Hebraica Nizozot/Scintille
Perché, ebraicamente, Christianity matters

Il necessario dialogo tra ebraismo e cristianesimo, due forze per il tiqqun olam

Il rapporto ebraismo-cristianesimo è tema delicato. Nel mondo ebraico c’è chi si autocensura pensando che occuparsi della religione cristiana non sia tov le-yehudim (non fraccia bene agli ebrei); c’è chi ritiene che l’unico registro ammesso, in questo genere di rapporti, sia la diplomazia, crede cioè che le relazioni dovrebbero limitarsi al piano istituzionale e solo per favorire gli ‘interessi della tribù’; ma ci sono alcuni che credono importante incontrarsi e dialogare con il mondo cristiano, collaborare per il tiqqun ‘olam inteso come avanzamento morale della società (vincere la povertà, difendere l’ambiente, combattare il razzismo…) e persino condividere un comune patrimonio spirituale, dato che i cristiani riconoscono il Tanakh – la Bibbia ebraica – come parte delle loro Scritture sacre, che leggono ogni domenica, sebbene lo leggano in modo selettivo e lo chiamino con il problematico nome di Antico Testamento. Problematico perché, essendoci anche un Nuovo Testamento, resta sempre aperta la possibilità che il Nuovo sia creduto superiore all’Antico che come tale deve cedere il posto a un grado superiore di rivelazione. Siamo già, a questo livello, nel cuore del problema. Agli estremi dello spettro vanno posti, su un lato, coloro che ritengono e dichiarano apertamente che il cristianesimo è una forma di idolatria, che va contro i Dieci Comandamenti e la prima delle Leggi noachidi (è la tesi del rabbino riformato e filosofo Steven Schwarzschild, che riprende l’opinione dello stesso Maimonide), e sull’altro lato coloro, diffusi soprattutto negli Usa, che minimizzano le differenze teologiche e abbracciano la fede nell’ebreo Gesù come un’opzione conciliabile con l’identità ebraica, a dispetto dell’halakhà (sto pensando ai Jews for Jesus). In tale spettro dalle molteplici e sfumatissime posizioni intermedie, resta un fatto che l’esistenza del cristianesimo, dal punto di vista ebraico, non può essere ignorata.

Diverse sono le ragioni che spingono gli ebrei a essere non solo cauti ma spesso critici verso il mondo cristiano, o meglio verso le chiese, come istituzioni, e verso le loro dottrine. Si può infatti aver a che fare, nel business come nella vita quotidiana, con i non ebrei (i goyim) senza per questo pensare di aver a che fare con esponenti della religione cristiana. Ma quando li si incontra per ‘dialogare’, quei goyim sono, sapendo di esserlo, i rappresentanti di una fede religiosa nata in competizione con quella ebraica e spesso parlano e agiscono in nome di quella fede. La storia dei difficili, anzi dolorosi rapporti tra le due comunità di fede è forse la ragione principale che spinge il mondo ebraico alla cautela, soprattutto sul piano istituzionale, e alla critica verso una prassi dialogica che troppo facilmente ‘passa sopra’, dimentica o dichiara irrilevante la memoria storica. L’insegnamento cristiano del disprezzo verso ebrei ed ebraismo – l’espressione è dello storico francese Jules Isaac (1877-1963) – ha alimentato secoli di accuse perniciose (tipo: ‘ebrei deicidi’), di gravi pregiudizi religioso-sociali (dall’usura all’omicidi rituali), di discriminazioni e persecuzioni che hanno lastricato la strada a quell’antisemitismo moderno che, grazie ad astute propagande e nuove tecnologie, ha portato direttamente alla Shoah.
Il processo di ripensamento dell’insegnamento del disprezzo e la sostanziale revisione dei pregiudizi cristiani verso ebrei ed ebraismo nei catechismi come nelle omelie – revisione alla quale viene dato il nome di teshuvà cristiana – non possono cancellare dalla memoria ebraica secoli di ingiuste sofferenze. Tale memoria continua, e continuerà ancora a pesare, anche negli incontri più amicali e sinceri tra ebrei, di qualunque affiliazione e di diversa osservanza, e cristiani, di qualunque confessione (cattolici, valdesi, anglicani, ortodossi…). Lo straordinario cammino fatto dalla chiesa cattolica negli ultimi sessant’anni – a partire dallo storico incontro proprio nel giugno 1960 tra Jules Isaac e papa Giovanni XXIII – non può cancellare quasi diciannove secoli di confrontation ossia di conflitto teologico e politico, dettato dalla volontà di delegittimare religiosamente l’esistenza stessa del giudaismo. L’esistenza non solo degli ebrei ma proprio del giudaismo in quanto tale. Sospetti e critiche, cautele e dubbi in materia di dialogo interreligioso, per parte ebraica, hanno dunque nella storia ampi e validi motivi ‘oggettivi’ di sussistere, a prescindere dalle buone intenzioni ‘soggettive’ degli interlocutori cristiani.
Ma il dialogo ebraico-cristiano contemporaneo, nondimeno, è un altro fatto innovativo e storicamente rilevante. Esso è sorto, sulle ceneri della Shoah, dalla volontà di fare teshuvà da parte delle chiese cristiane dopo la seconda guerra mondiale e ha visto come protagonisti molti ebrei: uomini e donne, osservanti o meno, rabbini e pensatori uniti nella convinzione che quel dialogo fosse un mezzo adeguato non tanto per lenire le ferite della storia, quanto per sradicare le premesse ideologiche che quelle ferite avevano causato. E’ stata questa, ad esempio, la convinzione che sin dagli anni Sessanta ha spinto il rabbino modern-orthodox Irving Itzchaq Greenberg (classe 1933, allievo di rav Joseph Soloveitchik ossia colui che nel ’64 mise in guardia l’ortodossia da tali dialoghi di natura religiosa) a partecipare negli States a incontri tra esponenti del mondo ebraico e rappresentanti delle chiese cristiane: a suo giudizio, era ed è importante sostenere e stimolare i teologi cristiani a ripensare il loro rapporto con gli ebrei e Israele proprio perché un cattivo pensiero cristiano – ossia l’antigiudaismo religioso – non può che fare danni, prima o poi, al futuro sia degli ebrei sia dell’ebraismo.

