Cultura
La Francia si interroga

Cosa sta succedendo nell’ebraismo francese? Una fotografia del momento attuale, antesignano di fenomeni europei

Cosa sta succedendo agli ebrei francesi? È dei giorni scorsi l’aggressione allo scrittore e attivista Marek Halter. Il violento episodio si inscrive in un clima non solo teso ma anche opaco, che da molti anni sta letteralmente inquinando le relazioni tra l’ebraismo francese e la Repubblica. L’inquinamento non è dovuto alla sola disattenzione delle istituzioni, che pure si trovano sempre più spesso a dovere esercitare improbabili mediazioni in un terreno, quello della cittadinanza democratica, che si sta facendo sempre più impervio. Poiché il vero fuoco del problema non è dettato da un’assenza (quella per l’appunto dello Stato) bensì da una presenza (quella dell’immigrazione maghrebina) non certo nuova ma che pesa sempre di più nelle dinamiche interne alla società francese. Che ora risulta maggiormente segmentata nelle sue articolazioni, divisa in isole che non comunicano, quindi sezionata e conflittuale. La fedeltà al patto di cittadinanza repubblicana, ovvero il coltivare la propria identità, senza per questo mettere in discussione il rispetto di un’appartenenza collettiva, quella dettata dalla lealtà verso lo Stato, è quindi da tempo in erosione. Da questo punto di vista il Paese subisce molte delle tensioni che si manifestano anche in altre società che sono destinatarie, soprattutto per via del loro retaggio coloniale, dei flussi immigratori. Tuttavia, coltiva una sua dinamica autonoma, che merita una particolare attenzione, precorrendo, come già è successo nei tempi trascorsi, logiche e percorsi che poi si sono imposti all’intera Europa. In altre parole, la Francia è antesignana ancora una volta di fenomeni che diventano poi continentali.

La ancora ampia comunità ebraica autoctona, composta da circa mezzo milione di elementi, da tempo sta infatti vivendo due fenomeni apparentemente non collegati ma in realtà, per più aspetti, interconnessi. Il primo di essi è lo spostamento elettorale verso i partiti della destra liberale (e non solo), di contro alle preferenze precedenti, accordate perlopiù alla sinistra, a partire dai socialisti. Il secondo è il flusso emigratorio, rivolto prevalentemente verso Israele, che non sembra accennare a fermarsi. Almeno duecentomila ebrei di origine francese vi risiedono oramai stabilmente. La Francia di oggi rimane ancora il paese con la più ampia presenza ebraica in Europa, così come il terzo insediamento demografico mondiale in ordine di rilevanza (dopo Israele e gli Stati Uniti) al mondo. Tuttavia, la sua erosione e ridimensionamento sono da diverso tempo in corso. Le comunità di maggiore consistenza rimangono quelle dei grandi agglomerati urbani, ovvero Parigi, Lione, Marsiglia, Strasburgo, Nizza, Tolosa, così come nella regione dell’Île-de-France. Pur prevalendo le componenti laiche, va detto che l’ebraismo francese contempla in sé l’intero spettro dei gruppi intracomunitari, dalle diverse declinazioni dell’ultraortodossia fino a quelle agglomerazioni maggiormente secolarizzate.
Nelle dinamiche interne a questo aggregato prismatico, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, con un’evidente accentuazione nell’ultimo decennio, l’accentuarsi dell’antisemitismo ha inciso in maniera sempre più determinante. La Francia, peraltro, vanta da sé un triste primato al riguardo, essendo stata la patria, nell’Europa continentale, dell’antisemitismo contemporaneo. Generatosi a seguito dei lunghi effetti della Rivoluzione francese – essenzialmente come reazione ad essa, ovvero come risposta regressiva, da parte dell’aristocrazia defenestrata e del clero bruscamente ridimensionato nelle loro prerogative, al tumultuoso mutamento sociopolitico – è poi divenuta, a cavallo di due secoli, una sorta di ideologia della rivalsa, diffusasi anche tra una parte delle classi popolari. Lo scenario più recente, quello per l’appunto che risale agli ultimi decenni, ha tuttavia introdotto e rafforzato una tendenza che non è esclusivamente autoctona, derivando semmai dall’insediamento del radicalismo islamista che, sia per innesti esterni così come in ragione di una germinazione interna, determinatasi nelle seconde, terze e successive generazioni di immigrati, sta ora occupando il proscenio collettivo. Pesantemente, anche se molti chiudono gli occhi.

