Cultura
Perché la riforma della giustizia divide Israele

Il punto nevralgico è il “peso politico” della Corte Suprema. Che il governo Nethanyahu vorrebbe ridimensionare per aprire il varco ad altre trasformazioni di fondo

Una premessa, ossia quella per cui certuni, a qualsivoglia osservazione, rispondono ossessivamente con una frase fatta: «non hai diritto di giudicare, tu non sei qui». Come se la necessaria precondizione per formulare la propria opinione sia quella di condividere a priori una determinata condizione o situazione. Certo, l’esperienza e l’empiria sono molto importanti nella vita di ognuno di noi. Ma c’è poi un diritto alla comprensione, ossia all’analisi, che non si risolve solo nella vita materiale, richiamando semmai il bisogno continuo di supportare quest’ultima con l’astrazione. Che non consiste, come invece pensano gli ignavi, nel vivere sul pero della fantasia. Semmai, è la capacità di scendere da esso. Ci sono dei disagi di fondo «che non si riducono a formulette da effetti speciali, trascendendo persino le appartenenze pseudo-ideologiche che sono spesso contenitori vuoti di idee e di progettualità e colmi invece di slogan e promesse, [disagi] che non si spiegano con le poco convincenti formule mandate a memoria dagli affabulatori e mestieranti del momento: il pregio di chi vi cerca spiegazioni più convincenti, in fondo, è di immaginare il futuro, osservando il presente ma senza dimenticare il passato. Saperlo fare con il dono della sintesi offre opportunità di riflessioni postume perché in quel coagulo di pochi, illuminanti concetti, ci sono derive che a cascata spiegano il resto senza indulgere nella retorica di analisi che ci consegnano dubbi e interrogativi più che risposte» (Francesco Provinciali).

Israele è un paese diviso e polarizzato. Il rischio è che se la china intrapresa dovesse continuare, la tela pluralista che lo compone possa infine lacerarsi. Non solo tra arabi-israeliani ed ebrei ma anche – e soprattutto – dentro le diverse identità ebraiche che, come un mosaico, compongono la società. È un timore che non poche istituzioni nazionali, oltre ad una parte della società civile, stanno nutrendo in maniera sempre più esplicita e manifesta. Manifestandola, ognuno a modo proprio. Quello che da ciò emerge, in fondo, è che la storia è in cammino. Continuare ad interpretare lo Stato degli ebrei con le vecchie categorie, politiche e culturali, è francamente non solo frustrante ma anacronistico. Poiché, tra le altre cose, la divisione, e la conseguente polarizzazione, in atto, non è giocata sull’asse politico dell’opposizione tradizionale tra destra e sinistra. Semmai, è proprio lo spostamento definitivo di quest’ultimo verso la destra a segnare l’indirizzo e il senso del conflitto che è in corso: in contrapposizione alle «destre plurali» (nazionaliste, populiste, religiose, conservatrici come anche eversive), che si sono coalizzate intorno al premier Benjamin Netanyahu, non si colloca una sinistra più o meno compatta, oramai invece ridotta al lumicino, bensì un centro liberale e secolarizzato che comunque fatica enormemente a rappresentare quella parte della popolazione che si oppone a ciò che sta avvenendo, vivendola semmai come condizione che rischia di consegnare Israele al baratro.

Non è un fenomeno localizzato. Semmai si tratta di un processo in atto in diverse parti delle società a sviluppo avanzato. L’estrema evoluzione della destra populista, non solo in Israele, è oramai tale da riuscire a garantirsi non solo una fidelizzazione di parti crescenti dell’elettorato, ma da potere anche condizionare, quanto meno in prospettiva, le trasformazioni delle istituzioni e, con esse, la natura stessa della divisione dei poteri. Che dietro questo procedere, a Gerusalemme come in altre capitali del mondo, vi sia un disegno cesarista, sono i fatti stessi che si incaricano di dimostrarlo. Si tratta della contrapposizione tra poteri esecutivi, ossia governi sorretti da maggioranze elettive, con un leader carismatico e accentratore, e che come tali di fatto propendono a ridurre l’opposizione a mero dissenso, e il resto dei poteri pubblici, di cui intendono limitarne l’autonomia, sottoponendola al vaglio di quelle istanze politiche che hanno “il voto del popolo”. Al di là dei semplicismi di facciata, una tale procedura, che costituisce una netta torsione della democrazia rappresentativa, sacrifica l’intermediazione a favore di un’investitura diretta dei decisori, immedesimati nel “capo” che rappresenterebbe tutto (i tanti interessi che coersistono in una società) e tutti (le molte identità personali e di gruppo).

