Da anni porta avanti un lavoro di testimonianza nelle scuole del territorio e ha raccolto le sue esperienze di ex bambino sopravvissuto in un libro
Nei giorni scorsi, in concomitanza con la Giornata della Memoria, è scoppiato su alcuni quotidiani (Il Gazzettino, Il Corriere del Veneto ecc.) lo scandalo del falso testimone della Shoah Samuel Gaetano Artale von Belskoj-Levi, che da quindici anni prende parte ad incontri nelle scuole, raccontando le sue drammatiche esperienze di sopravvissuto al campo di concentramento di Auschwitz, dove sarebbe stato deportato da Rostock nel 1944 e all’interno del quale avrebbe lavorato addirittura nel Sonderkommando, vale a dire in quel gruppo di internati che estraeva i deportati uccisi dalle camere a gas per bruciarli poi nei forni crematori.
Lo scandalo è scoppiato, evidentemente, solo perché è stata coinvolta indirettamente nell’ennesima conferenza di Artale anche la Senatrice Liliana Segre, ma in realtà l’inattendibilità della testimonianza di Artale – che
egli ha messo anche per iscritto in un libro intitolato LaChaim. “Ama la vita”, pubblicato dall’Associazione culturale TraccePerLaMeta e dall’editore GMC nel gennaio 2019 – era conosciuta da tempo. Già il 22 febbraio dello stesso anno, lo storico e Direttore della Fondazione CDEC di Milano, Gadi Luzzatto Voghera, aveva evidenziato, in un articolo comparso su Moked, diverse incongruenze presenti nella pubblicazione, sottolineando in particolare come l’ultima deportazione di ebrei da Rostock non fosse avvenuta nel 1944, bensì nel 1942, e come nell’ordine di deportazione non figurasse comunque il nome della famiglia Belskoj-Levi.
Se i fatti indagati dagli storici e messi in evidenza dai giornali corrispondo al vero, come appare assai probabile, diventa necessario interrogarsi almeno su due questioni: 1) su cosa possa aver spinto un ingegnere, fondatore della società di consulenza edile Artale-Group, a inventarsi un passato da sopravvissuto ai campi di concentramento; 2) su come sia possibile che nessuno, nei quindici anni di testimonianze pubbliche del signor Artale, abbia mai dubitato dell’autenticità dei suoi racconti.
Per rispondere alla prima domanda è possibile rifarsi alla cosiddetta “sindrome Wilkomirski”, in cui un disturbo psichico chiamato “pseudologia fantastica” si unisce al “desiderio di essere vittima” e quindi alla variante di tale bisogno costituita dal “desiderio di essere ebreo”. Il nome di questa “sindrome” deriva da un altro scandalo simile a quello di cui stiamo parlando, anche se di portata internazionale molto maggiore, avvenuto in Germania circa 25 anni fa. Nel 1998 un giornalista smascherò infatti come frutto di pura finzione il libro di Binjamin Wilkomirski Bruchstücke, pubblicato tre anni prima con grandissimo successo internazionale – venne subito tradotto in 14 lingue, tra l’altro anche in italiano da Mondadori con il titolo Frantumi –, in cui venivano narrate le vicende di un bambino che all’età di tre anni era stato deportato da Riga nei campi di concentramento di Majdanek e quindi ad Auschwitz, per poi venir adottato da una famiglia svizzera.
Leggi anche: Il testimone e lo storico. Un incontro necessario per fare memoria
Considerate le traumatiche esperienze di abbandono e i ripetuti fallimenti di adozione vissuti durante l’infanzia dall’autore, che in realtà era un cittadino svizzero di nome Bruno Dössekker, i “ricordi” inventati dei campi di concentramento vennero interpretati da molti critici come “ricordi di copertura”, attraverso i quali l’autore, per quanto paradossale possa sembrare, aveva cercato di attribuire un senso ai propri traumi rimossi, coprendoli per così dire con le vicende storiche più traumatiche del ventesimo secolo, vale a dire con le vicende della persecuzione e dello sterminio degli ebrei.
Una spiegazione simile si potrebbe forse applicare anche al caso Artale: se si vuole credere almeno a una parte dei suoi racconti autobiografici, vale a dire al fatto che egli abbia trascorso tutta la sua giovinezza, fino ai 18 anni, in un orfanotrofio di Miami, si potrebbe forse ipotizzare che attraverso l’invenzione della sua vita a Rostock e dell’esperienza ad Auschwitz egli abbia voluto trovare una spiegazione per il fatto di essere stato abbandonato. Se, come nel caso di Wilkomirski, anche in questo caso i “ricordi del lager” fossero in realtà “ricordi di copertura”, si potrebbe quindi addirittura credere alla buona fede di Artale.
Alla spiegazione psicologica del “caso Wilkomirski” è necessario aggiungere tuttavia anche altri elementi culturali, che servono a spiegare l’origine e almeno in parte anche il successo di una simile falsa testimonianza. Il testimone della Shoah ha conosciuto infatti, secondo la studiosa francese Annette Wieviorka (L’era del testimone), a partire dal Processo Eichmann (1961) una progressiva rivalutazione, che ha portato anzi alla sua “sacralizzazione” soprattutto nel contesto delle nuove possibilità mediatiche di raccolta e registrazione delle testimonianze. Da questa assolutizzazione del testimone, che è diventato il solo detentore della verità storica dei fatti, è derivato quindi quel fenomeno che Javier Cercas, autore di un romanzo “documentario” su un’altra falsa testimonianza relativa all’imprigionamento in un campo di concentramento di un sindacalista spagnolo (L’impostore), ha chiamato “il ricatto del testimone”. La nuova aura e addirittura il
prestigio che caratterizzano il testimone della Shoah nell’“era del testimone”, uniti alla quasi certezza che nessuno oserebbe mai mettere in discussione il contenuto di una testimonianza così traumatica, sono indubbiamente all’origine dell’apparizione di numerosi falsi testimoni della Shoah.