L’antisemitismo islamista (laddove l’aggettivo serve più che mai a distinguere l’ancoraggio ad un’ideologia in sé, che non coincide con il mondo musulmano in quanto tale, anche se cerca di trovarvi proseliti) proprio in Francia ha trovato uno dei suoi terreni elettivi. Le manifestazioni più recenti sono ancora nelle memoria dei tanti: tra le altre, gli attentati di Tolosa e Montauban del 2012, la vicenda dell’Hyper Cacher a Porte de Vincennes nel 2015, la strage di Nizza del 2016 insieme a molti altri eventi luttuosi, che hanno preso di mira sedi e luoghi sia ebraici che non, connotandosi comunque per una chiara matrice antisemitica. Nell’immaginario condiviso da alcuni settori delle nostre società, infatti, il pregiudizio e l’avversione contro l’ebraismo hanno sostituito, scimmiottandone indecorosamente alcuni degli aspetti più violenti e tracotanti, il rimando al conflitto sociale ed economico. Per il radicalismo islamista la lotta contro gli ebrei è una sorta di simulacro della contrapposizione tra plebe rivoluzionaria e borghesia conservatrice. Inutile cercare di contrastare una tale deriva, che si cristallizza dentro una costruzione ideologica al riparo da qualsiasi verifica dei fatti, con il solo ricorso agli strumenti del raziocinio. La forza di un costrutto mentale totalizzante, che si è trasformato in uno strumento di condizionamento di parti significative delle società contemporanee, non può essere avversato e sconfitto dalla sola pedagogia democratica.

Detto questo, rimangono gli effetti di lungo periodo che un tale stato di cose ha determinato sugli ebrei francesi, in termini di incertezza così come, in immediato riflesso, di propensione ad abbandonare la terra di origine per trovare altrove rifugi più sicuri. Se sul piano politico ciò si è tradotto in un esodo elettorale che, dalla fine degli anni Ottanta, ha iniziato ad essere contraddistinto da una maggiore propensione nei confronti del voto a destra (non solo di quella liberale, erede del gollismo e del repubblicanesimo, ma anche di quella lepenista, grazie soprattutto alla strategia di «dédiabolisation» condotta da Marine Le Pen, impegnata ad attenuare i riferimenti al passato fascista del suo partito), sul versante delle scelte esistenziali di più forte impatto l’emigrazione verso Israele ha conosciuto nuova linfa.
In un tale quadro si inserisce l’ultima polemica, in ordine di successione, che ha attraversato l’ebraismo francese. Il rabbino capo dell’Esagono Haïm Korsia, da sette anni ai vertici dell’istituzione nazionale, ha contraddistinto il suo mandato per le personali posizioni favorevoli sia al dialogo con il mondo non ebraico che, soprattutto, rivolte a rafforzare la nozione di «fraternità» repubblicana, riconoscendosi appieno nella cittadinanza francese come principio cardine per sviluppare le prerogative dell’identità ebraica. È nota, tra le altre, una sua affermazione per cui: «a volte [ovvero quando le cose della vita si fanno più difficili] l’unico modo è entrare nel Mar Rosso: entrarvi e ricostruire una nuova solidarietà, rigenerare legami tra cristiani, protestanti, cattolici, musulmani ed ebrei e rinvigorire la speranza». In una tale ottica, ha quindi manifestato ripetutamente non solo il rifiuto di una “capitolazione” di fronte alle aggressioni terroristiche ma anche le sue perplessità verso l’Aliya, il ritorno alla Terra dei Padri, come soluzione ultima ai molti problemi degli ebrei francesi. Korsia, peraltro, da sempre si connota per la sua apertura verso i non ebrei e per un sostanziale possibilismo nei riguardi di soluzioni negoziate dei conflitti che attraversano la società francese.

