Cultura
Modena ebraica

A testimonianza della storia ebraica della città emiliana, in pieno centro cittadino si erge la maestosa sinagoga, affacciata su piazza Mazzini, nel cuore di quello che è stato il ghetto

All’epoca dell’emancipazione la comunità ebraica di Modena contava circa mille membri. Oggi gli ebrei modenesi sono solo poche decine, ma non per questo la città emiliana ha dimenticato il proprio passato. Anzi. A testimonianza della sua importante storia ebraica, in pieno centro cittadino si erge la maestosa sinagoga, affacciata su piazza Mazzini, nel cuore di quello che era stato il ghetto. Istituito nel 1638 dai duchi d’Este, che pure fino a quel momento avevano favorito gli ebrei che fin dal Quattrocento abitavano nei territori da loro amministrati, il quartiere si sviluppava entro le attuali via Coltellini, via Blasia, via Torre, vicolo Squallore e, appunto, piazza Mazzini. I portoni si trovavano su via Emilia, allo sbocco di quella che era la contrada Squaroa (poi diventata vicolo Squallore), in via del Taglio, in contrada San Biagio (oggi vicolo Blasia) e in contrada San Domenico (ora via Cesare Battisti).

Chi volesse oggi ritrovarne le antiche atmosfere rimarrebbe in parte deluso, visto che tutta l’area è stata trasformata nel 1903, con lo sventramento dell’intero quartiere e la creazione dell’attuale piazza Mazzini, precedentemente piazza della Libertà e prima ancora centro del ghetto. L’unica via nella quale si possono rintracciare le caratteristiche medievali è vicolo Squallore, strada che termina con la chiesa di San Giorgio e che conserva le sue case addossate e le finestre disallineate. Altra memoria di quegli anni tanto dolorosi sono i segni dei cardini di uno dei portoni, nel punto in cui via Blasia confluisce in via del Taglio.

Pur rinunciando a individuare gli antichi edifici, si può comunque farsi un’idea di quale fosse lo spazio in cui gli ebrei modenesi condussero gran parte delle loro vite per oltre due secoli percorrendo via Coltellini, stradina nota nel Seicento come contrada degli Ebrei. A questo riguardo va ricordato che qui come altrove il ghetto era stato istituito nel quartiere in cui già risiedeva prevalentemente la popolazione ebraica, con la drammatica differenza che ora i suoi abitanti non avevano altra scelta, non potevano uscirne la notte e gli era vietata la contiguità con i cristiani. Si stima che 336 cristiani furono costretti ad abbondonare le proprie abitazioni da 35 case che si trovavano appunto accanto a quelle degli ebrei, e che gli edifici furono quindi divisi e le porte e finestre che si affacciavano fuori dal ghetto murate. Tornando a un itinerario ebraico nella Modena di oggi si può ricordare che l’attuale via Torre era un tempo chiamata contrada del “Mezo gheto”, perché le sue case erano state incluse solo per un lato al ghetto quando questo fu ampliato nel 1783.  Nonostante il degrado e la miseria, va comunque detto come gli oltre duecento anni di segregazione non impedirono alla comunità di sviluppare i talenti dei suoi membri né tanto meno ne inibirono la religiosità. Furono tre le sinagoghe che continuarono a funzionare, rispettivamente di rito tedesco, spagnolo e italiano, senza contare gli oratori nelle case private. Anche sul fronte accademico vi fu una fioritura, con il ghetto divenuto centro di studi ebraici e cabalistici con la partecipazione di luminari provenienti da tutta la diaspora.

Come altrove in Europa, la segregazione avrebbe conosciuto una sospensione con l’arrivo dei francesi napoleonici nel 1796 per poi essere ripristinata fino alla definitiva liberazione del 1859. È a questa epoca che risale la costruzione della bella sinagoga che ancora oggi conosciamo.

