Cultura Cibo
Le uova: storie di frittate, di feste e funerali

Le vicende di un alimento altamente simbolico

Ebbene sì, è nata prima la gallina. Poi, è arrivato l’uovo. O meglio, la pratica comune di consumarlo. Perché il prezioso alimento entrasse nella cucina quotidiana, infatti, ci è voluta la diffusione di una specie di pollame particolarmente prolifica. Prima, era troppo importante salvaguardare la catena produttiva di volatili domestici quali le oche o le anatre.
Detto questo, senza troppo dilungarsi sulle questioni zootecniche si può passare a come e quando le uova sono entrate nella cucina ebraica fino a diventare le protagoniste, anche se ovviamente non assolute, del Seder e dei pasti di Pesach in genere.
Per quanto molto diffuse nella cultura giudaica, le uova curiosamente non compaiono quasi mai nella Bibbia. Nella letteratura rabbinica, in compenso, sono citate anche come unità di misura, mentre il termine con il quale è indicato l’uovo sodo, beitzah, è anche il nome di un trattato talmudico dedicato alle festività. Passando a Egizi, Greci e Romani, pare che non disdegnassero il consumo di uova, di gallina e non solo, anche se sarebbero stati soprattutto i primi a farne gran uso, di qualsiasi specie. Dal canto loro, i ricettari romani non le includevano se non in minima parte e comunque perlopiù di gallina. Il crollo dell’Impero Romano avrebbe fatto cadere in disgrazia anche le uova.
Discorso diverso vale per il Medio Oriente e per la Spagna araba, dove le galline e i loro prodotti conobbero grande diffusione e successo in tutto l’Alto Medioevo. Tra i sefarditi, in particolare, pare che le uova non mancassero neppure nelle case più povere, tanto da essere alla base di innumerevoli piatti, adatti dalla prima colazione alla cena.

Protagonisti di un po’ tutte le occasioni di festa erano (e sono) i celeberrimi huevos haminados. Note anche come hamine, queste uova sono caratterizzate dal tuorlo morbido e cremoso e dall’albume delicatamente brunito dovuti alle numerose ore di cottura in compagnia di bucce di cipolla o di altri ingredienti coloranti. Tra i dolci, erano già moltissimi a vederle come protagoniste, primo tra tutti il pan di Spagna. Al riguardo, è interessante notare come in questo impasto, reso soffice grazie alla capacità degli albumi montati di immagazzinare aria, sia proprio tale caratteristica delle uova a rendere superfluo l’impiego del lievito, tecnica perfetta per il periodo pasquale. Più in generale, l’uso massiccio delle uova nelle otto giornate di Pesach sarebbe giustificato anche dalla necessità di assemblare gli ingredienti senza fare uso di farine di cereali. La proprietà di coagulazione delle loro proteine consente infatti la creazione di composti comunque morbidi e compatti come kugel, sformati o anche semplici frittate.

È facile immaginare come i sefarditi abbiano portato con sé ricette e abilità nel trattare le uova dopo la cacciata dalla Penisola Iberica del 1492, diffondendo il proprio know how un po’ in tutto il Mediterraneo. Nonostante fossero meno diffuse che in Spagna e riservate alle occasioni speciali, le uova non mancavano neppure nei ricettari del Medio Oriente, specie se usate come leganti o come compagne di altri ingredienti, in particolare le verdure delle frittate e il pomodoro di quel piatto ormai simbolo della cucina israeliana che originariamente era il maghrebino, shakshuka. Il momento di gloria era però Pesach. Al punto che, per indicare la Pasqua ebraica, pare che gli Arabi usassero l’espressione Id-al-Beid, ossia appunto “festa delle uova”.

Nello stesso periodo, anche nell’Europa centrale e orientale le uova stavano vivendo un periodo di grande diffusione, con quelle di gallina che avevano preso il posto di quelle di oca, ben più difficili anche da cuocere, presso le comunità locali. Nella cucina del XV secolo, del resto, il pollo si stava affermando come l’animale protagonista della dieta delle comunità ashkenazite, con le sue uova alla base delle ricette più diverse, dalle semplici strapazzate con le cipolle polacche alle cremose tarte della cucina alsaziana.

Sarebbe stato in questo stesso periodo che le uova hanno iniziato ad assumere i significati simbolici che ancora oggi si portano appresso, entrando così nelle principali occasioni rituali, sia di festa come il Seder di Pesach, sia di dolore come le celebrazioni funebri, quando vengono servite nel pasto che segue il funerale, il Seudat Havra’ah.
Per giustificarne questo uso, diciamo così, trasversale, si possono scomodare diversi interpreti e svariate simbologie. Secondo Gil Marks, l’uovo sarebbe stato accolto come simbolo della storia ebraica per alcune sue caratteristiche considerate uniche. In particolare, il fatto di diventare più duro via via che viene cotto e il possedere un guscio contemporaneamente fragile e resistente sarebbero una buona immagine della stessa storia degli ebrei.
La scelta di offrire un uovo nelle occasioni luttuose, invece, sarebbe dovuta al suo aspetto. Se da una parte la forma ricorderebbe il ciclo vitale e la sua essenza rappresenterebbe la vita in potenza, dall’altra la circolarità richiamerebbe il succedersi della gioia e del dolore e l’inevitabilità di quest’ultimo. Alimento indicato dunque nei funerali, secondo alcuni autori avrebbe anche la caratteristica di non possedere aperture e di essere quindi “senza bocca”, muto e senza parole come chi ha subito una perdita. Silenzioso e chiuso nel proprio dolore.