Una tale posizione, tuttavia, gli sta costando non poche critiche in seno allo stesso mondo ebraico. In un editoriale duro e intrinsecamente pessimista, pubblicato sul settimanale «Actualité Juive», periodico che più e meglio di altri esprime gli umori prevalenti nelle comunità francesi, Ariel Kandel ha parlato senza mezzi termini di una «invasione» in atto nel cuore della Francia. Secondo la sua opinione è arrivato il momento «di dire ad alta voce ciò che molti pensano», ossia che la Francia «è invasa dalla lotta al Covid 19, dalla distribuzione dei vaccini, ma anche dalla lotta contro l’Islam radicale e l’antisemitismo». L’accostamento tra il grave disagio pandemico, i timori economici e sociali per il tempo a venire e l’ombra onnipresente del radicalismo islamista non è per nulla casuale, rimandando piuttosto alle preoccupazioni condivise da molti ebrei francesi rispetto alla loro sicurezza personale. Il nuovo orizzonte di un tale timore è però quello che contrappone la linea del dialogo, di cui Korsia è l’esponente più autorevole, a quella che invece identifica nella società francese un territorio oramai perduto, ovvero attraversato da spinte regressive, di cui l’antisemitismo ne è una manifestazione particolarmente allucinata. La posizione di Kandel, già coordinatore e responsabile dell’immigrazione francese in Israele, è peraltro condivisa da molti. Il nocciolo è che il patriottismo repubblicano, così come che i percorsi di dialogo interconfessionale, rischino di rivelarsi solo un vuoto simulacro, una sorta di esercizio vano, esercitato più nel nome di un galateo istituzionale che non nell’effettiva convinzione di potere ottenere risultati concreti.
Ancora Kandel: « gli ebrei vivono in Francia per motivi pratici. Amano la cultura francese, ma il loro sostegno alla Francia è soprattutto sul campo durante le partite di calcio». Un riscontro, quest’ultimo, di per sé neanche troppo sorprendente, posto che potrebbe valere anche per molti non ebrei. Diventa invece impegnativo se si combina al senso della minaccia per il proprio destino, coniugando l’idea di un paese trasformatosi in una cittadella assediata a quello di un declino delle residue speranze verso il suo futuro che, evidentemente, non potrà che essere amaro. Il rabbino capo di Francia ha sempre contrastato tali posizioni, molto spesso accusandole di una sorta di “disfattismo” che coltiva le paure per volgerle a proprio favore, incentivando quindi la disgregazione del tessuto sociale. La sua posizione è chiara: non ci sono reali motivi per abbandonare la Francia (delle parole di Kandel ha detto che esse non solo sono «parziali» ma restituiscono una «caricatura» della reale situazione del paese) così come il plurisecolare insediamento ebraico non deve deflettere dalla sua presenza pena – altrimenti – la decadenza civile, morale e culturale della nazione medesima. L’Aliya, in altre parole, non può essere la sola risposta alle tensioni del momento: è una scelta nella quale si manifesta identità, insieme anche alla propensione all’auto-protezione. Ma proprio per queste ragioni, non deve essere vissuta come una sorta di via di fuga, essendo semmai ciò che lo stesso rabbino definisce come «una scelta di fondo e di natura spirituale». Anche in ragione di ciò Korsia ricorda sempre come il contributo ebraico alle società di appartenenza avvenga nel nome di una comune cittadinanza, condivisa con i non ebrei, e non in ragione di un identitarismo che altrimenti rischia di essere l’altro nome che si dà ad un fondamentalismo ideologico che trasforma le appartenenze in essenze cristallizzate. La qual cosa, per inciso, sarebbe del tutto speculare ai radicalismi politici e religiosi altrui.