Al pari delle altre sinagoghe dell’emancipazione, anche il Tempio Israelitico di Modena sostituiva le vecchie e oscure scole con un edificio che nella grandiosità e rilevanza nel tessuto urbano voleva affermare la posizione e l’importanza della comunità ebraica dell’epoca e la sua integrazione nella vita cittadina a tutti i livelli, sociali, politici ed economici. A progettarlo era stato chiamato lo stesso architetto che aveva disegnato la stazione delle ferrovie provinciali di Modena, Ludovico Maglietta, mentre per le decorazioni interne era stato coinvolto Ferdinando Manzini. Il risultato, che si può tuttora ammirare in occasione delle aperture al pubblico o delle funzioni religiose annuali più importanti, è caratterizzato non solo dalla posizione dominante sugli edifici circostanti, ma anche per lo stile neoclassico, timpanato, che lo distingue e le decorazioni a carattere non figurativo che lo abbelliscono. L’intero, a pianta rettangolare, è caratterizzato da una cupola ellittica decorata a cielo stellato e dalla presenza di dodici colonne che rappresentano presumibilmente le tribù di Israele e che sorreggono il matroneo, che corre tutto intorno all’ellisse disegnata dalla cupola. L’area destinata all’officiante è sopraelevata rispetto al resto della sala e chiusa da una cancellata, l’aron è chiuso invece da colonne neoclassiche, con antine rivestite di foglie. Di rito italiano, la sinagoga è utilizzata solo per le grandi ricorrenze, mentre per le altre funzioni esiste nello stesso edificio un piccolo oratorio originariamente di rito tedesco. Si apre su via Coltellini, lo stesso lato in cui un tempo si trovava anche la facciata del Tempio, che all’epoca della sua inaugurazione non era come oggi così visibile nella zona più centrale della città.

Spostandosi di poco da piazza Mazzini ci si trova in un altro dei luoghi chiave della storia più recente della comunità modenese. In piazza Torre, grazie a una lapide che ne ricorda la storia, si può individuare quella porzione di selciato che da sempre è conosciuto dai modenesi come Al tvajol ed Furmajin, ossia “il tovagliolo del Formaggino”. Memoria degli anni cupi del fascismo, questo è il luogo in cui Angelo Fortunato Formiggini, importante editore modenese, si tolse la vita con un salto di 60 metri dall’alto della torre della Ghirlandina. Ritenuto il padre spirituale della Enciclopedia Treccani (del quale però non ottenne la direzione, affidata a Giovanni Gentile, più vicino all’ideologia fascista) con il suo sogno di una biblioteca senza confini e l’ideazione di una enciclopedia italiana in 18 volumi, si era gettato con le tasche piene di soldi, per provare che non erano i problemi economici ad affliggerlo, e con due lettere, una per il re e l’altra per Mussolini. Gesto disperato di un uomo che aveva invece fatto invece dell’ironia e della risata un vero culto, il suicidio di Formiggini avveniva il 29 novembre del 1938, all’indomani della promulgazioni delle leggi razziali.

Per chi desiderasse conoscere la storia degli altri ebrei modenesi, nonché delle vicine comunità di Reggio Emilia (oggi sezione di quella di Modena) e di Carpi, ormai estinta, nello stesso edificio della Sinagoga, nei locali dove un tempo si trovava il forno delle azzime si trova oggi l’Archivio della Comunità Ebraica. Tra i pochi nel suo genere a essersi conservato integralmente, l’archivio raccoglie materiali a partire dal XVI secolo strutturati in cinque sezioni, collegate a loro volta alla vita della Comunità e agli eventi storici. Importante fonte per gli studiosi così come per chiunque sia interessato a questa importante parte della vita e della cultura cittadina, l’archivio conserva soprattutto documenti di carattere amministrativo, anche se non mancano atti anagrafici, scolastici e medici, in buono stato di conservazione. Per accedervi è possibile scrivere alla Comunità Ebraica di Modena e Reggio Emilia (comebraica-sinagoga-synagogue.business.site/), mentre gli inventari sono consultabili sulle pagine dedicate del Siusa (https://siusa.archivi.beniculturali.it).

Passando alla Biblioteca Estense, anche qui non mancano importanti testimonianze della vita ebraica locale e non solo, in questo caso con particolare attenzione alle pergamene e ai manoscritti antichi. Nell’Archivio di Stato di Modena sono stati catalogati 274 frammenti di codici ebraici, per lo più fogli e bifogli ricomposti in 124 manoscritti. Oltre a molti testi di Bibbie, alcune copiate nel secolo XI in Italia meridionale, probabilmente dalle accademie di Otranto e di Bari, compaiono anche preziosi testi della Mišnah, del Talmud babilonese, opere normative, filosofiche, cabalistiche e qualche raro testo scientifico.

