Cultura
Ludwig Pollak e il dovere della testimonianza

La recensione del romanzo di Hans von Trotha sull’archeologo e storico dell’arte praghese, partito per Auschwitz da Roma il 16 ottobre 1943

Le ultime ore di Ludwig Pollak si potrebbe definire un lungo viaggio nella vita del protagonista, un doloroso ripercorrere alcuni momenti della sua esistenza, e nello stesso tempo rappresenta un’interrogazione problematica su un passato singolare. Il libro di Hans von Trotha, pubblicato recentemente da Sellerio, è un vero e proprio racconto nel racconto, una sorta di trasposizione di contenuti, che si presentano prima nell’incontro tra Pollak e un certo K., un professore tedesco residente in Vaticano, e poi in ciò che quest’ultimo ripete a sua volta a Monsignor F.
Il professor K. è un emissario delle gerarchie vaticane, mandato in una residenza romana con un compito ben preciso: salvare l’ebreo Pollak. È il 15 ottobre del 1943, il giorno prima del rastrellamento degli ebrei di Roma, nella lista compilata dal capitano delle SS Theodor Dannecker, spedito a Roma direttamente da Adolf Eichmann per “risolvere definitivamente la questione ebraica”, compare anche il nome di Ludwig Pollak, all’epoca archeologo famoso, nato e cresciuto a Praga, ma residente per lungo tempo a Roma. Collezionista, mercante ed esperto di opere d’arte, Pollak aveva acquisito prestigio soprattutto per il ritrovamento del braccio originale del Laocoonte. La sua appartenenza al mondo culturale e religioso ebraico gli aveva dato la possibilità di stabilire legami di amicizia e collaborazione con eminenti personalità della cultura viennese di fine secolo, tra le quali anche il celebre Sigmund Freud. Per anni era stato protagonista indiscusso negli ambienti culturali romani a cavallo tra Ottocento e Novecento, gli anni d’oro del collezionismo internazionale.
Nell’ottobre del 1943 arrivano giorni fatidici per gli ebrei di Roma, e nonostante il tentativo da parte della Chiesa di salvargli la vita, il 16 di quel mese Pollak verrà prelevato dalla sua abitazione in palazzo Odescalchi insieme alla sua famiglia, andando incontro a un destino già segnato.
Quello che avviene nella sua abitazione, mentre K. è lì per salvarlo, convinto che si tratti di una breve attesa, ha un che di sconcertante: anziché affrettarsi per l’incombere delle circostanze, Pollak indugia, inizialmente sembra perdersi per un attimo nei propri pensieri, poi prende a parlare, inizia a ricordare il suo passato, quasi come a voler rimandare ancora il presente, con tutta la sua gravità, e di cui egli non sembra ancora prendere coscienza.
Durante il racconto di Pollak non mancano delle amare riflessioni: «Quando si è giovani […] il pericolo è lontano […] ma quando si diventa vecchi e soprattutto il mondo in cui sei di casa o che avevi pensato fosse la tua casa, ti si rivolta contro». Dal canto suo, il Professor K. vuole far capire a Pollak che il rischio è dietro l’angolo e che bisogna partire subito per evitare di finire nelle operazioni di rastrellamento degli ebrei di Roma. Questa consapevolezza, mista ad una perenne agitazione che trapela dai pensieri e dalle parole che von Trotha affida a K., è manifestata più volte durante tutto il lungo tempo in cui inaspettatamente si protrae il racconto. Pollak sembra ignorare, anzi quasi respingere la realtà di quello che sta accadendo, mostrando una calma irreale nel suo concentrarsi in particolari apparentemente insignificanti, che rendono l’atmosfera della conversazione ancora più paradossale.
Il racconto sembra proprio che debba servire a Pollak per rimandare il più possibile la resa dei conti con l’amara realtà, sembra che la sua lentezza e il suo lungo indugiare possano offrirgli un guscio di protezione, entro il quale rimanere, per allontanare l’inesorabilità degli eventi. Pollak, sebbene il suo mondo stia per crollare davanti ai suoi occhi, manifesta una calma fuori luogo. Il suo interlocutore, nonostante l’agitazione, si accorge a un tratto di quanto sia importante per lui essere ascoltato: «Parve comparire nei suoi occhi il riverbero di un’intensa felicità», afferma K. affidando a questa breve frase la consapevolezza che in alcuni momenti non riesce proprio ad interrompere Pollak, sapendo che in questo modo potrebbe privarlo anche di quei fugaci sprazzi di luce.
Tuttavia, egli vede crescere di pari passo la propria agitazione in contrasto con la noncuranza dell’altro, tanto da dimostrarsi rassegnato in diversi passaggi della loro conversazione, in cui smette di chiedersi se deve o meno riportarlo alla realtà.
Intanto Pollak, come assorbito da un sogno, ripercorre tutti i momenti più felici e più drammatici della sua carriera costellata di successi, ma anche di delusioni. Parla degli anni trascorsi durante la sua infanzia a Praga, si dilunga nel richiamare a galla un vissuto di emozioni, riaffiorano pensieri, storie di amicizie, di valori, di legami. Sottolinea la sua passione per l’arte, soprattutto per quella antica, mostrando oggetti, libri, documenti, come a voler dare la prova tangibile alle sue scorrerie nei ricordi. «Pollak continuava a raccontare, senza mai smettere», leggiamo nel libro, e ancora: «A un’associazione di idee ne faceva seguito un’altra, una partita a domino nel ricordo, e come fare a fermarlo?».
Non mancano momenti di grande intensità, specialmente quando Pollak richiama il fatto di essere ebreo. K. lo ascolta mentre si lascia andare su Hitler, quando afferma di aver letto anche il suo libro: «Ho visto l’odio di Hitler contro gli ebrei come un odio patologico. Colpevoli di tutto. E io sono diventato sempre più ebreo».
E poi la stella di David: gli spiega che i due triangoli che la compongono rappresentano il rapporto dell’uomo con Dio. «Uno va verso il basso», dice, «e indica che la nostra vita proviene da Dio, l’altro va verso l’alto e indica che noi ritorneremo a Dio».