Per mitigare questa dinamica, filtrandola attraverso il ruolo e le funzioni della complessa intelaiatura del sistema istituzionale israeliano, è intervenuto il presidente dello Stato Isaac Herzog, con una proposta di compromesso rispetto alla riforma del ruolo della Corte suprema. Ciò facendo, in un’opera di estrema mediazione, ha chiesto alle parti in gioco di «non distruggere il Paese», cercando semmai di valorizzare «un momento costituzionale formativo». Poiché, afferma Herzog, in ciò sostenuto da una parte stessa dell’opinione pubblica, quel che si rischia sarebbe altrimenti una «guerra civile». Nei fatti, i leader dell’opposizione (Yair Lapid e Benny Gantz) hanno accettato la richiesta di Herzog. Com’era prevedibile, il maggiore protagonista di questa riforma, ovvero Benjamin Netanyahu, l’ha invece declinata, affermando che «gli elementi centrali della proposta del presidente Herzog perpetuano semplicemente la situazione esistente e non portano il necessario equilibrio tra i rami, questa è la sfortunata verità».

Una tale risposta era in sé prevedibile, posto che il premier si gioca su di essa una parte del suo destino politico. Peraltro, tra gli stessi originari sostenitori del progetto di riforma, che è in realtà un ridimensionamento delle prerogative del potere giudiziario, stanno montando perplessità e distinguo. Tra di essi, Assaf Sagiv, esponente del conservatorismo israeliano e dipinto, da più di un organo di stampa (in Italia, ad esempio, dal «Foglio») come una specie di guru della maggioranza che è uscita dalle urne nel passaggio elettorale del 25 settembre scorso. Il quale ha dichiarato: «[questo] è ciò che ci si può aspettare se la proposta di riforma sarà attuata: lo smantellamento delle istituzioni dello Stato, la spartizione del bottino tra i capi di partito che si contendono il potere e le risorse, la perdita della sicurezza pubblica, il saccheggio delle casse pubbliche e deterioramento nell’illegalità generale».

Non di meno, il Kohelet Policy Forum, think tank del neoconservatorismo nazionale, nato nel 2012 con tre obiettivi (identificare e rafforzare la vocazione d’Israele come Stato-nazione del popolo ebraico; ridefinire i tratti di una democrazia liberale, nonché rappresentativa, nella quale siano valorizzati gli aspetti relativi all’autonomia individuale; rafforzare i principi – e le prassi – del libero mercato), adesso manifesta perplessità e dubbi non nel merito del contenuto delle riforme ma dei modi, estremamente divisivi, con i quali queste si stanno evidenziando.
Il vero timore, alla base di tali considerazioni, è che possano ripetersi le dinamiche che, già negli anni Novanta, accompagnarono gli accordi di Oslo con i palestinesi. Voluti da Yitzhak Rabin e Shimon Peres, rivelarono la loro fragilità, tra il 1993 e gli anni successivi, non solo per la debolezza dell’interlocutore palestinese, bensì per il verticismo e la sostanziale incapacità di innervarsi in un processo di identificazione nazionale nella collettività israeliana. In altre parole, trovarono uno spazio per buona parte vuoto, precipitando quindi nello scetticismo dei tanti, senza ottenere quel consenso in mancanza del quale molto, in politica, diventa non possibile. In Israele, ciò che intende mutare gli assetti costituiti, se non è puntellato da solide garanzie, rischia di tradursi quasi sempre in una sorta di boomerang.

Detto ciò, un aspetto che connota l’attuale maggioranza di governo, essendono una sorta di tessuto connettivo, è proprio il rifiuto condiviso delle sentenze della Corte suprema. Quindi, del suo ruolo inteso come “politico”, ossia capace non solo di invalidare le leggi varate dal parlamento israeliano ma di indirizzare, in una sorta di ruolo di concorrenza con l’esecutivo, gli umori, le aspettative e i sentimenti della collettività, di fatto costituendosi come una sorta di contropotere. Ad una tale considerazione, peraltro, se ne accompagnano molte altre, un po’ tutte raccolte sotto la cornice della necessità di rafforzare la “natura ebraica” dello Stato d’Israele, anche a rischio di torcerne la qualità di democrazia. Che, semmai, dovrebbe accentuare i suoi caratteri etnici, ossia esclusivi, anche a scapito della natura di moderno Stato basato sul patto di cittadinanza giurica e non di “sangue”.

In questo quadro dilemmatico, che inanella molte questioni, si inserisce infatti la controversa riforma della magistratura, ed in particolare della Corte suprema, che è peraltro solo uno degli oggetti del contendere in atto. Non a caso, in prima linea, oltre al premier, ci sono il ministro della Giustizia, nonché vice-primo ministro, Yariv Levin (del Likud) e il presidente della commissione Costituzione, diritto e giustizia della Knesset Simcha Rothman (del Tkuma, il Partito sionista religioso). Ancora una volta è bene ricordare che l’obiettivo non è solo quello di vincolare l’intervento della magistratura sul processo legislativo (come anche sull’ordine pubblico) ma anche di condizionarne la composizione, e quindi le scelte a venire, enfatizzando la primazia della politica. In tal senso, quindi, vanno i tentativi di assegnare al governo il sostanziale controllo sulle nomine dei giudici e la limitazione dell’autorità e della legittimità delle consulenze legali nella formazione del procedimento normativo. A ciò si accompagnerebbe il potere, per parte della Knesset, di annullare gli effetti delle sentenze della Corte suprema quando esse dovessero risultare avverse ai contenuti di quelle leggi giudicate da quest’ultima lesive, in parte oppure integralmente, dei diritti tutelati dal sistema costituzionalistico delle Basic Laws. Con una nuova votazione a maggioranza, da parte del parlamento, quindi in seconda istanza, esso si doterebbe del potere di reintrodurre definitivamente, ovvero in maniera inoppugnabile, la legislazione censurata e sanzionata dall’Alta magistratura. In ciò potendo derogare dai limiti stessi delle norme di principio contenute nelle quattordici leggi fondamentali.

In base all’attuale quadro giuridico israeliano – infatti – tutta la legislazione approvata dalla Knesset, così come le disposizioni del governo e le azioni amministrative degli organi statali, possono essere soggetti a revisione da parte della Corte suprema di Israele, che ha il potere di annullare la legislazione e revocare le decisioni esecutive giudicate in contrasto con i principi fondamentali del diritto israeliano. In altre parole, il sindacato di giudizio della Corte si spinge – nei fatti – a definire in che cosa consistano questi ultimi. Un tale ruolo, in Israele, è stato interpretato fino ad oggi come indispensabile soprattutto alla luce dell’altrimenti debole sistema di controlli ed equilibri, mancando una Costituzione scritta, un parlamento bicamerale, un presidente con poteri esecutivi, il ricorso ad elezioni regionali, l’appartenenza ad una qualche organizzazione sovragovernativa al pari dell’accettazione dell’autorità della Corte internazionale di giustizia, così come la decentralizzazione territoriale di alcune funzioni attribuite centralisticamente al governo. Elementi che, invece, sono presenti in tutto o in parte in altre democrazie.

Se tali condizioni originarie potevano essere ancora accettabili in una società composta da un numero relativamente limitato di individui, oggi, a fronte degli oltre nove milioni di israeliani, non funzionano più. Lasciando però scoperte parti crescenti della collettività nazionale, prive di tutele e rappresentanze appropriate. Più in generale, in Israele, c’è un problema di check and balance che il fronte populista si è incaricato di risolvere con una brusca virata, adoperandosi contro il pluralismo e proponendo il discorso seduttivo della “semplificazione” e del “riequilibrio tra poteri”, a favore di un regime che potrebbe rivelarsi intrinsecamente autocratico.

