Nella vita la fortuna aiuta (o non aiuta) ma non può né deve avere l’ultima parola. Non saremo giudicati sulle molte cose che non abbiamo potuto cambiare, ma su quelle poche che abbiamo scelto noi
Giorni fa il rabbino capo di Bologna Alberto Sermoneta ha richiamato pubblicamente alla nostra attenzione un antico detto rabbinico: hakol talui bemazal, afilu sefer Torà she bahekal, ossia: “Tutto dipende dal mazal, persino il sefer Torà che sta nel santuario/arca/armadio sacro”. È un detto che si trova nella letteratura mistica (in Giqatilla, Ja‘akob ben Sheshet, Zohar-Idra rabba…) e che potrebbe venire dal targum o traduzione aramaica di Qohelet 9,1-3, dove leggiamo che “dell’amore come dell’odio l’uomo non sa nulla, tutto li precede, e tutte le cose sono uguali per tutti: una medesima sorte tocca al giusto e all’empio… quello che è male, in tutto ciò che avviene sotto il sole, è che una stessa sorte tocca a tutti…”. Il traduttore riassume il concetto nell’idea che tutto dipende dal mazal che grava sull’uomo. Cos’è il mazal? È la combinazione degli astri, l’influsso delle stelle, la fortuna? I latini parlavano di fatum o sorte irrevocabile, indicando con ciò la totale dipendenza dell’uomo (cioè il benessere e i mali che gli capitano) da fattori esterni e superiori, gli dèi o gli astri. Inoltre, l’essere umano non saprebbe nulla di come essi lo condizionano nell’agire e nell’esito delle sue azioni.
Resta solo da chiarire se tutto sia frutto del ‘caso’ (come sostengono atei e atomisti) oppure del ‘disegno divino’, come interpreta rav Sermoneta: “C’è sempre chi, lamentandosi, sostiene di avere un ‘destino avverso’; la nostra storia è nelle mani di HaShem e soltanto Lui, che opera per il bene dei propri figli, conosce qual sia la strada migliore da scegliere”. In questa prospettiva esiste nel mondo una Provvidenza con la P maiuscola, almeno per quel che riguarda la vita umana. Ma nell’una come nell’altra opzione, che ne è della libertà dell’uomo se “tutto dipende dagli astri”, che siano le stelle oppure il Creatore delle stelle? E che ne è della bontà divina, se ciò che ci viene destinato è sofferenza e malessere e ingiustizia? Come affermare che “il Signore provvede” a fronte del destino comune a uomini e animali che è la morte, e delle tante miserie che affliggono quotidianamente il mondo? Si può ancora dire che il Padrone del mondo governi davvero il suo mondo? Cosa si deve intendere per ‘destino’? Sono tutti temi che attraversano l’intera storia del pensiero ebraico: da Qohelet a Giobbe, dai Pirqè Avot al Talmud, da Maimonide allo Zohar, fino ai filosofi ebrei contemporanei come Hans Jonas, ad esempio.
Anzitutto occorre essere molto cauti quando ci si muove a queste latitudini speculative (perché di speculazione, intellettuale o mistica, si tratta). Dire che la Bibbia offra un paradigma certo di Provvidenza, intesa come una filosofia della storia che garantisce un senso lineare e dal telos positivo agli eventi dell’umanità è, a mio giudizio, un azzardo che nasce da wishful thinking o da narcisismo antropocentrico o da una più o meno conscia adesione alla dialettica storica di Hegel, che che è poi la versione secolare della teologia cristiana della storia, che risale al vescovo Agostino di Ippona. Proprio Qohelet, a ben ponderare, descrive un paradigma diverso e opposto: non c’è alcuna Provvidenza perché non c’è differenza tra uomo e animale nelle cose del mondo: muore questo e muore quello e tutto è finito; e quale utilità ricava l’essere umano da tutta la fatica e il dolore che sperimenta sotto il sole? In altre parole, la natura – legge a se stessa – fa il suo corso e basta. Pessimismo e naturalismo, in Qohelet, bilanciano gli entusiasmi provvidenzialisti a cui, per amor proprio, un credente è sempre tantato (là dove, invece, la vera fede è quella che sfida il vuoto di senso naturale…). Dunque, cautela.