Già nel 2015, infatti, Haïm Korsia aveva risposto al premier israeliano Benjamin Netanyahu, nel mentre quest’ultimo invitata gli ebrei a «tornare a casa», che la vera cittadinanza riposa nelle terre di nascita, esprimendosi quindi in maniera nettamente alternativa rispetto a certi pronunciamenti, di parte della stessa leadership ebraica, favorevoli invece all’emigrazione. La discussione nell’ebraismo francese, d’altro canto, da una decina d’anni si confronta costantemente con la crescita dell’antisemitismo di strada, quello che si consuma ogni giorno, sia negli ambiti urbani che in quelle aree più periferiche che hanno avuto un insediamento ebraico. Un classico tratto di questa situazione è la profanazione dei cimiteri, praticata dai gruppi neonazisti, eredi della triste tradizione del collaborazionismo con l’occupante tedesco durante la Seconda guerra mondiale. Il radicalismo islamista, invece, al netto dell’azione dei gruppi terroristi, si manifesta soprattutto attraverso le ripetute aggressioni fisiche nei confronti di chi esibisce simboli della tradizione ebraica.
Si tratta di un’azione pressoché quotidiana, alla quale si accompagna la frequente interdizione verso qualsiasi forma di confronto aperto in non poche scuole della Francia repubblicana, soprattutto laddove la presenza maghrebina è maggiormente pronunciata. La memoria della Shoah, ad esempio, è quindi contrastata come manifestazione del “dominio coloniale”, espressione di una sorta di narrazione egemonica dell’uomo bianco della quale gli ebrei – da sempre manipolatori, secondo i costrutti antisemitici – tirerebbero le fila a proprio esclusivo beneficio. L’antigiudaismo, in questo caso, viene presentato come un necessario corredo di quella lotta contro il dominio dell’Occidente esercitato a danno dei popoli oppressi, a partire dalle società musulmane, vittime per eccellenza della violenza “imperialista”.

Korsia si deve confrontare con un tale quadro, nel quale l’estremizzazione di temi e suggestioni ha subito un’accentuata accelerazione. Le risposte politiche e giudiziarie si sono rivelate spesso armi spuntate. Nel momento in cui un grande numero di segmenti della società civile sono in fibrillazione, gli interventi inevitabilmente selettivi ed occasionali di giudici e uomini dello Stato rischiano infatti di rivelarsi al pari del proverbiale cucchiaio con il quale si vuole svuotare un intero oceano. La violenza antiebraica in Francia ha spinto l’immigrazione in Israele a nuovi livelli. Almeno 33.278 ebrei francesi vi si sono trasferiti dal 2013, più del doppio dei 15.401 cittadini francesi che si erano invece mossi nei sette anni precedenti. Altre decine di migliaia hanno invece dato corso ad una sorta di emigrazioni interna, abbandonando i quartieri più difficili e pericolosi per risiedere in zone considerate maggiormente tranquille o comunque meno rischiose.
Rimane il fatto che il duro editoriale di Kandel, oltre ad avere denunciato apertamente il disagio che attraversa l’ebraismo francese, ha anche accelerato una sorta di conta al suo interno – ovvero dei suoi gruppi dirigenti – tra chi mantiene le posizioni di cui il rabbino capo è la maggiore espressione e quanti, invece, da tempo maturano perplessità di merito. A tale riguardo, il rabbino Mikael Journo, segretario generale dell’Associazione dei rabbini francesi, in un editoriale del 29 gennaio ha tacciato di insensibilità coloro che identificano gli espatrianti come defezionisti per paura. Ha quindi affermato: «abbiamo la responsabilità, come leader religiosi, di non incolpare coloro che decidono di andarsene e di sostenerli, indipendentemente dalle ragioni», aggiungendo: «chi siamo per giudicare coloro che vogliono poter indossare una kippah per strada?». Altri, come la blogger e pubblicista Veronique Chemla, hanno rilevato che: «stiamo vivendo l’intreccio di due cose: l’effetto accumulato di vent’anni di violenza antisemita, principalmente da parte di musulmani, contro gli ebrei francesi, che ovviamente sta facendo dubitare molti tra di essi del loro futuro, e la crescente sfiducia nei confronti dei leader comunitari, che sono in gran parte isolati nella loro vita quotidiana dall’aperto manifestarsi di questa violenza». Ed ancora: «sempre più spesso questi ultimi sono visti come fuori dal mondo e rappresentano gli interessi del governo nei confronti degli ebrei piuttosto che il contrario». Ovvero, rischiano di essere non il vertice dell’ebraismo francese, di cui dovrebbero esprimere tensioni, preoccupazioni come anche e principalmente bisogni ma, in una sorta di inversione di ruolo, il tramite delle autorità statali, delle cui volontà si incaricherebbero di trasferirne ai loro rappresentati la diretta manifestazione.
