Cultura
Nel nome della madre

La figura materna nella letteratura ebraica contemporanea

Sostegno, conforto, intesa, dipendenza, incomprensione, conflitto, disperazione, nostalgia. In quanti modi un figlio può rivolgersi alla madre? Un fortunato filone novecentesco della letteratura e del cinema, da Philip Roth a Woody Allen, ha dato forma alla figura possessiva, esuberante e importuna della yiddishe mame, la madre della tradizione ebraica ashkenazita. Ma la letteratura ebraica contemporanea è anche ricca di ritratti di madri che sarebbe ingiusto forzare nello schema della “mamma in cielo” di Woody Allen, anche se con questa condividono talvolta un’aria di famiglia. Vasilij Grossman, Romain Gary, Albert Cohen e Amos Oz sono figli che scelgono la letteratura per dialogare con le madri ormai perdute, smussare le incomprensioni, rendere loro un ultimo omaggio.

Il pensiero della madre Ekaterina Savel’evna, assassinata dai nazisti e dai collaborazionisti ucraini il 15 settembre 1941, è presente in filigrana nel cuore del grande romanzo di Vasilij Grossman, Vita e destino (Adelphi), a ragione definito “il Guerra e pace del Novecento”. Grossman, che è corrispondente di guerra presso l’Armata rossa durante il secondo conflitto mondiale, per tutti gli anni a venire vive nella morsa del senso di colpa per non aver fatto di tutto per evacuare la madre di fronte alla rapida invasione tedesca. La madre di Grossman viveva a Berdicev, in Ucraina, una città la cui popolazione ebraica prima della Shoah superava la metà del totale. In seguito all’avanzata tedesca, oltre 30.000 ebrei di Berdicev sono fucilati sul posto in tre soli giorni. Tra questi, anche Ekaterina, la madre. A lei il figlio scriverà due lettere riportate nel volume Uno scrittore in guerra (Adelphi), a cura di Antony Beevor e Luba Vinogradova, che raccoglie i diari scritti da Grossman durante il conflitto. “Carissima Mamma, sono venuto a sapere della tua morte nell’inverno del 1944. Eppure già dal settembre 1941 sentivo nel mio cuore che te ne eri andata”, scrive nella prima, del 15 settembre 1950. Lo scrittore, che solo con la ritirata tedesca aveva scoperto la terribile verità, nel 1944 scrive articoli sulla distruzione delle comunità ebraiche in Ucraina censurati dalle autorità sovietiche, attente a sminuire la specificità della Shoah a tutto vantaggio dell’immagine voluta dalla propaganda del regime della “grande guerra patriottica”. Il tempo non ha alleviato il dolore, continua Grossman rivolgendosi alla madre, perché “il tuo terribile destino è il destino dell’umanità in questi tempi inumani”. Nella seconda lettera, del 15 settembre 1961, Grossman dice che “finché vivrò vivrai anche tu. E, quando morirò, vivrai nel libro che ti ho dedicato e la cui sorte è così simile alla tua”. Il libro è Vita e destino, sequestrato in Unione Sovietica e pubblicato solo venti anni dopo la morte dell’autore. In pagine dolorose di quest’opera monumentale il fisico ebreo Victor Štrum legge e rilegge la lettera che la madre gli ha scritto dal ghetto prima di essere assassinata, e in cui lo invita a vivere, sempre e comunque a vivere qualsiasi cosa succeda. E’ la lettera che Grossman non ha mai ricevuto e che forse trasmette tutto quello che, in una situazione estrema, una madre può dire a un figlio.

Amorosa, eccessiva, dotata di inesauribile energia, dalle ambizioni sul figlio spropositate. E’ Mina Owczynska, madre dello scrittore francese Romain Gary. Mina non ha semplicemente sognato un grande avvenire per il figlio, lo ha deciso. Romain diventerà un grande scrittore, un eroe di guerra, un seduttore formidabile: tutte cose che, puntualmente, si realizzeranno. Gary racconta la propria storia e quella della madre nel suo libro più bello, La promessa dell’alba (Neri Pozza), secondo Newsweek “uno dei più straordinari tributi mai scritti da un uomo a sua madre”. Romain nasce in Lituania nel 1914, fuori dal matrimonio, da Mina, attrice definita “di scarso talento”, e Ivan Mosjoukine, stella del cinema nascente che non avrà ruoli nella vita dello scrittore. Come tanti altri russi che vedono il proprio paese sprofondare nella guerra civile, Mina riesce a fuggire da Vilna e a trasferirsi con il figlio in Francia, a Nizza. Con coraggio, forza vitale e una convinzione assoluta che rasenta e forse supera il confine con il fanatismo, la madre vive con e per il figlio, che dovrà essere un nuovo Victor Hugo nel paese delle libertà. La passione per la Francia che Mina trasmette a Romain non si arresta neanche quando il giovane è costretto a confrontarsi con l’antisemitismo diffuso tra le due guerre. Perfino nel maggio del 1940, nei giorni della disfatta e dell’invasione tedesca, la certezza della vittoria finale rimane incrollabile: la Francia e il figlio trionferanno. Le imprese aeree durante la seconda guerra mondiale fanno del futuro scrittore un eroe e, in seguito, un diplomatico di fama internazionale. Saranno tante le compagne negli anni a venire, tutte bellissime, dalla scrittrice inglese Lesley Blanch alla musa della Nouvelle Vague Jean Seberg fino a Leïla Chellabi, che alla morte di Gary – per suicidio annunciato da decenni e minuziosamente preparato – disperderà le sue ceneri nel mare al largo di Mentone, come lui aveva chiesto. Ma al centro del libro, e della vita, dello scrittore rimane sempre lei, la madre, gigantesca e onnicomprensiva. Il sacrificio materno vincola il figlio, che diventa tutto quello che la madre ha voluto. Gli anni della guerra dividono madre e figlio. Quando il conflitto termina, Romain riceve da lei una inaspettata lettera di scuse: “Ricordati che non ho mai dubitato di te. Spero che quando ritornerai a casa e capirai tutto, mi perdonerai. Non potevo fare diversamente”. “Che cosa aveva fatto dunque? Che cosa dovevo perdonarle?” Si sarà forse sposata, ipotizza il figlio, avrebbe forse finalmente una parte di serenità. Il figlio la cerca e finalmente scopre, a Ginevra, che la madre è morta da tre anni e mezzo, poco dopo la sua partenza per l’Inghilterra con l’armata di De Gaulle. Negli ultimi giorni prima della morte aveva scritto quasi duecentocinquanta lettere e aveva poi pregato un’amica svizzera di inviarle al figlio una alla volta, a intervalli regolari. “Sapeva bene che non potevo tenermi in piedi senza sentirmi sostenuto da lei, e aveva preso le sue precauzioni”.

Il titolo racchiude in nuce tutto il contenuto. Il libro di mia madre (Rizzoli) di Albert Cohen è secondo il regista Marcel Pagnol “la più bella storia d’amore”. Pagnol aveva conosciuto Cohen a Marsiglia, dove i genitori di Albert erano emigrati da Corfù nel 1900, quando il futuro scrittore aveva solo cinque anni. Il libro, scritto nel 1954 nove anni dopo la morte della madre, è una elegia di colei che, non senza limiti e difetti, aveva fatto della dedizione assoluta verso il marito e il figlio lo scopo della propria vita. La protagonista è lei e non ha nome proprio, ma universale: Maman, madre. L’amore della madre, totale e senza condizioni, basta a se stesso; non sono certo le piccole crudeltà e gli ostentati silenzi del figlio a scalfirlo. La madre è piccola, “goffa e maestosa”, disordinata, grossolana, golosa, ingenua. E’ ammirata da tutto quello che è svizzero da quando il figlio intraprende studi di letteratura e diritto presso l’università di Ginevra. Quando Albert è ormai sposato e lavora presso un’agenzia della Società delle Nazioni, antenata dell’Onu, la madre attende a lungo un invito che tarda a arrivare, forse per la vita frenetica, forse per il fastidio verso i ridicoli cappellini e l’inconsapevole ignoranza di lei. Ma nulla serve a smuovere la madre dall’approvazione incondizionata, dalla fedeltà programmatica, dall’annullamento della propria personalità individuale a tutto favore di quella che è la missione che ha scelto. Qualcosa, o forse molto, della madre tornerà anni dopo nel romanzo più importante di Cohen, Bella del Signore (Rizzoli), una storia d’amore lirica e ammaliante. Ma nel Libro di mia madre il figlio diventa consapevole di quello che ha avuto e che ha perso; i ricordi si ammantano di malinconia, che a propria volta si fa senso di colpa e infine struggimento. “Nessun figlio”, scrive Cohen, “sa veramente che sua madre morirà e tutti i figli si arrabbiano e si spazientiscono con le loro madri, quei pazzi così presto puniti”. Il ritorno e la vittoria della madre sono dolorosamente postumi, ma non per questo meno veri: adesso la madre non sarà mai più trascurata, mai più dimenticata.

“Di mia madre non ho parlato quasi mai, per tutta la mia vita fino a ora, che scrivo queste pagine”, rivela Amos Oz in Una storia di amore e di tenebra (Feltrinelli), uno dei romanzi più importanti della giovane e effervescente letteratura israeliana. Il libro più importante di Oz è il racconto della storia di una famiglia, la propria, e di un paese che nasce, due vicende fittamente intrecciate. Ma nel cuore del libro si pone il suicidio della madre Fania Mussman nel 1952, quando il figlio aveva dodici anni. Il dipanarsi del gomitolo dei ricordi che diventa racconto di vita e poi libro si svolge intorno a questo segreto dramma e, per lungo tempo da parte del figlio, alla difficoltà a capire i motivi del gesto estremo e di perdonare quello che è di fatto un abbandono subìto. L’editore italiano ha deciso anche graficamente di insistere sulla centralità della figura della madre pubblicando il volume con, in copertina, una figura femminile vista di spalle dai contorni sfocati. Dopo la morte di Fania il figlio deciderà di rinascere, compiendo lui stesso adesso un gesto di libertà e abbandono, uscendo dalla casa paterna di Gerusalemme per entrare in kibbutz. A segnare il passaggio, il simbolico ma anche concretissimo cambio del nome: da Amos Klausner a Amos Oz, forza in ebraico. Amore e tenebra sono i materiali da costruzione con cui viene edificato il romanzo che è autobiografico per un’intera nazione. Il dramma della morte della madre trova allora un immediato corrispettivo nella tragedia di due popoli che, come Oz ha ripetuto tante volte, contrappongono non una ragione e un torto ma due ragioni. Due ragioni, come quella della madre, con il suo atto estremo ma libero, e del figlio, che non capisce – e come potrebbe? – il perché del terribile, silenzioso addio.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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