Passando dalle carte alle pietre, vale la pena uscire dal centro cittadino e recarsi in strada cimitero San Cataldo, presso il camposanto comunale del quale il cimitero ebraico è parte dagli inizi del Novecento. Tra le diverse lapidi con incisioni in ebraico e italiano, merita una particolare attenzione quella del deputato socialista ebreo Pio Donati. È posta accanto al muro di cinta che divide il reparto ebraico da quello cattolico, dove si trova quella del suo amico Francesco Ferrari, antifascista che con lui era espatriato per sfuggire al regime. Nel muro che separa le due sezioni è stato inserito un vetro, in modo che le tombe, idealmente collegate, possano essere viste da entrambi i reparti. Nell’attuale cimitero sono conservate anche alcune delle lapidi provenienti dai più antichi cimiteri della città, dal più antico, che si trovava alle Fosse, lungo le antiche mura, a quello successivo, utilizzato fino alla fine dell’Ottocento, fra via Pelusia e via Emilia.

Si trova nel cuore di quello che era stato il ghetto anche la sinagoga di Reggio Emilia, la cui comunità è oggi una sezione di quella di Modena. Restaurato e riaperto al pubblico ma non al culto nel 2008, il tempio si affaccia su via dell’Aquila, quasi un vicolo all’interno di quella manciata di strade entro le quali gli israeliti erano stati costretti a risiedere per due secoli. Presenti fin dal Quattrocento, gli ebrei reggiani avevano subito l’istituzione del ghetto a partire dal 1669, per volere della duchessa reggente Laura Martinotti. A differenza di Modena, qui la struttura originaria è più facilmente riconoscibile e per quanto i palazzi siano stati restaurati, passeggiando tra le vie Caggiati, della Volta, Monzermone, San Rocco e la stessa dell’Aquila ci si può fare un’idea di quali fossero gli spazi in cui si muovevano i quasi mille ebrei reggiani dell’epoca. Confinanti da una parte con via Emilia e dall’altro con via San Rocco, le strette vie del ghetto costringevano chi le volesse percorrere a uscire sulla via Emilia, di giorno, o sulla via interna San Rocco se era notte. Per poter lasciare il ghetto nelle ore diurne era stato imposto come segno distintivo un nastro rosso, da appuntare al cappello per gli uomini e in vita per le donne. Per evitare di dover scendere in strada per passare da una casa all’altra, all’interno degli edifici era stata creata una fitta rete di passaggi.

La reclusione e le condizioni di vita precarie non impedirono anche qui lo sviluppo degli studi, delle attività professionali e della cultura. In particolare si ricorda l’istituzione della scuola per gli alti studi ebraici, frequentata da eminenti rabbini provenienti da tutta Italia, e le attività di stampa, con Anania Coen, letterato vissuto a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, che impiantò a casa propria una vera e propria tipografia, stampando opere di carattere didattico ebraico. Tornando alla sinagoga, questa fu inaugurata nel 1858 in via dell’Aquila 3, nello stesso luogo in cui sorgeva una precedente sinagoga seicentesca, ormai caduta in rovina. Progettato da un architetto ai tempi piuttosto in voga quale Pietro Marchelli, il tempio aveva richiesto diversi anni di lavoro per essere riaperto nonché consistenti spese.

Bombardata nel 1944, avrebbe perso la sua funzione religiosa mentre i suoi arredi principali sarebbero stati trasferiti altrove. Tra questi, l’aron risalente alla metà del Settecento e realizzato dallo scultore Agostino Canciani si trova oggi presso un oratorio ad Haifa, in Israele. Trasformata in tipografia, fu poi abbandonata a partire dalle metà degli anni Cinquanta dopo il crollo della cupola. Il restauro di questa così come degli interni si è concluso in tempi relativamente recenti e l’edificio è stato riaperto nel 2008. Purtroppo l’assenza di mobilio rende oggi lo spazio piuttosto asettico, ma in occasione di eventi e di visite è possibile comunque apprezzarne l’elegante struttura interna, con la sala dominata al centro da una cupola a crociera chiusa da un lucernario, le pareti su cui si alternano pilastri e colonne e i matronei su tre piani. Sulla facciata esterna, accanto all’ingresso, si trova una lapide che ricorda i dieci ebrei reggiani vittime della deportazione.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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