Anche per evitare il rischio di una tale deriva – quindi – alla Corte suprema sono stati conferiti, già a suo tempo, poteri di sindacato e di tutela dei diritti umani. Per queste stesse ragioni, l’azione delle magistrature supreme è stata invece aspramente criticata da quei settori del mondo politico, perlopiù collocati a destra, che osservano e manifestano con aperto disagio quelle sentenze che, tra le altre cose, limitano l’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, intervengono nell’autonomia così come in aspetti dello stile di vita degli ultraortodossi, si esprimono a favore dei diritti civili. In altre parole, la destra ha ripetutamente accusato la Corte di impegnarsi in un attivismo giudiziario a favore di cause giudicate di «sinistra».

Tra il 1992 e il 1999 Aharon Barak, giudice e poi presidente della Corte suprema, ha sviluppato in una serie di sentenze una specifica dottrina, a tutt’oggi ampliamente applicata, il cui principio guida è l’introduzione, la valorizzazione e la tutela dei principi legati ai diritti umani anche nel diritto privato. Ciò viene realizzato con il ricorso attivo a concetti come «buona fede», «ordine pubblico» o «violazione del dovere legale», che i giudici sono chiamati ad applicare con le loro sentenze. I fautori della riforma giudiziaria affermano che il problema è che i concetti dipendono dal giudice che li interpreta, con una conseguente incertezza del diritto. In altre parole, la discrezionalità del magistrato avrebbe la meglio sulle norme stabilite dai legislatori. Dietro ad una tale formulazione, tuttavia, ci sono diversi elementi problematici. Il primo di essi è che qualsiasi magistrato, chiamato ad applicare nel caso concreto le leggi – ovvero il loro contenuto normativo e, con esso, i principi di fondo che contengono – non è mai un mero esecutore ma, piuttosto, un interprete di esse; il secondo aspetto è che ogni magistrato, non essendo un robot, deve semmai agire e decidere secondo coscienza; ciò facendo, non assolve ad un mandato politico, ancora meno ad un atto di sudditanza verso i poteri “eletti dal popolo”, bensì in base alla sua autonomia discrezionale (che non è segno di onniscienza, e ancor meno di onnipotenza, bensì di indipendenza); un terzo fattore, in sé fondamentale, è che una democrazia non sussiste mai per via di una sorta di monolitismo di giudizio, che invece è proprio dei regimi totalitari, alimentandosi semmai della coesistenza di opinioni, atteggiamenti e concrete posizioni tra di loro in coesistenza conflittuale.

Per il ministro Yair Levin la riforma in discussione al parlamento costituirebbe, inoltre, solo il primo passo per attenuare ciò che descrive come un’invasione di campo della magistratura, invocando un diverso equilibrio tra legislatori elettivi (i parlamentari) e magistrature di nomina e incarico concorsuale. Se per l’attuale maggioranza si tratterebbe di porre paletti e vincoli all’ingerenza dei poteri giudiziari, per l’opposizione, invece, il quadro di riferimento è ben altro, trattandosi di un percorso che avrebbe ad oggetto una vera e propria deformazione dell’intricato sistema di pesi e contrappesi che sta alla base della divisione dei poteri in Israele. In quest’ultimo senso, sia pure con toni diversi, alcuni più accorati e accalorati, altri più pacati – ma non per questo meno preoccupati – si sono espressi lo stesso presidente Herzog, quello della Corte suprema, il procuratore generale dello Stato così come altre cariche pubbliche.

In sostanza, le diverse voci hanno accreditato l’illegittimità della riforma in esame alla Knesset, denunciandone i tratti potenzialmente eversivi dell’ordinamento istituzionale. Le proteste di piazza ne sono derivate da subito, avvalorate anche da diversi pronunciamenti negativi provenienti dalla comunità internazionale. La frizione tra il capo sello Stato e il governo si è manifestata nel momento stesso in cui Herzog, il 12 febbraio, ha chiesto di bloccare la discussione sulla riforma giudiziaria, chiedendo di avviare un tavolo di discussione con l’opposizione. L’esecutivo ha respinto questo invito proseguendo, con calcolata speditezza, nell’approvazione in prima lettura dei disegni di legge. Non è peraltro un caso che contestualmente al progetto di riforma che limita i poteri della magistratura, vi sia l’intenzione di ampliare l’autorità dei tribunali rabbinici, consentendo loro di agire come arbitri in materia civile utilizzando la legge religiosa, se entrambe le parti acconsentono.

