Cultura
La grande scissione: analisi delle conseguenze del voto inglese

Bojo vince perché sa dare migliore forma alla paura da retrocessione sociale che attraversa la società inglese (al pari di quella europea)

Alla fine Boris Johnson, lo scapigliato, desiderio e al medesimo tempo incubo dei parrucchieri di mezzo mondo, non solo vince bensì stravince. Fa cappotto, assicurandosi la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Comuni (al momento almeno 364 su 650) e spiazzando, come oramai di prassi, sondaggi pregressi, speranze ma anche illusioni.

Ovvero, soddisfacendone altre, quelle in sintonia con il suo programma politico. Uno spiazzamento soprattutto alla faccia di chi, ancora recentemente, pensava che il risultato del referendum del 2016, dove il Leave aveva battuto il Remain di pochi punti, fosse un abbaglio di quella parte dell’elettorato britannico poco o nulla proclive a capire quale rimanesse la “scelta giusta”, cioè lo stare in Europa, semmai ancorandosi a un nostalgismo isolano (“ce la facciamo, e meglio, da soli”) fuori tempo massimo. Una prece per queste convinzioni errate, quindi: un congruo numero di inglesi ritiene infatti che siano i Tories d’assalto a fornire le risposte migliori. BoJo vince non (solo) perché lo votino gli “ignoranti” ma poiché sa dare migliore forma alla paura da retrocessione sociale che attraversa la società inglese (al pari di quella europea), offrendo tuttavia un simulacro di idea sul da farsi per il tempo a venire: ritorno dell’atlantismo anglosassone, con un rapporto non solo privilegiato ma pressoché esclusivo tra nazioni di lingua inglese, a partire dagli Stati Uniti; rimando, sia pure solo in effigie, all’idea che “fummo una grande potenza, che dominava i mari; potremo recuperare qualcosa del passato a patto di disancorarci da un’Europa tecnocratica e sorda”; soprattutto, “vogliamo le mani libere per trattare bilateralmente i nostri interessi, senza organismi di intermediazione che ci obblighino a pagare un qualche dazio politico e a vedere le nostre prerogative economiche offese o comunque ridimensionate”.

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Boris, non a caso, è stato votato anche per ciò che i suoi avversari hanno invece additato come il coacervo delle sue contraddizioni personali: convulso e spesso perdente nelle singole partite della politica, aggressivamente affabulatorio, irriverente al limite della forzatura istituzionale, a tratti clownesco. Tuttavia tessitore, sapendo bene come ci si tenga in groppa al cavallo bizzoso, senza esserne immediatamente scalzati. Oggi, i politici di tale fatta, hanno maggiori probabilità di raccogliere il consenso degli scontenti, degli impauriti, dei comunque insoddisfatti – che sono un numero in costante crescita negli elettorati nazionali – e che, dal momento in cui vengono qualificati come “populisti” da quanti ne denunciano l’incultura politica, optano per i partiti e i movimenti identitari, sovranisti e come meglio li si preferisca denominare.

Perché “sentono” che lì, in quelle liste, c’è qualcosa di loro. Quanto meno il sogno di una rappresentanza. Che poi venga nel futuro clamorosamente smentita, si incaricheranno semmai i fatti a dircelo; è questione demandata al dopo. La vera sconfitta alle urne, tuttavia, non è quella di un Partito laburista senza corpo né anima, sospettosamente afono su certe questioni e invece prodigo di richiami improbabili, sul quale comunque ancora torneremo in queste poche righe, bensì dei liberaldemocratici. Che da soli non avrebbero fatto di certo la differenza ma che, con una rappresentanza parlamentare più corposa, avrebbero comunque concorso a difendere un terreno di ragionevolezza che invece, in tutta plausibilità, verrà del tutto a mancare (se ciò già non è successo in questi ultimi tre anni). Il buon risultato del socialdemocratico ed europeista Scottish National Party di Nicola Sturgeon è anch’esso il prodromo dei proclami di un conflitto prossimo ad esplodere apertamente, quello per l’autonomia che si fa domanda di indipendenza. Da adesso in poi si gonfierà come quei rospi che rischiano infine di collassare. Al pari della vicenda nord-irlandese, comunque destinata in qualche modo a riaprirsi.