E cautela mostra Maimonide nella terza parte della sua Guida dei perplessi dove affronta la questione da par suo, anzi le molte questioni che qui si intrecciano: l’onniscienza e l’onnipotenza di Dio, il suo agire nel mondo, il male (la teodicea), le leggi di natura e la libertà umana. Secondo la filosofia in generale – qui il riferimento è al De providentia, in arabo, di Alessandro di Afrodisia – scartando l’idea che Dio possa non conoscere quel che accade sotto i cieli, le alternative diventano: o non è in grado di governare il mondo oppure sceglie di non governarlo; nel primo caso non sarebbe onnipotente e nel secondo caso non sarebbe buono. Ma di Dio non possiamo certo affermare che abbia comportamenti malvagi o inetti. “Resta dunque o che Egli non sappia nulla di tutte queste situazioni [connesse alle esistenze umane] oppure che Egli le conosca e le disponga nel migliore degli ordini”. O ignoranza o predeterminazione a fin di bene, ecco ciò che andrebbe attribuito a Dio. Secondo il Rambam i filosofi, per non attribuire alcuna malvagità o negligenza a Dio, finiscono per dichiararlo ignorante.
Ma qual è, a suo dire, l’opinione della tradizione ebraica? “Il fondamento della Legge di Moshe rabbenu e dei suoi seguaci è che l’uomo è dotato di responsabilità assoluta, ossia che per sua natura, scelta e volontà, può fare tutto ciò che all’uomo è dato di fare… Parimenti tutte le specie animali si muovono per loro volontà. E’ Dio che ha voluto, fin dall’eternità, che gli animali si muovessero per loro volontà e che l’uomo fosse dotato di responsabilità in tutto”. Questa posizione porta il Maimonide a mettere al centro della scena non la casualità aristotelica o la predeterminazione islamica (quella radicale degli ashariti e quella moderata e razionale dei mutaziliti) ma la possibilità dei meriti umani. E il merito è tale se c’è azione volontaria e libera, altrimenti non esiste. “Io credo – dice Maimonide – che la provvidenza divina, in questo mondo inferiore, si eserciti solo sugli individui della specie umana e che in essa i beni e i mali conseguono ai loro meriti (…) Non di meno, i nostri intelletti non arrivano a conosecre i criteri della volontà divina e i suoi giudizi sul mondo” (cfr. Guida III, cap. 17). Ecco perché, catalogando i mali che affliggono il mondo (III, cap.12), il Rambam – ispirandosi a Galeno – sostiene che la maggioranza dei mali l’essere umano se la procura da se stesso; a scalare, vi sono i mali che gli esseri umani si infliggono reciprocamente gli uni contro gli altri; infine, piccola parte sono i mali che accadono all’uomo per via naturale, a motivo della corruttibilità della propria natura o materia.
Il detto inziale hakol talui bamazal afilu sefer Torà… lascerebbe intendere che anche l’osservanza dei precetti dipende dagli astri. Ma tutta la tradizione rabbinica insiste che la libertà è data. “ Il permesso di agire con autonomia è dato…” poiché senza responsabilità non c’è merito. Ciò vuol dire che il mazal – le circostanze che non possiamo scegliere (dove e quando si nasce, la famiglia, la lingua, ecc.) – può essere trasformato in goral, in destino scelto da noi, che è segretamente tenuto in serbo da Dio per noi se scegliamo di seguire la mesillat yesharim, ‘il sentiero dei giusti’. In antico, goral era forse il nome delle pietre usate a scopi oracolari, come gli urim u-tummim del sommo sacerdote. Rabbinicamente il goral diventa la convergenza tra la Torà e la nostra volontà, che si uniscono per impedire al caso, al mazal, di avere l’ultima parola. Nella vita la fortuna aiuta (o non aiuta) ma non può né deve avere l’ultima parola. Non saremo giudicati sulle molte cose che non abbiamo potuto cambiare, ma su quelle poche che abbiamo scelto noi, quel piccolo personale contributo che avremo dato con i nostri meriti alla qualità della vita nel mondo.
Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma