Hebraica Nizozot/Scintille
Nachman di Bretzlav tra mistica, messianismo e letteratura

Ritratto del rebbe che ha fatto della fiaba uno strumento miracoloso

Nel mondo ebraico Nachman di Bretzlav è una leggenda. Noto a tutti ma conosciuto davvero da pochissimi, perché il “nascondersi” fu un tratto saliente della sua vita e del suo insegnamento. Ma cosa si può dire di lui in termini storici? Pronipote per parte materna del Ba‘al Shem Tov e nipote dal ramo paterno di Nachman di Horodenka (del circolo del Besht), Nachman ben Simchà è noto come il rebbe di Bretzlav (o Breslov), nella Slovacchia morava. Nacque nel centro spirituale del movimento chassidico, Mezhiboz in Podolia, e dopo essersi sposato in giovane età si trasferì a Medvedevka in Ucraina. A ventisei anni fece un viaggio in Palestina che fu interrotto dalla campagna napoleonica. Tornato nella cittadina di Zlatopol, entrò in conflitto con il leader dei chassidim locali Ariè Leib di Spola, che lo accusò di essere un ‘eretico’ alla maniera dei sabbatiani e dei frankisti. Fu così costretto a trasferirsi a Bretzlav, dove dimorò – non senza altri attriti e dispute religiose con i suoi pari – dal 1802 al 1809; ammalatosi di tubercolosi, si trasferì a Uman in Ucraina, in casa di noti seguaci dell’haskalà, dove morì nel 1810. A Uman si trova la sua tomba, mèta annuale, alla vigilia di ogni rosh hashanà, di grandi pellegrinaggi da parte dei suoi chassidim. Questi sono gli unici che non hanno mai trovato un successore al loro rebbe e per questo sono noti anche come i ‘chassidim della sedia vuota’ (quella del rebbe, appunto, morto senza eredi).

Non lasciò nulla di scritto. I suoi insegnamenti, e soprattutto i suoi famosi tredici racconti, furono devotamente trascritti e organizzati da Nathan ben Naftalì Hertz Sternhartz di Nemirov (1780-1845): anzitutto i Likutè Moharan (1806), seguiti dopo la di lui morte dai Likutè Moharan tinjana (1811) e infine i Sippurè ma‘asyiot (1815) ossia i ‘racconti degli eventi’, per i quali divenne famoso, sebbene siano storie tutt’altro che facili da decifrare (Giacoma Limentani z.l. e il rabbino Shalom Bahbout ne hanno fatto una preziosa traduzione, seguita da un lungo saggio interpretativo, nel volume Adelphi intitolato La principessa smarrita, pubblicato del 1981). Libri e tradizioni nachmaniane continuano a diffondersi dal quartiere di Mea She‘arim di Gerusalemme e da Benè Braq.
Le numerose controversie che caratterizzarono la vita di Nachman di Bretzlav ebbero a che fare con le eresie di ispirazione qabbalista ma furono solleticate dalla stranezza di certi comportamenti di questo giovane rebbe. Naturalmente il suo lignaggio familiare contribuì a rafforzare in lui un’autocoscienza, diciamo così, messianica. Era cresciuto all’ombra della mitica santità del bisnonno ma anche nell’atmosfera delle dottrine di Itzchaq Luria, il mistico-teorico dello tzimtzum (interpretabile come una ‘teologia del nascondimento divino’) e della shevirà, la cosmigonica rottura dei vasi colmi di energia divina, rottura sulla quale si innesta il programma mistico-messianico del tiqqun, la loro riparazione ossia la redenzione. Sono queste dottrine – più che la fama di asceta che si immerge in acque gelide o che si isola tra i canneti per ascoltare il canto dell’erba – a riverberare nei suoi testi più famosi e affascinanti (per chi li comprende), i Sippurè ma‘asyiot. Come detto, si tratta di tredici storie piene di allegorie e di simboli: se da una parte esse sembrano continuare lo stile didattico degli altri maestri chassidici, d’altra parte rappresentano una forma nuova, assai complessa e intellettualizzata di pedagogia affabulatoria, anzi di mistagogia. Il loro fine ultimo è rivelare i segreti della Torà senza davvero svelarli, offrendoli al grande pubblico in involucri celati ed enigmatizzati. Il rebbe di Bretzlav, come un cantastorie, non offre chiavi o commenti ai suoi racconti ma lascia intendere che essi vengono da lui considerati più profondi degli stessi insegnamenti qabbalistici, in quanto sono intenzionalmente costruiti come castelli o palazzi – gli hekhalot della più antica tradizione mistica del giudaismo – in cui i personaggi da fiaba (imperatori e re, principi e principesse, servi e mendicanti, sapienti e ignoranti…) si muovono come tipi e cifre universali che chi ascolta non solo deve conoscere ma in cui si deve anche riconoscere.