La Brexit è ora certa, anche se i suoi effetti sono ancora tutti da capire. In altre parole, si sa che cosa ci si lascia alle spalle ma è assai meno chiaro quale sia l’orizzonte possibile dei prossimi approdi, nei tempi a venire. Poiché l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si configura come una serie, in successione, di colpi di frusta. Sia all’esterno del paese che al suo interno, dove la Scozia, per l’appunto si prepara a far rullare i tamburi di guerra. E nel quale il file irlandese si presenta come un “cold case” da riaprire. Tanto per rimanere sull’ottimistico, cosi commenta a caldo Denis MacShane, ex ministro per l’Europa al tempo di Tony Blair: «Johnson spera che l’accordo di uscita sia la fine della Brexit, ma è solo l’inizio. Trump vorrà che il Regno Unito diventi una colonia e il cavallo di Troia degli Stati Uniti in Europa. Si litigherà su tutto con Bruxelles: diritti di pesca, standard alimentari, statuto della City, i diritti dei cittadini Ue qui e dei britannici fuori. Sarà una Brexiternità di liti e rancori che avveleneranno le relazioni future. Non solo, il contesto cambierà. Sicuramente per gli scozzesi è molto problematico essere guidati da un primo ministro figlio dell’élite del sud del Paese, marcatamente inglese. L’unità del Paese è a rischio. L’Irlanda del Nord è stata di fatto messa da parte, trattata come una parte separata del Regno Unito». Si tratta di opinioni, va da sé, ma la sensazione comune, condivisa in tutti gli schieramenti, a Londra come nel resto d’Europa, è che la navigazione dell’Unione Europea sarà a sua volta sempre più tempestosa, comunque irta di ostacoli, in mezzo a scogli e tra i marosi di un’instabilità permanente.

Non di meno – ed è questo poi il vero fuoco della riflessione, sul quale si concentreranno un giorno coloro che verranno chiamati a scrivere la storia di questi anni – il lunghissimo ciclo avviatosi nel secondo dopoguerra, e che nel nostro Continente era stato contrassegnato dai processi di progressiva, ancorché faticosa, integrazione tra Stati e nazioni diverse, è destinato inesorabilmente a declinare. Sospeso, com’è già adesso, tra tecnicismi, tatticismi, mediazioni defatiganti, scissioni implicite (a partire dall’Europa dell’Est, che sempre più spesso avanzerà rivendicazioni a sé stanti), elitarismi da parte di tecnostrutture che non solo non sanno né intendono parlare a collettività in affanno, ma paiono vivere con sostanziale irritazione i segnali che provengono dalle società nazionali in affanno. La nuova commissione presieduta da Ursula von der Leyen è partita con grandi difficoltà interne, incassando diverse manifestazioni di sfiducia. Tutto grasso che cola per coloro che, invece, sempre più spesso si nutriranno di eurofobia, indicando in Bruxelles e Strasburgo le madri (o le matrigne) di ogni nequizia.

Poiché BoJo, al pari di molti sovranisti, gioca con il fuoco degli irrisolti conflitti tra centro e periferia, grandi città ed estese campagne, apocalittici ed integrati, marginalizzati e centrali. Rappresenta coloro che si sentono ai bordi dei processi socioeconomici in atto, sui margini di un precipizio, volgendone il risentimento a proprio beneficio, essendo lui – in realtà – il rappresentante di quella stessa élite che invece trae giovamento da ciò che sta avvenendo. Formidabile risultato, il suo: farsi votare da quanti si sentono messi a bordo campo, fingendosi arbitro quando invece si è giocatori di una sola parte. E non necessariamente di quella nella quale si trovano coloro che gli stanno dando il loro assenso.

Jeremy Corbyn, colui che avrebbe dovuto essere il suo vero antagonista, ha costruito, in questi anni, un Very Old Party che, prima ancora di suonarle ai conservatori, intendeva regolare i conti con le componenti interne, invero agonizzanti per sopravvenuto anacronismo, di ciò che resta della Terza Via di Tony Blair. Il confronto con il Tory è stato presentato in questi termini: cancellare il pallido liberalismo del New Labour, e soprattutto la sua subalternità al liberismo ideologico ed economico, per rilanciare una sorta di sogno sulla base dei Fab Seventies, quando il laburismo era invece ancora un’organizzazione di classe. Sì tiepido ai diritti civili, senz’altro attenzione alle trasformazioni in atto nel Paese ma, soprattutto, una sistematica reticenza su tre assi fondamentali della discussione politica odierna: la posizione che «The Firm» ha manifestato sulla Brexit, una sorta di malinconica aria da operetta che suona più o meno come un “vorrei ma non posso, potrei ma non voglio”; il programma economico, che cerca di scalzare il sovranismo nazionalista contrapponendogli lo statalismo paleosocialista, evitando di intercettare gli invece indispensabili ancoraggi europei (poiché è lì che il destino delle società nazionali – a partire dalla funzione redistributiva delle grandi amministrazioni pubbliche, con la tassazione delle grandi ricchezze di un’economia della conoscenza che non conosce confini né responsabilità sociali – si dovrà per forza di cose giocare); l’antisemitismo, un tema per i nostri lettori assai caro poiché indice specifico di un più generale problema di rapporto con la propria identità politica, laddove – a volere essere eufemistici – Corbyn ha concorso da alimentare le ambiguità che da sempre lo accompagnano. Perché non si è mai smentito nel suo volere essere un «antimperialista», che gioca politicamente con interlocutori inverosimili, a partire da alcuni esponenti dei movimenti di islamizzazione presenti in Medio Oriente. Così come ha perso completamente il treno della comprensione dell’importanza della memoria della Shoah, non per un qualche obbligo di aprioristica deferenza nei confronti degli ebrei, ma per capire come invece questo sia uno dei nodi ineludibili della coscienza europea.

