avevano parlato di manifestanti «anarchici». Quello stesso giorno, la moglie del primo ministro, recatasi dal parrucchiere a Tel Aviv, era peraltro rimasta bloccata per circa tre ore da una folla inamovibile, prima che la polizia potesse scortarla fuori dai locali. Il 5 marzo era la volta della El Al, che annunciava l’indisponibilità dei suoi piloti a portare in Italia il premier e la moglie Sara per una visita di Stato. Il 9 marzo la protesta dava poi corso ad una «giornata nazionale della resistenza», con l’ennesimo blocco della circolazione nelle grandi arterie urbane e suburbane, l’incolonnamento di un grande numero di veicoli indirizzati verso l’aeroporto Ben Gurion (per impedire i transiti da e per l’aeroscalo), l’azione di «Brothers in Arms», movimento che raccoglie una parte dei riservisti dell’esercito, con la simbolica occupazione militare degli ingressi al Kohelet Policy Forum, il think tank della destra conservatrice (il cui motto è «sovranità nazionale, libertà individuale»), già ispiratore del «Nation-State Bill» del 2018, la legge fondamentale su «Israele Stato nazionale del popolo ebraico» e che, come tale, ha concorso alla formulazione di indirizzi relativi alla riforma giudiziaria.

Il 23 marzo seguiva quindi una «giornata nazionale della paralisi». I numeri dei partecipanti, a questo punto, erano così cresciuti da condizionare lo stesso governo nelle sue intenzioni. Mentre le componenti più radicali dell’esecutivo, favorevoli ad azioni sistematicamente repressive contro i manifestanti, chiedevano di proseguire l’iter parlamentare a prescindere, esponenti della parte più moderata, a partire dal ministro della Difesa Yoav Gallant, esprimevano invece la necessità di fermare temporaneamente il percorso legislativo, dinanzi al rischio sia di eccessive fratture sociali sia a «una minaccia chiara, immediata e tangibile alla sicurezza d’Israele».

La risposta di Netanyahu, a quel punto, è stata il licenziamento del prestigioso ministro (vero e proprio anello di congiunzione con le forze armate e di sicurezza), a fronte dell’ulteriore inasprimento della proteste di piazza, che sono arrivate ad interessare almeno centocinquanta località urbane. Significativo il fatto gli atenei israeliani (con l’eccezione dell’Ariel University, situata in Cisgiordania) abbiano quindi annunciato uno sciopero a tempo indeterminato, inclusa la cessazione di tutte le lezioni e della ricerca per protestare contro le azioni del governo. L’intervento del presidente dello Stato Isaac Herzog, figura istituzionale con pochissimi poteri ma impegnato in una sorta di costante mediazione politica, si è quindi imposto. Il 27 marzo Herzog ha pubblicamente dichiarato, rivolgendosi a Netanyahu e al governo che «per il bene dell’unità del popolo di Israele, per il bene della responsabilità, vi chiedo di interrompere immediatamente la legislazione. Mi rivolgo a tutti i leader del partito della Knesset, della coalizione e dell’opposizione come una sola [unione, invitandovi a] mettere i cittadini della nazione al di sopra di ogni altra cosa e a comportarsi in modo responsabile e coraggioso senza ulteriori indugi». A quel punto, già la grande centrale sindacale Histadrut, così come lo stesso comparto high-tech, avevano messo in agenda una sciopero dei dipendenti e la serrata delle imprese.

In risposta alle crescenti pressioni, il premier ha quindi accettato di ritardare di un mese la discussione parlamentare sulla legislazione giudiziaria, a fronte del ripetersi delle proteste. In accordo con Itamar Ben-Gvir, che aveva nel mentre minacciato di dimettersi se il disegno di legge fosse stato sospeso, lo stesso Netanyahu si è fatto garante della costituzioni di una Guardia Nazionale, guidata dal dicastero dell’esponente di Otzma Yehudit, che nelle intenzioni dovrebbe operare soprattutto nelle città miste, con una forte presenza di arabo-israeliani, laddove si segnalano maggiori problemi di «criminalità». Dall’inizio di aprile ad oggi sono quindi continuate le proteste settimanali in diverse città del Paese. Alle questioni relative all’autonomia dei poteri si sono aggiunte richieste nel merito della parità di trattamento rispetto al servizio militare, in particolare per quanto riguarda l’esenzione dalla leva concessa agli ultraortodossi; sul controllo che le istituzioni laiche dovrebbero assumere nei confronti del rabbinato per quanto riguarda tutte le questioni relative al matrimonio tra gli ebrei in Israele; sull’introduzione nella legislazione nazionale del matrimonio civile; sul rigetto della proposta di assegnare 13,7 miliardi di New Israel Shekel ai partiti religiosi della coalizione nell’ambito del prossimo bilancio statale, a beneficio principalmente della comunità ultraortodossa, nonché sul rifiuto della costituzione di un fondo fiscale comunale che trasferirebbe denaro dalle città più ricche, per lo più abitate dalla popolazione secolarizzata, a quelle maggiormente povere, abitate da ultra-ortodossi.