Passando ai momenti più gioiosi, il tema della perdita ricorre comunque anche nella simbologia pasquale. Forse in memoria degli antichi usi romani di aprire i banchetti con le uova, sia gli ashkenaziti sia i sefarditi non mancano di consumare questo alimento a inizio pasto, gli uni intingendo le uova sode nell’acqua salata, in memoria si pensa delle lacrime versate dal popolo di Israele e del dolore per la caduta del Tempio, gli altri sotto forma degli immancabili huevos haminados.
Inserito nel piatto del Seder, l’uovo sodo o l’hamine non avrebbe secondo gli studiosi una giustificazione univoca. Secondo alcuni (Marks è tra questi) l’uovo arrostito sarebbe un ricordo delle offerte che venivano fatte presso il Tempio e insieme rappresenterebbe il sacrificio degli esuli, in memoria dell’esodo dall’Egitto. La pensa in modo simile Venetia Newall, che nel suo saggio Easter Eggs ritiene pure che l’uovo di Pasqua cristiano sia di probabile derivazione ebraica.
Specializzata in studi folklorici, l’antropologa americana suppone che la pratica di tingere le uova cuocendole con bucce di cipolla, zafferano o polvere di caffè, uso diffuso in diverse comunità della Grecia e del Medio Oriente così come dell’Europa dell’Est, ma non universalmente affermato nel mondo ebraico, sia la prova dell’influenza su questi gruppi del mondo cristiano. Nelle giornate di Peasch, infatti, sarebbe stata tradizione offrire vino e matzah ai vicini non ebrei ricevendo in cambio uova colorate. Queste sarebbero poi entrate a fare parte delle abitudini ebraiche locali.
Tornando alla versione bianca, sempre la Newall non esclude che, al pari di quanto avviene presso i cristiani, anche per gli ebrei le uova siano un simbolo di rinascita. A conferma della propria posizione, la studiosa porta come esempio il dono delle uova ai funerali, colto in questo caso come simbolo di speranza. Per quanto riguarda la sua introduzione nel Seder, l’uovo avrebbe preso il posto del capretto, offerto un tempo come sacrificio, dopo la distruzione del Tempio del 70 d.C., valendo quindi come Hagigah nella celebrazione casalinga, accanto all’osso di stinco.
Riprendendo il tema della resurrezione cristiana, secondo alcuni interpreti l’uovo presso gli ebrei sarebbe il simbolo della rinascita in senso spirituale, quella cioè di una nuova vita dopo la schiavitù in Egitto.
Proprio l’assenza di riferimenti nell’Haggadah e nei testi antichi in genere all’uovo, ma solo, genericamente, di due cibi cotti che rappresentino i sacrifici al Tempio, ha fatto nascere le interpretazioni più varie sulla sua presenza sul piatto del Seder. Oltre a quelle già citate (in particolare l’affinità tra la resistenza dell’uovo sodo con quella del popolo ebraico oppresso), lo studioso e scienziato Maurice M. Mizrahi, ricorda anche i presunti riferimenti alla stessa divinità, che condivide con la circolarità dell’uovo la proprietà di non avere né inizio né fine. Sempre secondo Mizrahi, la difficoltà nello sgusciare l’uovo sarebbe simbolo della fatica di uscire dalla schiavitù o, ancora, la sua caratteristica di non potere stare in piedi da solo ricorderebbe la necessità dell’intervento di Dio nella conquista della libertà.

Huevos Haminados

Ingredienti
12 uova a temperatura ambiente
le bucce di 10-12 cipolle, dorate o rosse
3 cucchiai di olio d’oliva
2 cucchiai di caffè macinato (facoltativo)
1 cucchiaino di sale

Lavare le bucce di cipolla e disporle sul fondo di una casseruola capiente. Posarvi sopra le uova e versare quindi l’acqua fredda e poco salata necessaria a superarle di almeno un paio di dita. Aggiungere anche l’olio e, a piacere, il caffè macinato, poi coprire il recipiente con un coperchio o con carta di alluminio.
Cuocere le uova a fiamma bassissima per 6-8 ore, eventualmente incrinandone il guscio a metà cottura con un colpo di cucchiaio per marmorizzarle, poi scolarle, sciacquarle e asciugarle. Servirle ancora calde o a temperatura ambiente.
Conservarle in frigo immerse in acqua fredda e consumarle entro 4 giorni.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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