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L’Unione Giovani Ebrei Italiani e la politica dell’equidistanza

Intervista a Simone Santoro

Si sente spesso parlare dei giovani, quelli che hanno terminato la scuola secondaria e che, in attesa di diventare genitori, esercitano un rapporto con le comunità di appartenenza a “elastico”. Gli adulti allora si preoccupano di trovare il modo di coinvolgerli e tenerli agganciati alla vita comunitaria. L’età compresa tra i 18 e i 35 anni è difficile, spesso coincide con un abbandono del mondo di appartenenza, all’incirca fino all’arrivo del primo figlio. Ma è anche un’età in cui ci si mette in discussione, a caccia di stimoli nuovi e costruttivi. E proprio alle persone di quella fascia di età sono rivolte le attività dell’Unione Giovani Ebrei Italiani. Abbiamo parlato con il presidente, Simone Santoro che, ha sottolineato subito, non ama fare distinzioni anagrafiche: la linea di demarcazione dell’universo dei giovani è (e deve essere) sfumata. Ma cosa fa UGEI nel concreto?
“Durante il mandato scorso ci eravamo dati un obiettivo: ampliare la rete dei collaboratori oltre il consiglio e abbiamo avuto una risposta importante, si sono rivolti a noi circa 30 ragazzi che, con interessi e capacità diverse, volevano impegnarsi per l’Unione. Il primo ostacolo negli ultimi anni era dovuto a un pregiudizio che rendeva UGEI solo un luogo per intellettuali. Non è così. E per dimostrarlo abbiamo puntato a fare di UGEI un polo di aggregazione. Purtroppo le restrizioni dovute al covid non hanno aiutato, siamo riusciti a organizzare unicamente una festa a Roma che però ha registrato 200 presenze: un successo. E poi lavoriamo in sinergia con i movimenti giovanili in modo da rendere fluido il passaggio in UGEI. Non solo. Il nostro giornale online, HaTikwa, si arricchisce continuamente di lettori, credo proprio per la politica che abbiamo deciso di adottare”.

Quale?
Una politica equidistante, cioè rispettosa di tutti i modi possibili di esprimersi (naturalmente nel rispetto reciproco e nella pacatezza dei modi), ma diamo voce a punti di vista di destra e di sinistra, ci occupiamo di argomenti alti e bassi, religiosi e laici, puntando alla qualità e alla professionalità dei collaboratori. Equidistante è anche il consiglio che raccoglie membri di estrazione diversa in nome dell’eterogeneità. I partecipanti effettivi di UGEI sono circa 300, ma sulla carta siamo in 4mila e l’obiettivo è parlare a tutti. In effetti le views sono raddoppiate nell’ultimo anno.

Chi può partecipare a UGEI?
Da Statuto, tutti gli ebrei tra i 18 e i 35 anni di età residenti in Italia, iscritti o iscrivibili alla comunità. Come dicevo prima c’è una grande varietà, che vogliamo rafforzare, offrendo di tutto per tutti.

Per esempio?
Con il World Jewish Congress stiamo lavorando a un progetto per portare la storia ebraica nelle Università, sfruttando anche il libro L’ebreo inventato, a cui abbiamo lavorato anche noi, per combattere i pregiudizi. E a Cagliari abbiamo cominciato a fare dei corsi per raccontare l’ebraismo.

Riuscite a coinvolgere anche le piccole comunità?
Sì, il nostro obiettivo è favorirle e quando portiamo loro i nostri progetti e le nostre proposte riscontriamo una grande gioia da parte di tutti, a cominciare dai rabbini fino ai più giovani.

Quanto servono gli eventi e le feste per fare aggregazione reale?
Moltissimo e noi ci crediamo parecchio. Così è nato Rewibe, creato specificamente per sviluppare il lato aggregativo di UGEI. Vogliamo proporre feste, ma anche incontri ed eventi pensati proprio per creare interesse e per fornire stimoli interessanti in chi ci segue. Come con i social, piattaforme su cui cerchiamo l’interazione. Attualmente UGEI si compone tre realtà: Hatikva, il nostro giornale online; Rewibe, incentrato su feste, sport ed eventi; UGEI che segue gli aspetti più istituzionali, a cominciare da quelli con UCEI, con cui collabora in un dialogo costante, proprio per evitare di creare due mondi separati, quello degli adulti e quello dei giovani. Sono molto orgoglioso anche del lavoro che portiamo avanti nel dialogo interreligioso, molto apprezzato in Italia ma anche in Europa. Stiamo facendo anche un lavoro di fundraising per rafforzare la struttura economica e puntare all’autosostentamento.

Come siete percepiti nelle comunità più grandi?
Diciamo che Torino e Firenze sono le comunità che garantiscono e sanno costruire maggiormente il senso di appartenenza. Roma e Milano sono più difficili e anche molto diverse tra loro. A Roma in effetti il senso di appartenenza c’è e ci stiamo addentrando sempre di più nella comunità. A Milano invece abbiamo a che fare con una realtà frammentata dove manca un mondo aggregativo giovanile. Abbiamo avuto contatti molto concreti con l’assessore ai giovani della CEM per unire gli sforzi, ma poi il Covid ha fermato tutto. Le adesioni sono parecchie e ci sono molti volenterosi volontari a collaborare con Rewibe. C’è anche un altro problema: questa città conta molta emigrazione giovanile. Tanti scelgono Israele, molti di coloro che restano si sposano piuttosto presto e hanno meno interesse a sentirsi parte di quelli che appunto vengono definiti giovani. Ma Milano è una realtà composita che va trattata con attenzione. Complessivamente però, nonostante il calo demografico, l’Italia ebraica non si ferma. E c’è tanta gioia nel portare avanti la vita ebraica da parte di tutti.

Micol De Pas

È nata a Milano nel 1973. Giornalista, autrice, spesso ghostwriter, lavora per il web e diverse testate cartacee.


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