Man mano che va avanti, il racconto sembra donargli un’inspiegabile forza, e il suo ascoltatore, oscillando sempre tra la sensazione di paura e la rassegnazione, non può fare a meno di trovare affascinanti le sue parole, soprattutto quando si sofferma a parlare del famoso Laocoonte, del suo ritrovamento a Roma avvenuto a gennaio del 1506, durante il pontificato di Giulio II, ritrovamento al quale era presente addirittura il grande Michelangelo. Gli dice che quando il gruppo scultoreo venne alla luce, era privo di alcune parti, tra cui il braccio destro di Laocoonte, gli dice di come l’avevano sostituito, e di come il pezzo aggiunto in realtà fosse risultato in posizione sbagliata. Sarà proprio Pollak ad avere la fortuna e il merito di ritrovare il pezzo originale, di riconoscerlo, da grande esperto quale egli è, e a far sì che l’opera recuperasse la sua autenticità. Prosegue ancora lasciandosi andare su riflessioni trasognate, ripensando al famoso personaggio dell’Eneide e attribuendogli un valore simbolico oltre quello naturalmente artistico, spiegando che cosa abbia significato Laocoonte in una diversa declinazione, fantasiosa e fatalistica: «Sono stati gli Dei a volere Roma. Tutti loro erano ossessionati dall’idea di vedere Enea fondare Roma. Laocoonte voleva salvare Troia distruggendo in tal modo l’idea di Roma prima ancora che ci fosse».
Ad un certo punto risulta chiaro al suo ascoltatore che Ludwig non sta parlando con lui, ma ha bisogno solo della presenza di qualcuno che lo ascolti, uno qualunque, ed egli stesso si trova lì in rappresentanza di tutti coloro che devono ascoltare la sua storia. Ed è proprio questo il punto cruciale dell’intera narrazione: il suo ascoltatore diventa un “testimone” ed è lui che lo ha fatto diventare tale. «Bisogna lasciare testimonianza proprio quando tutto finisce»: sono queste, tra le sue ultime parole, a dare un senso a tutto quello che succede immediatamente prima, ed anche immediatamente dopo.
Ludwig Pollak viene portato via il giorno successivo, lo fanno salire, insieme a tanti altri ebrei romani, su un treno per Aushwitz.

Le ultime ore di Ludwig Pollak, Hans von Trotha, Traduzione dal tedesco di Matteo Galli, pp.200, 14 euro, Sellerio, 2022

Eirene Campagna
collaboratrice

Classe 1991, è PhD Candidate dello IULM di Milano in Visual and Media Studies, cultrice della materia in Sistema e Cultura dei Musei. Studiosa della Shoah e delle sue forme di rappresentazione, in particolare legate alla museologia, è socia dell’Associazione Italiana Studi Giudaici.


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