Cultura
Padri e figli al fronte

Sono numerose le storie, anche drammatiche, delle famiglie israeliane in cui due generazioni si trovano impegnate nel conflitto con Hamas

Dall’inizio del conflitto in Israele hanno perso la vita oltre 100 soldati. Tra di loro, il figlio di Gadi Eizenkot, ex Capo di Stato Maggiore e oggi membro del Gabinetto di Guerra. Come ricordato durante i funerali, Gal – 25 anni – studiava medicina e durante il servizio militare al confine con la Siria aveva anche curato numerosi siriani, feriti dal loro stesso governo, trovati in cerca di aiuto presso la frontiera con Israele. Un’esperienza che per lui è stata molto significativa tanto da voler dedicare la propria vita alla cura delle persone ferite in guerra.

Il giorno del suo funerale, sulla pagina Facebook di Yair Lapid, è apparsa una foto di padre e figlio che si abbracciano al confine con Gaza, dove si sono recati entrambi, immediatamente, subito dopo il massacro del 7 ottobre: “Padre e figlio. Entrambi soldati. Entrambi arrivati ​​quando ne avevamo bisogno, per fare quello che dovevano fare.  – aveva commentato il leader dell’opposizione – Il destino di un intero Paese in un abbraccio.” Le parole di Lapid sottolineano la resilienza di Israele e del popolo ebraico che cerca – nonostante questi giorni bui, di guerra e dolore – di trovare una speranza.

Gli Eizenkot non sono l’unica famiglia in cui due generazioni si trovano impegnate al fronte, nel corso di un confitto che verrà ricordato, nella storia di Israele, come quello con la più alta percentuale di adesione: donne, uomini, ebrei, musulmani, cristiani. Padri e figli. Come Lior e Asaf, entrambi impegnati come riservisti. Asaf ha 40 anni e fa parte di coloro che sono stati richiamati dall’esercito, mentre Lior ne ha 76 e avrebbe finito il suo servizio di riserva a 45 anni. Invece, non ha mai smesso. Attualmente è impegnato nella logistica per aiutare i giovani al fronte.

Lior è nato in Israele nel 1947, un anno prima della fondazione del Paese, da genitori scappati dalla Polonia che, a loro volta, hanno combattuto non solo per la difesa ma per la nascita dello Stato di Israele, durante la Guerra di Indipendenza, nel 1948. “Oggi siamo qui a combattere perché lo Stato di Israele non venga cancellato” commenta Asaf, incredulo del fatto che dopo il lavoro e il sacrificio dei suoi nonni, tutto abbia rischiato di finire in cenere, in un giorno solo, il 7 ottobre: “Quando mi hanno chiamato al fronte, il giorno stesso, ancora non si sapeva se saremmo stati attaccai anche da Hezbollah e se sarebbe esplosa anche una guerriglia interna, sia nei Territori che in Israele, tra gli arabi israeliani.” Per questo Asaf non ha esitato neanche un istante ad arruolarsi, perché sapeva che si trattava di una questione di vita o di morte: per il Paese e, prima ancora, per i suoi figli. “Non posso credere che, un giorno neanche troppo lontano, toccherà anche a loro: siamo ormai quattro generazioni che lottano per la difesa e la garanzia dell’esistenza di uno Stato che era l’unica alternativa quando i miei nonni sono dovuti scappare dall’Europa. Ora, invece, è l’unica alternativa per i miei figli, mentre il mondo viene inondato da uno tsunami di antisemitismo”.

Suo padre Lior, invece, è, a tratti, più ottimista. Forse perché è già passato attraverso tante guerre: dalla Guerra di Sei Giorni nel 1967 alla Guerra di Attrito durata fino a 1970; da Yom Kippur, nel 1973, alla Prima Guerra del Libano, durata dal 1982 al 2000 e la Seconda nel 2006: “È da 50 anni che sono riservista” ci spiega Lior “ma questa è la prima guerra completamente asimmetrica in cui mi trovo. Non si stratta di una guerra tra Stati. Qui, il 7 ottobre, sono stati attaccati, e massacrati, stuprati e mutilati civili israeliani. Inoltre, non si tratta di una guerra territoriale, come lo sono state le altre guerre in passato, ma di una guerra culturale: tra Israele, unica democrazia del Medioriente, e i gruppi terroristici che sostengono, e sono a loro volta sostenuti, dalla teocrazia dell’Iran: da Hezbollah in Libano agli Huthi in Yemen. Purtroppo il Medio Oriente è sempre stato diviso al suo interno, anche all’interno dell’Islam, e Israele, da sempre, ne paga le conseguenze per il suo essere una democrazia, all’interno della quale c’è spazio per tutti: ebrei, cristiani e musulmani. Tanto che anche i cittadini cristiani e musulmani fanno parte dei riservisti che, mai come prima, hanno deciso di arruolarsi per la difesa di un Paese che è di tutti.

“Israele potrebbe essere un Paese meraviglioso. Così come Gaza” continua Asaf, scoraggiato, dopo aver prestato servizio militare nell’enclave dal 2003 al 2005, prima del disimpegno di Israele dalla Striscia: “Quando ce ne siamo andati abbiamo lasciato la possibilità ai palestinesi di trasformare Gaza nella Dubai del Mediterraneo. Invece con i soldi degli aiuti umanitari, nostri e di tutto il mondo, l’hanno trasformata in una ragnatela di tunnel per cercare di distruggerci, proteggendo i propri criminali di guerra e usando i civili come scudi umani. Purtroppo, il problema dei palestinesi, non solo a Gaza, è la totale mancanza di leadership e di democrazia, senza la quale loro non avranno mai uno Stato e noi non avremo mai pace. Non posso credere che a distanza di 75 anni dobbiamo ancora rischiare la nostra vita per difendere la nostra esistenza. E non riesco ancora a credere che debba toccare, nuovamente, ai nostri figli.”

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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