In buona sostanza, seguendo ancora il pensiero di Chemla: «il dibattito è stato un raro riflesso pubblico della crescente tensione interna agli ebrei francesi, molti dei quali vivono in zone difficili, dove avvengono frequenti incidenti antisemiti, e leader di comunità che tendono invece a vivere in aree più esclusive. Da nessuna parte questo divario è più evidente che nella strisciante riabilitazione delle ideologie di estrema destra tra i ranghi degli ebrei francesi». A tale riguardo, i sondaggi politici sono sufficientemente chiari, rilevando come il sostegno ebraico ai partiti che promettono l’applicazione di programmi «Law ed Order», a partire dal Rassemblement National di Marine Le Pen, sia di poco inferiore percentualmente al resto della popolazione francese. Per inciso, si tratta di dinamiche che possono essere comparate anche a quelle in corso nell’ebraismo italiano.

Al netto delle prese di posizioni più ostili nei confronti dell’operato di Korsia (ad esempio, un altro rabbino, Dov Maimon, coordinatore delle attività continentali del Jewish People Policy Institute, con sede a Gerusalemme, ha scritto su Facebook che la proposta di Korsia «è amare Israele ma da lontano, letteralmente alienato da esso; si è innamorato della sua Galut [esilio]») si accompagna il riscontro che il secco confronto sulle diverse opzioni possibili rispetto alle tensioni che attraversano il quadro francese non abbiano a che fare solo con le concrete opzioni materiali, praticabili nei fatti (rimanere o andarsene), così come al posizionamento culturale e civile (cittadinanza repubblicana o adesione ad un modello di democrazia etnicista quale potrebbe diventare Israele). Esse – semmai – rimandano anche e soprattutto alle faglie di divisione che attraversano le medesime comunità ebraiche, tra una parte delle loro leadership, percepite a volte come lontane dai concreti, urgenti e inderogabili bisogni collettivi (e come tali, quindi, “garantite” nel loro privilegiate condizioni di vita) e il resto del gruppo, invece sottoposto alle tensioni del tempo presente.
Fin troppo facile – e quindi anche drammaticamente erroneo – fare il giochino populista e qualunquista che vorrebbe mettere le une (le «élite») contro gli altri (il «popolo», ovvero la «gente»). Rimane tuttavia il fatto che nell’ebraismo, in quest’ultimo caso non solo francese, da tempo il disagio stia avanzando. Anche per l’antisemitismo. Ma non solo. Si tratta infatti di una profonda crisi di ruolo sociale, che interroga un po’ tutti alla radice, richiamando alla grande questione su quale sia non tanto la “giusta leadership” ma come si trasmettano, al giorno d’oggi, le istanze collettive a quegli organismi che sono poi chiamati non solo a rappresentarle bensì anche a soddisfarle. Non si tratta, per capirci, di un mero problema di efficacia e di efficienza ma di una più profonda questione di legittimità. Che è un capitolo a sé del prodotto delle trasformazioni, e del conseguente affaticamento, delle democrazie liberali e sociali. Dentro le quali non riposano solo i destini delle minoranze ma anche l’orizzonte dell’intera maggioranza. Di ciò, in fondo, il denso dibattito francese ci restituisce qualcosa che interpella anche noi, in Italia.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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