Per riconoscere il carattere inautentico e costruito della testimonianza di Wilkomirski sarebbe stato sufficiente analizzare con attenzione la costruzione retorica di Frantumi, mirante a coinvolgere
emotivamente il lettore e a sollecitarlo a rinunciare a qualsiasi critica razionale. Già l’utilizzo di tutti i topoi della letteratura concentrazionaria, assieme all’impiego di quella che può essere definita senz’altro “pornografia della Shoah”, avrebbe dovuto rivelare il kitsch della rappresentazione, smascherandone quindi la falsità estetica e di contenuto. Ma il “ricatto del testimone” (cfr. ora A. Costazza, Ladri di identità, Mimesis Edizioni) ha impedito naturalmente a lungo una simile analisi “stilistica” della testimonianza.
Leggi anche: Olocaustico, il primo romanzo di Alberto Caviglia
Qualcosa di simile sembra essere successo anche nel caso della testimonianza di Artale, perché moltissimi elementi del libro pubblicato avrebbero dovuto insospettire il lettore e prima ancora la casa editrice che lo ha pubblicato. Fin dalle primissime pagine si nota infatti come l’autore voglia mettere le mani avanti rispetto a possibili obiezioni dei lettori e soprattutto da parte degli storici. Rappresentandosi nel ruolo di vittima di “attentati e ritorsioni” (?), egli afferma – in un italiano spesso vacillante – che il racconto “potrebbe essere configurato ‘romanzo’” e sottolinea che “purtroppo non ci sono documenti che asseverano quanto ho vissuto”. Egli ribadisce quindi di non aver voluto attenersi ai risultati di ricerche storiche, quando dichiara, in maniera invero un po’ criptica: “Non ho inteso sottendere come necessari: / – l’aderenza alle diverse pubblicazioni; / – l’allineamento alle opinioni esistenti e conservatrici che acclamano sia l’utilizzo della terminologia nazionale nonché il sostegno e l’asseverazione a fatti storici descritti da molti intellettuali e politici.”
Al di là delle imprecisioni storiche evidenziate già da Luzzato Voghera, vi sono nel testo molti altri avvenimenti a dir poco irrealistici. Appare impossibile, ad esempio, che il ragazzino protagonista, durante un tentativo di furto abbia addirittura accoltellato una guardia, forse uccidendola, senza che ne sia seguita alcuna reazione o rappresaglia da parte delle SS. Risulta altresì incredibile che un bambino di sette anni abbia potuto far parte del Sonderkommando di Auschwitz. Ma proprio la narrazione della partecipazione al Sonderkommando dimostra d’altra parte chiaramente come l’io narrante non stia raccontando in questo caso un’esperienza vissuta in prima persona: egli riporta infatti sempre nozioni generali, fatti o particolari che dice esplicitamente di aver appreso da altri, ciò che “i grandi” avevano capito, quello che appariva “ai loro occhi”, ciò che “essi” dovevano fare, mentre solo alla fine del racconto accenna brevemente al suo compito specifico all’interno del comando. La stessa cosa vale anche per tutti gli altri racconti sul campo: il lettore non percepisce mai il riflesso di una vera esperienza vissuta, ma si sente ripetere, piuttosto, descrizioni di cose risapute, sentite e lette mille volte in altre memorie e testimonianze sui lager, ad esempio sulla “selezione”, sul tatuaggio del numero, sulle latrine, sulla fame ecc. Le uniche “esperienze soggettive” che vengono narrate nel libro sono dunque quella dell’accoltellamento della guardia e quella del compito svolto dal protagonista nel Sonderkommando, vale a dire esattamente le due vicende meno credibili.
Poiché le testimonianze sia scritte che orali di Artale sono piene di buone intenzioni e invitano ripetutamente il lettore a evitare l’odio verso il diverso, le si potrebbe ritenere innocue o magari addirittura utili ed educative. Ma è necessario fare molta attenzione, perché la scoperta della falsità di tali testimonianze finisce per fare il gioco dei negazionisti, che ne approfittano per mettere in discussione ogni testimonianza della Shoah. Per questo motivo, considerato anche l’aumento preoccupante di coloro che non credono alla realtà della Shoah, è oggi assolutamente necessario smascherare i falsari. E l’unico modo per farlo consiste proprio nel superare la “sacralizzazione del testimone”, non piegandosi al “ricatto del testimone” e sottoponendo quindi ogni testimonianza alla verifica approfondita dello storico.
Vedi anche: Sopravvivere coi lupi di Misha Defonseca (che Wikipedia segnala ancora come storia vera! Bisogna che la corregga) e il mitomane che denunciò di essere stato aggredito a Verona in quanto ebreo.
Analisi interessante su un caso devo dire clamoroso. Già solo vedendo la copertina del libro che ha scritto il falso testimone Artale si capisce che non ha dimestichezza con la lingua ebraica: il titolo è scritto al contrario. Possibile che nessuno abbia fatto mai domande durante i suoi incontri?