Secondo Elie Wiesel, si tratta di “cerchi concentrici il cui centro è forse sepolto nell’intimo dell’uomo: l’io dell’io, la coscienza che si fa silenzio e pace, la memoria dentro la memoria. Sono storie popolate di principi e saggi, esseri ossessionati che si cercano gli uni con gli altri, gli uni negli altri, scampati ai flagelli, rifugiati, esuli, messaggeri e bambini innocenti, orfani e mendicanti che errano sulle strade del mondo per ritrovarsi in una grotta o in un palazzo… Seguendoli, ci immergiamo nel soprannaturale; eppure la parola miracolo non viene mai pronunciata. Perché nell’universo di Rabbi Nachman tutto sembra miracoloso, anche il quotidiano. Sulle sue labbra l’uomo più indifeso, l’essere più incolto è dotato di poteri: sa far cantare gli oggetti e far ridere gli alberi, gli animali e i venti del mattino” (così in Célébration hassidique, 1972).

Ovviamente il fascino della narrazione surreale è solo un aspetto della strategia creativa con cui viene declinato un principio epistemologico: la verità non può essere detta né colta in modo diretto o immediato, ma va ‘rivestita’ in storie e racconti, in modo che l’orecchio che la ode e l’occhio che la vede non vengano feriti. È l’idea biblico-talmudica per cui ‘nessuno può vedere Dio e restare in vita’, che qui viene riattualizzata in un linguaggio popolare – la fiaba della grande tradizione letteraria slava – elevato ad allegoria, a simbolo dei misteri della Torà: il re è Dio, la principessa smarrita è la Torà, il principe che deve superare le prove è l’uomo, ecc. Se la luce della verità divina non venisse rifratta e spezzata non potrebbe mai raggiungere l’uomo in tutti gli anfratti del suo cuore angosciato. Un famoso aforisma nachmaniano dice: “Non c’è cuore più integro di un cuore spezzato”. Nei Likutè Moharan si legge:

La Torà è una medicina, nella quale sono presenti due tipi di droghe: una che dà la vita e una che dà la morte. Come insegnano i nostri maestri: se la merita, gli si trasforma in droga che dà la vita, ma se non la merita diventa per lui una droga mortale [Jomà 72b]. Se perciò insegnassimo [all’uomo] la Torà così com’è veramente, morirebbe senz’altro, perché non avendola meritata diventerebbe per lui una droga mortale: è quindi necessario rivestire i contenuti reconditi della Torà con altre parole di insegnamento. A volte però accade che l’uomo non possa assorbire neppure queste; allora, affinché possa prendere la medicina che vi è celata, bisogna rivestire la Torà con racconti di cose estranee.

Come nel famoso aneddoto sul Ba‘al Shem Tov e sulla forza miracolosa della narrazione (tramandato da Israel di Rushin, maestro chassidico della quarta generazione), il racconto smette di essere mera letteratura e diviene un mezzo di redenzione e sublimazione, che unisce misticamente chi racconta e chi ascolta con la verità della parola narrata. Nella qabbalà la parola narrante-narrata è veicolo della fede ma anche suo contenuto: ha il potere di trasformare la realtà e si cristallizza come la necessaria kelippà, o scorza, senza la quale la luce e la verità divine non potrebbero risiedere nel mondo. Compito dello tzaddiq, del rebbe giusto e santo, è mettere in contatto, con le sue parole a un tempo sapienti e affabulatrici, il cielo e la terra. Per i suoi pii seguaci, nessuno tzaddiq ha assolto questo compito meglio di Nachman di Bretzlav, e dunque nessuno ha titolo per succedergli. Strano, nel giudaismo. Non meno strano dei pellegrinaggi a Uman o del mantra cantato “na nach nachmà Nachman me-uman”, che chi vive o è vissuto in Israele ben conosce. Cosa vuol dire? Beh, lasciamo un po’ di mistero a questi breslover chassidim…

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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