Cultura
Le macerie della democrazia (e della divisione tra i poteri dello Stato)

Una riflessione sulle piazze brulicanti di piccoli e grandi eversori sugli assalti alle sedi delle istituzioni pubbliche e private e le negazioni di qualsiasi dialettica democratica dietro il grido «il popolo lo vuole!»

Possiamo utilizzare tutti i distinguo del caso ma rimane il fatto che il modo in cui l’assalto, preordinato, organizzato e ampliamente pubblicizzato, alle sedi delle istituzioni brasiliane (il Parlamento e la Corte costituzionale) dei giorni trascorsi costituisce l’ovvio prosieguo di quanto era successo già due anni fa a Capitol Hill, negli Stati Uniti. Che a sua volta si rifaceva ai moti eversivi di piazza che, spesso, hanno accompagnato la caduca e precaria esistenza delle fragili istituzioni latinoamericane. Qualcuno ha poi voluto accostare il tutto alle violenze sistematiche contro la sede nazionale della Cgil, il 9 ottobre 2021. Scrive nel merito di tutto ciò, e di altro ancora, lo studioso Fabrizio Tonello: «la politica post-postmoderna sembra includere anche questo: manifestazioni violente ma buffonesche, distruttive ma con obiettivi politici irrealistici. Così è stato anche a Brasilia tre giorni fa con l’invasione di palazzi del potere vuoti perché il parlamento e il presidente erano fortunatamente altrove. Abbiamo visto i seguaci di Bolsonaro farsi i selfie in mezzo alle macerie e urlare slogan sulle “elezioni rubate”, come i fedelissimi di Trump due anni fa a Washington (dove, in realtà, un piano concreto per prendere il potere sussisteva)».

C’è molto di cui ragionare, al riguardo. Posto che, in tutta probabilità, questi scempi pubblici si ripeteranno nei tempi a venire. Gli eventi accaduti in Brasile, infatti, nel loro omologarsi a quanto già era successo negli Stati Uniti, di fatto costituiscono la fondazione di una serie ricorrente che, come tale, darà senz’altro di sé ulteriori manifestazioni. Nella patria di Lula e Bolsonaro come in altre parti del mondo. Poiché, le piazze brulicanti di piccoli e grandi eversori (che sono cosa completamente diversa dai legittimi contestatori), gli assalti alle sedi delle istituzioni pubbliche e private, la negazioni di qualsiasi dialettica democratica dietro il grido «il popolo lo vuole!» (un tempo si sarebbe detto: «Dio lo vuole!», espressione poi sostituita in Germania con «Gott mit uns»), sono come fotogrammi di un film già visto nel passato. Ogni manifestazione di distruzione della democrazia si ammanta, da quando il popolo si è costituito in «nazione», di una falsa vocazione rappresentativa. Dice di parlare a nome di tutti quando, invece, stronca ogni pluralismo. Il fascino di eversori di Stato come Trump, Bolsonaro ma anche di Putin, così come di un’intera generazione di politici, accomunati dall’essere poco o nulla disposti a scendere ad interlocuzione con qualunque elemento che non si subordini alla loro volontà, in fondo riposa proprio in ciò. Un ripudio, quindi, non solo dei loro avversari ma nei confronti dello stesso principio di realtà. Ossia, qualcosa del tipo: “se la dura realtà non ci piace, tanto peggio per essa; noi abbiamo un modo di fantasie sul quale costruire il progetto di dominio del quale saremo primi beneficiari”.