Rimane il fatto che se la riforma dovesse passare, come quasi certamente avverrà, si produrranno molteplici effetti: sul piano della selezione dei magistrati, il comitato misto incaricato in tale ruolo vedrà la prevalenza dei rappresentanti della maggioranza elettiva; sul versante del controllo giurisdizionale sulla legislazione, ne deriverà un tangibile ridimensionamento; alla Knesset sarà attribuito il potere ultimativo di giudicare della legittimità delle sue stesse deliberazioni (con l’obbligo del voto a maggioranza qualificata di 61 assensi effettivi su 120 membri), neutralizzando di fatto quello ancora esistente per parte delle magistrature; i consulenti legali dell’esecutivo, che costituiscono autorità indipendenti, vincolate al ministero della Giustizia solo su un piano tecnico, diventeranno collaboratori ad indirizzo politico, i cui pareri non saranno comunque determinanti o impegnativi per l’azione dei singoli dicasteri (con una prevedibile accentuazione dello spoil system nelle nomine; attualmente i consulenti legali di ciascun ministero ricadono sotto l’egida del procuratore generale, per preservarne l’indipendenza dall’influenza politica; i loro consigli sono vincolanti per i ministeri); il ricorso al principio di «ragionevolezza», che è uno dei presupposti dell’azione dei tribunali di contro le decisioni legislative, esecutive e soprattutto amministrative, verrà ridimensionato; il sistema del «consenso», quello per cui i politici, quando debbono concorrere a decisioni che riguardano la nomina di nuovi giudici, sono costretti a trovare un accordo con i magistrati, sarà di fatto neutralizzato.

Rispetto a quest’ultimo passaggio, non pochi esponenti dell’attuale maggioranza, tra cui gli stessi Netanyahu e Levin, hanno ripetutamente dichiarato ai loro elettori che una tale procedura sarebbe viziata dall’essere unilaterale, ossia acquiescente agli interessi della «sinistra»: quando è in carica un governo di destra, i suoi membri devono infatti scendere a compromessi con la presunta tendenza progressista dei componenti del comitato misto di selezione (i tre giudici della Corte Suprema e gli avvocati che, ha sostenuto Levin, votano in blocco, accordandosi preventivamente tra di lro), mentre quando è in carica un governo di sinistra, presumibilmente non è necessaria tale convergenza. Gli stessi esponenti della destra indicano come riscontro di ciò la recente nomina, quando era ancora in carica il precedente governo, di sessantuno giudici in un’unica seduta del comitato, senza che l’opposizione abbia avuto modo effettivo di contrapporsi.

Parrebbero schermaglie di superficie. Così, tuttavia, non è. Lo testimonia, al medesimo tempo, la mobilitazione permanente nelle piazze d’Israele, la polarizzazione dell’opinione pubblica nazionale come anche gli interventi, sempre più ripetuti, di autorità e istituzioni. Che, oramai, quasi non si contano più nella loro numerosità. Poiché si sa bene che il ridimensionamento del ruolo della Corte suprema, in un regime istituzionale qual è quello israeliano, aprirebbe il varco ad altre trasformazioni di fondo, destinate a mutare la natura stessa del Paese. Conta, tanto più in questo caso, la mancanza di una Costituzione, Anche per questa ragione, dinanzi al fantasma di un appassimento della democrazia partecipativa e pluralista, sostituibile da un potenziale autocrazia elettiva (sì, in politica i paradossi esistono!), fa riflettere la solitudine con la quale i travagli di un’intera collettività, quella israeliana, sono accolti dalla Diaspora, molto spesso assente, o mitigata, nelle sue reazioni, dal bisogno di confortarsi con cliché e stereotipi rassicuranti nonché anacronistici che, poco o nulla, ci restituiscono del significato del conflitto in corso. Dentro Israele così come, per molti aspetti, in molti altri paesi a sviluppo avanzato, che stanno conoscendo, a modo loro, pari trasformazioni e torsioni. Come recita il vecchio motto popolare, “chi vivrà, vedrà”. Ma il tempo non è mai neutrale. Il rischio è di osservare qualcosa in atto quando sia già troppo tardi per emendarlo.

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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