Oggi, 25 novembre 2023, a 24 anni dall’istituzione della giornata internazionale contro le violenza sulle donne, la denuncia pesante del silenzio delle organizzazioni internazionali sugli stupri e le terribili violenze perpetrate da Hamas in Israele
Una ragazza abusata sessualmente durante un Festival di musica va a esporre denuncia per stupro a una presunta “polizia mondiale” che, appena scopre che si tratta di una vittima israeliana, pur scusandosi spiega che, “per protocollo”, non può aiutarla.
Questa è la storia raccontata in un video che fa parte della campagna #MeToo_Unless_Ur_A_Jew organizzata in occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita il 25 novembre 1999 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.
“Non rimarremo in silenzio. La vita di ogni donna è ugualmente preziosa” viene dichiarato nella mission della campagna promossa da UN Women. Sono trascorsi ormai 50 giorni dal 7 ottobre, giorno in cui Hamas, nel realizzare il più grande massacro nella storia di Israele, ha commesso anche crimini e violenze sessuali, specificamente nei confronti delle donne. Non solo israeliane. Sono 28 le nazionalità tra i 239 ostaggi rapiti nella Striscia. Fra questi un neonato, venuto al mondo nei tunnel dell’enclave, figlio di una tailandese che lavorava nei campi dei kibbutz messi a ferro e fuoco dal gruppo terrorista. Sul sito di Un Women si legge infatti che questa campagna intende essere “Un appello di emergenza per diventare la voce di tutte le donne israeliane che sono state brutalmente violentate, abusate, bruciate, decapitate e uccise il 7 ottobre in Israele”.
Eppure, fuori da Israele, permane una riluttanza nel denunciare le atrocità commesse da Hamas nei confronti delle donne. Questo silenzio caratterizza persino quelle attiviste dedite proprio alla difesa dei diritti delle donne, nonostante il gruppo terrorista abbia fornito prove sufficienti dei suoi crimini, pubblicando in tempo reale filmati delle giovani ferite, uccise e rapite.
“Ci si sarebbe aspettati una ferma condanna da parte dei gruppi femministi occidentali, commenta Nicole Lampert, firma di Haaretz, mettendo in luce anche la condizione delle donne palestinesi a Gaza ben prima del 7 ottobre, quando i diritti umani delle donne palestinesi venivano regolarmente calpestati: dall’imposizione dell’hijab, al divieto di viaggiare senza un tutore maschio, agli abusi fisici e sessuali commessi all’interno delle stesse famiglie.”
Invece, la maggior parte di questi gruppi ha taciuto. 140 eminenti studiose americane hanno firmato una petizione per il “cessate il fuoco” dichiarando che essere solidali alle donne israeliane significa cedere al “femminismo coloniale”.
Quando la giornalista anglo-americana Hadley Freeman ha sottolineato in The Jewish Chronicle questo “paradosso femminista”, il gruppo inglese Sisters Uncut ha risposto sostenendo che le denunce di attacchi sessuali da parte di Hamas costituivano un’“arma islamofobica e razzista”.
Altri noti gruppi femministi sono caduti in un simile tranello di colpevolizzazione delle vittime. Women for Women UK, organizzazione apartitica specializzata nell’aiutare sopravvissute di guerra ha scelto di raccogliere fondi solo per le vittime palestinesi.
Come osservato da Lampert, nel Regno Unito l’unica ONG a denunciare la violenza sessuale del gruppo terrorista è stata Jewish Women’s Aid, sottolineando come “il silenzio pubblico di molte organizzazioni ha un ulteriore impatto sull’isolamento e sulla paura delle vittime israeliane”.
Per coloro, infatti, le cui figlie, madri, nonne, sono state rapite o uccise, questa sensazione di tradimento è un dramma nel dramma: “Istituzioni come la Croce Rossa Internazionale e UN Women non hanno fatto nulla per supportare le nostre vittime” ha dichiarato nella campagna Instagram Keren Sharf Shem, la cui figlia Mia, 21 anni, è stata rapita durante il Nova Music Festival. Le madri degli ostaggi hanno lanciato anche la campagna #MomToo, in cui si possono ascoltare le voci di donne i cui figli sono stati rapiti o uccisi da Hamas, con lo scopo di sensibilizzare altre madri, per creare consapevolezza su scala globale.
Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.
Grazie! Condivido tutto quello che lei scrive e vedo/leggo/ascolto che l’orrore del 7 ottobre viene usato per produrre altri e profondi orrori come la reazione “ad excludendum” delle violenze sulle donne ebree e israeliane violentate dai terroristi di Hamas. E ogni giorno cresce il dolore per quello che è successo e per l’aberrazione di troppe posizioni nel mondo cosiddetto “democratico”. Coraggio, continuiamo a combattere, facciamoci sentire e denunciamo ogni atto, parola o silenzio che giustifichi la violenza contro le donne.