Non si tratta di baloccarsi tra gratuite fantasie così come tra ipotesi complottiste, le une complementari alle altre. Semmai, è il caso di fare un esercizio di realismo politico. Sarebbe infatti ingenuo pensare che le sedizioni di piazza possano da sé portare ad un effettivo ribaltamento degli equilibri politici e ad uno sconvolgimento istituzionale. Non è questo ciò a cui possono concretamente aspirare quanti cercano di tirare le fila di un tale parapiglia, a proprio beneficio. Semmai si tratta di una “strategia della spallata”, ovvero del ripetere nel tempo atti di rottura dell’ordine costituito, di sedizione dei poteri, di messa in mora della loro legittimità per renderne più fragile la resistenza (come anche la loro credibilità dinanzi al grande pubblico). Non è quindi solo il rifiuto del risultato delle elezioni a motivare i perdenti nella loro rivalsa ma un più generale smottamento che attraversa alcune parti delle società a sviluppo avanzato, nel momento stesso in cui, richiamandosi alla volontà popolare, ne cercano di ribaltare i risultati.

La questione, va da sé, si pone oltre il discorso di ordine elettorale, richiamando, un po’ ovunque, la questione cardine del mantenimento (o meno) del precario ma indispensabile sistema di equilibri tra poteri, senza il quale si rischia molto velocemente di scivolare verso autocrazie o comunque di consegnare intere collettività ad oligarchie illiberali. Su questo versante, la fragilità dei sistemi rappresentativi, la manipolabilità sempre più accentuata degli stessi processi elettorali, la disaffezione dei tanti, il radicalismo di certuni e il fanatismo di altri, sono fattori che hanno un forte peso, ossia una grande incidenza, nel rendere non solo pensabili ma attuabili strategie di delegittimazione dei sistemi costituzionali democratici. E non è un caso che, ancora una volta, si metta in discussione la libertà dei più richiamando a grande voce il diritto ad una disobbedienza che è invece l’invocazione del rifiuto di qualsiasi mediazione. Lo squadrismo violento e criminale aveva già anticipato, un secolo fa, una modalità di anestetizzazione e di devitalizzazione delle società politiche e del pluralismo sociale che ha poi fatto scuola, per giungere fino all’oggi.

La lezione che ci arriva dal Novecento è esattamente questa, ovvero che la consunzione delle democrazie non si manifesta per via dell’azione di pochi ma per il tramite di un sodalizio, che si raccoglie intorno ai carismi negativi dei «tribuni del popolo», per poi alimentare una diffusa area di consenso basata sul malcontento. Quando ciò avviene, la politica si inabissa e viene sostituita dal richiamo tribale e ferino all’appartenenza di gruppo, che fa premio sul rispetto di qualsiasi regola condivisa, ossia capace di tenere insieme le diversità di cui tutte le nostre società sono composte. All’ombra di questi fermenti, come una sorta di consorzio di spettrali spettatori che osservano gli altrui contorsionismi, ci sono non a caso le oligarchie orientali, dalla Russia di Putin alla Cina di Xi Jinping. Sarebbe fin troppo facile attribuire a questi protagonisti della scena internazionale la responsabilità di quanto sta avvenendo. Non è così. Non c’è una sola regia, infatti; semmai è in corso una sorta di confronto tra democrazie affannate, tali perché sempre meno capaci di sopportare il carico delle domande che arrivano da società in crescente difficoltà, e global players che valutano quali siano i benefici che possono derivargli dagli effetti dei disordini altrui.

 Nelle violenze (e nelle insolenze) contro i poteri costituiti, nelle deliberate rotture delle regole del gioco, nell’agire tanto beffardo quanto predatorio di capi, capetti e gregari non c’è solo l’intolleranza di una parte pur minoritaria di individui contro il resto della società. Si esprime semmai lo strutturarsi, in forma ridondante e roboante, del disegno distruttivo degli ordinamenti costituzionalisti generatisi dopo la grande frattura della Seconda guerra mondiale. Non è più tempo, in fondo, di colpi di Stato, di putsch militari, di azioni di forza di singoli settori di “istituzioni deviate”. È invece come se una sorta di prurito alle mani, a lungo sopportato di malavoglia, adesso emergesse e si rivelasse appieno, trasformandosi in disponibilità allo scontro fisico con il ricorso ai pugni. E non solo ad essi.

 Un’ampia riserva di scetticismo contro le democrazie, lette come inadeguate, anacronistiche se non addirittura nocive, è peraltro fermentata in questi anni, diventando il punto di convergenza tra correnti pseudo-intellettuali e segmenti di un’opinione pubblica spesso smarrita. La saldatura tra negazionismi (da quello sulla Shoah all’antivaccinismo, dal rifiuto della medicina “ufficiale” ai deliri che si accompagnano ai fenomeni di demenza digitale) ne è uno dei possibili riscontri. L’assunzione di questi, ovvero di alcune loro manifestazioni, all’interno dei discorsi di forze politiche che aspirano al governo dei rispettivi paesi, o che già sono in tale posizione, segna il transito verso regimi populistici di massa dove l’opzione della reversibilità delle scelte elettorali, e quindi della dialettica politica come dell’intercambiabilità tra maggioranze, rischia di diventare ininfluente se non inesistente. Chi sogna l’eversione degli ordinamenti in realtà dà poi corpo alle autocrazie basate sul personalismo di leader politicamente irresponsabili, tali poiché per nulla disposti a sottoporre al vaglio della collettività le loro scelte.

In un tale panorama, le leadership elettive si muovono sempre più spesso con crescenti difficoltà. In Israele, dove le elezioni hanno comunque dato finalmente spazio ad una reale maggioranza in parlamento, la coalizione che sorregge il nuovo governo è nata tra non poche riserve e timori. Non certo da parte di chi ha beneficiato del voto, a partire dai partiti più radicalizzati, bensì per la restante parte dello spettro sociale e culturale del Paese. Sul piano politico, infatti, al di là dell’opposizione centrista di Yesh Atid, rimane ben poco se non nulla. Comunque, non c’è, ne si manifesterà, una capacità di coalizione alternativa. E non solo per l’evidente mancanza dei numeri alla Knesset ma per un più generale processo di auto-annichilimento che in questi ultimi vent’anni ha accompagnato il declino sia della sinistra storica che di quelle forze politiche organizzate che non intendono richiamarsi alla combinazione tra nazionalismo radicale, identitarismo, etnicismo e populismo. È come se la parabola discendente di queste ultime si fosse definitivamente compiuta, lasciando come unico arbitro in campo, legittimato a dirigere il gioco in chiave esclusiva, Benjamin Netanyahu. Va detto al riguardo che la scelta fatta dai suoi avversari, nelle elezioni precedenti, di trasformare il voto in una sorta di plebiscito a favore o contro la sua figura, assolutamente popolare nel campo della destra nazionalista, ha alla fine giocato a suo favore. L’accesso della destra radicale, secolarizzata e non (in essa, peraltro, la distinzione tra mondano e religioso si stempera, ridefinendosi secondo coordinate per molti aspetti inedite), a dicasteri importanti, sta da subito contribuendo a riscrivere l’agenda politica, e con essa le sue priorità. La convergenza tra le componenti haredi e radicalizzate sull’etnicizzazione dell’appartenenza ebraica, fatta coincidere con un’accentuazione del ruolo della religione nella sfera pubblica così come nella definizione dell’identità personale, si orienta in tale senso. Un tale indirizzo è inevitabilmente destinato ad influenzare anche i rapporti con la Diaspora, che le componenti più estremiste del quadro politico nazionale vivono con malumore se non con aperta diffidenza. Si tratta solo del primo di una serie di temi aperti, ai quali si ricollegano anche le questioni mainstream dell’autonomia del potere giudiziario così come del futuro della Cisgiordania e, più in generale, del rapporto con la robusta minoranza araba nazionale. La tenuta della democrazia si misura anche su questi dossier, che verranno ora scritti da una generazione politica che è cresciuta perlopiù negli ultimi due decenni, all’ombra di un radicalismo che è anche la misura di quanto la politica, intesa come mediazione, sia adesso in forte crisi.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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