All’inizio di dicembre l’Antisemitism Barometer, ha reso pubblico un rapporto secondo il quale, per otto ebrei inglesi su dieci, Corbyn costituirebbe una «minaccia specifica». Nel mentre, il rabbino capo del Regno Unito Ephraim Mirvis si era già espresso sul Times ponendo la domanda sul destino degli ebrei inglesi nel caso il cui il Labour fosse andato al governo. Lo stesso Mirvis, al contempo, ha avuto modo di affermare che «il modo in cui la leadership laburista ha affrontato il razzismo antiebraico è incompatibile con i valori britannici di cui siamo così orgogliosi», rilevando la presenza di «un nuovo veleno che ha messo radici nel partito laburista». Una parte del mondo anglicano, a sua volta, ha ripreso queste dichiarazioni, identificando nel malessere della corposa minoranza ebraica i segni di una potenziale deriva della maggioranza.

Rimane il fatto che il Labour corbiniano è stato l’unico partito messo sotto indagine dalla Equality and Human Rights Commission, ad eccezione del poco encomiabile precedente del British National Party, la formazione di estrema destra neofascista. Corbyn ha cercato di rispondere a queste accuse con affermazioni che sono però suonate come poco o nulla convincenti, espresse in modo fiacco, senza afflato, giocate tutte sul medesimo discorso: “mi attaccano su questo versante per distogliere l’attenzione rispetto al mio programma politico”. Si potrà obiettare che una parte delle obiezioini in materia gli siano state cucite addosso sartorialmente dagli avversari, cosa che ha un suo qualche fondamento. Ma il deficit di cultura politica che The Firm ha manifestato, e che era stato denunciato ripetutamente ben prima del risultato di questi giorni, è irrimediabile. Soprattutto perché desertifica il suo partito, la sua cultura politica, i suoi stessi elettori, oramai orfani di molto se non di tutto.

Soprattutto, Corbyn non ha perso occasione per presentarsi come l’esponente di un orgoglio laburista che si rifà ad un tempo che si è perlopiù consumato. Non ha dato voce alla grande domanda di rappresentanza del Remain giovanile, quello che si è espresso, anche in questa tornata elettorale, nelle grandi città a partire dalla stessa Londra, andando a votare in massa per un’Europa senza confini. Poiché quest’ultima è la condicio sine qua non per continuare ad avere un futuro nell’età di Facebook, Amazon, Google, Apple e delle autostrade telematiche. Dove sempre di più redditi e lavoro saranno deterritorializzati, prima ancora che delocalizzati. Altrimenti facendo, ovvero cullandosi nel sogno di un Regno Unito che non c’è più da tempo, né mai tornerà, il Labour registra ora il suo disancoramento da una realtà maledettamente difficile da identificare e rappresentare politicamente ma che è materialmente operante.

Detto tutto ciò, nel bailamme di questi giorni, dove si parlerà ancora a lungo di BoJo e dei passaggi della Brexit, vanno ricordate anche altre notizie, in apparenza del tutto secondarie, ma che invece ben si incastrano nelle dinamiche politiche generali in corso tra Europa e Mediterraneo. La prima di esse è che si è votato anche in Algeria, per le presidenziali. Dopo la decadenza e la rimozione dell’altrimenti inamovibile Bouteflika, i cinque candidati sono riusciti a raccogliere i voti di solo il 20 per cento degli aventi diritto. Mentre una parte restante della popolazione ha rumorosamente manifestao nelle strade e nelle piazze. Una débâcle che i soloni del vecchio regime (fuori l’impresentabile presidente a vita, dentro un suo clone) hanno invece festeggiato come una “vittoria della democrazia”. L’Algeria è un paese giovane (oltre una quarantina di milioni di abitanti, il 70 per cento dei quali sotto i 35 anni), ricco di petrolio, figlio di una straziante guerra civile – combattuta sul corpo della società civile, tra islamisti ed esercito, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novante –, governato da un’oligarchia postcoloniale, sostanzialmente ostile a qualsiasi prospettiva che non riconfermi i privilegi di classi dirigenti ossidate.

La seconda notizia, che sempre ha a che fare con i processi elettorali ma in una società, molto diversa, è quella che ci conferma che Israele tornerà alle urne per la terza volta in un anno, il 2 marzo 2020 (dopo le tornate di aprile e settembre). L’incapacità di trovare un accordo postelettorale tra i due maggiori partiti, il Likud e Kahol Lavan, ha infine costretto la Knesset ad approvare il disegno di legge per lo scioglimento anticipato del Parlamento e la conclusione (nel vuoto) di una legislatura che contende a quella precedente il record della minore durata in assoluto (non più di sei mesi effettivi). Laddove ciò è anche il segno, se mai ce ne fosse ancora bisogno, delle crescenti difficoltà per le élite politiche di farsi effettive classi dirigenti. Ma di questo, va da sé, ancora avremo modo di parlare, a partire dalla campagna elettorale dei maggiori partiti israeliani.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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