Intervenendo da Gerusalemme pochi giorni fa, in un meeting telematico promosso dal Centro Card. Bea della Pontificia Università Gregoriana insieme alla teologa cattolica suor Mary Boys (per celebrare l’anniversario dell’incontro tra Isaac e il papa cui facevo mezione sopra), rav Greenberg ha ribadito la sua posizione: “La revisione della dottrina cristiana, avviata nel cattolicesimo con la dichiarazione conciliare Nostra Aetate [1965], ha un impatto sulla vita ebraica. Ma occorre anche tale revisione sia riconosciuta e apprezzata dallo stesso mondo ebraico, perché giudaismo e cristianesimo sono due religioni della redenziome, ossia, in termini ebraici, due forze per il tiqqun ‘olam. E’ giusto, allora, che gli ebrei vedano nei cristiani dei partner e non dei nemici in tale sforzo di redenzione, di tiqqun per migliorare il mondo in cui viviamo. Certo – ha ricordato Greenberg – non si tratta di annullare le specificità religiose o le differenze di approccio e di linguaggio; piuttosto una sana dialettica tra le due fedi è persino necessaria. Ma è ancor più necessario imparare a vivere gli uni accanto agli altri superando il senso di vittimismo o la paura di essere fagocitati”.
“E’ difficile confrontarsi con la storia che abbiamo alle spalle – ha risposto la teologa cattolica Mary Boys – ma questo confronto, nella forma di un’assunzione di responsabilità in vista del futuro, è ineluttabile”. Una prova di tale assunzione di responsabilità, che testimonia come la teshuvà cristiana a questo riguardo sia un processo continuo, è il volume (appena tradotto dall’inglese in italiano per i tipi delle Edizioni di Terra Santa, a Milano, pp.206) dal titolo Gesù non fu ucciso dagli ebrei. Le radici cristiane dell’antisemitismo, con introduzione del rabbino argentino Abraham Skorka e prefazione del gesuita Etienne Vetö, direttire del Centro Card. Bea di Roma. Si tratta di un’antologia divulgativa di saggi, scritti da teologi e teologhe cristiane (tra cui la setssa Mary Boys) che fanno giustizia di molti luoghi comuni e pulizia di una cattiva esegesi neo-testamentaria in chiave antiebraica. Sostenere, seppur da remoto, questo sforzo in corso nel cristianesimo è certamente tov le-yehudim.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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