La parte restante delle manifestazioni rimandano all’oggi, essendo in corso o comunque recenti: dalle dimostrazioni dinanzi alla casa del ministro Yariv Levin a Modi’in-Maccabim-Re’u (una parte della città, ovvero il quartiere di Maccabim, non è riconosciuta dall’Unione europea come parte d’Israele, poiché si trova in quello spazio che l’armistizio di Rodi, nel 1949, definì come terra di nessuno, quindi conquistata nel 1967 da Israele, insieme al resto della Cisgiordania), alle dimissioni di Amichai Eshed, responsabile della polizia di Tel Aviv (5 luglio), dopo il suo rifiuto di ricorrere a metodi maggiormente muscolari contro i manifestanti. L’approvazione in prima lettura del disegno di legge sull’abolizione dello standard standard di ragionevolezza, il 10 luglio, ha dato infatti corso ad un’ulteriore ondata di proteste, che hanno bersagliato ancora una volta le grandi arterie stradali, gli accessi all’aeroporto Ben Gurion, la residenza del premier a Gerusalemme fino alla marcia, che ha coinvolto migliaia di persone, da Kaplan Street al palazzo della Knesset, nella seconda metà di luglio. Un’iniziativa, quest’ultima, che ha ottenuto l’appoggio palese, pubblicamente rivendicato, di alcune centinaia di società ad alta tecnologia, che hanno invitato (nonché agevolato materialmente) i dipendenti a prendervi parte.

Il 23 luglio, infatti, l’Israel Business Forum – un gruppo composto dalle centocinquanta più importanti aziende israeliane, che comprende la maggior parte dei dipendenti del settore privato – ha annunciato che scioperava il giorno successivo come «misura di emergenza», invitando Netanyahu ad «adempiere al suo dovere […] interrompere immediatamente la legislazione».

Lo stesso giorno, l’ex presidente dello Stato Reuven Rivlin, insieme all’ex presidente della Corte suprema Aharon Barak, in una manifestazione pubblica a Gerusalemme ha riconosciuto non solo la gravità della crisi in atto ma anche la necessità che Netanyahu si adoperi per salvare il paese da una possibile «guerra civile». Il 24 luglio, infine, la Knesset ha approvato il primo provvedimento della più ampia riforma, quello che impedirebbe ai giudici di annullare le decisioni governative per manifesta irragionevolezza, la formula che indica la non corrispondenza ai principi contenuti nelle Leggi fondamentali.

Siamo solo ai primi atti di quello che da subito è diventato anche uno psicodramma nazionale, con accuse di «tradimento», abiezione, apostasia politica reciprocamente rivoltesi da parte degli uni nei confronti degli altri e viceversa. Il cammino del revisionismo legislativo della destra è comunque in salita, scontando un’opposizione sociale, prima ancora che politica, che si manifesterà ripetutamente nei tempi a venire.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


1 Commento:

  1. Condivido totalmente l’analisi della situazione presente in Israele. Ma sorgono delle domande circa il futuro del paese: in questa radicale contrapposizione fra l’anima laica e pluralista della popolazione e quella ultraortodossa ed ultranazionalista, quali scenari possono aprirsi? Un intervento degli ebrei della diaspora può influenzare il conflitto in atto, ed in quale misura? La minoranza araba d’Israele quale ruolo può giocare? Il movimento di contestazione a Netanyahu sembra evitare di porsi il problema dei rapporti fra maggioranza ebraica e minoranza araba, e soprattutto evita di affrontare la questione dei territori occupati. E’ ipotizzabile un processo “maturativo” del movimento di contestazione, che lo induca ad affrontare questi temi?


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