Hebraica
Se non sono io per me… filosofia di una massima dei Pirke’ Avot

Indagine sull’etica del sapere, tra individuo e collettività

Amata da molti, spesso citata, talvolta trasformata in motto, bandiera, programma d’intenti. E’ la più famosa delle massime raccolte nei Pirke’ Avot, l’agile testo che è uso rileggere ogni anno tra Pesach e Shavuot: “Se io non sono per me, chi è per me? Ma quando io sono per me stesso, che cosa sono io? E se non ora, quando?”.

Il detto, attribuito a Hillel il vecchio, per la propria duttilità e immediatezza viene spesso utilizzato come se fosse un proverbio, adatto a molte situazioni diverse. I bundisti e i sionisti l’hanno fatto proprio, considerandolo un appello all’azione. Primo Levi lo ha ripreso nel titolo ma anche nel contenuto del suo unico romanzo, Se non ora, quando?. Anche in questi giorni in cui cerchiamo una difficile ripartenza dopo due mesi di isolamento domestico e chiusura di tante attività, viene spesso citato come richiamo alla responsabilità. Le misure di contenimento del virus, inoltre, hanno inevitabilmente favorito la discussione sul rapporto tra responsabilità individuale e collettiva. Eppure, nonostante l’apparente chiarezza e semplicità di queste parole, nella tradizione ebraica sono numerose le interpretazioni che hanno cercato di scavare sotto le parole di Hillel e tra gli spazi che le separano. Vediamone alcune.

La lettura più diffusa fa della massima un invito a responsabilità e impegno individuale. In ebraico “essere per” si dice lihiot le, che significa “essere d’aiuto”, “sostenere” e anche “salvare”. La prima delle tre frasi che compongono il detto sembra quindi avvicinarsi al significato del comune adagio “aiutati che Dio – o il cielo, se preferite – ti aiuta”. Che cosa denota invece l’espressione “essere per me stesso” della seconda frase? Può indicare un soggetto isolato dagli altri, oppure senza aiuto altrui, o ancora indipendente o capace di valutare il proprio fine in autonomia e forse altre cose ancora. Infine, e siamo alla terza frase, “ora” indica qualsiasi momento del presente oppure un tempo preciso?

Maimonide, lettore di Aristotele e filosofo, spiega la massima alla luce di un’idea di ampia fiducia nelle capacità intellettuali dell’uomo. “Se io non sono per me” significa che ogni mio atto dipende dalla mia responsabilità. Poiché l’uomo dispone della libertà, ha le forze e il dovere di scegliere in autonomia la propria strada. “Se non ora, quando”, infine, indica la giovinezza, perché è in questo momento della vita che scegliamo le vie da percorrere nei decenni che seguiranno e, passato questo tempo, tornare indietro e cambiare direzione è molto difficile. La fiducia nella ragione, nelle capacità innate dell’uomo e nelle possibilità dell’educazione, punti fermi del modello di Maimonide, eserciteranno grande influenza su molti dei commentatori successivi. Tra coloro che seguono la lettura di Maimonide c’è Ovadià da Bertinoro, che però, a proposito della terza parte del detto, aggiunge una nuova interpretazione. “Ora” si riferisce non solo alla giovinezza, ma anche a questo mondo, cioè alla vita stessa. Quello che possiamo fare, dobbiamo farlo adesso, in questo mondo, perché dopo la morte non sarà più possibile.

Alcuni commentatori hanno messo in relazione la massima di Hillel con quella che nei Pirke’ Avot la precede, e che riguarda lo studio (della Torà). Questa dice: “Colui che non accresce il proprio sapere lo diminuisce, chi non studia merita la morte, chi si serve della corona (della Torà) perisce”. Secondo Yeshayahu Leibowitz il tema più importante dei Pirke’ Avot è lo studio della Torà come elemento centrale della vita, e in quest’ottica la relazione tra le due sentenze appare inevitabile. Se lo studio è obbligatorio – tanto da far meritare la morte a chi agisce diversamente – “se non ora, quando” sembra indicare ogni momento della vita, perché lo studio è un dovere in ogni momento. Rav Israel Lifshitz, vissuto nell’Ottocento, condivide questa spiegazione e aggiunge che “se non sono io per me” indica l’umiltà di pensiero, mentre l’aforisma precedente si sofferma sull’umiltà di comportamento. L’idea di fondo è quella del dominio su se stesso da parte dell’uomo e risente verosimilmente dell’influenza di Maimonide, che come abbiamo visto accentua le possibilità e le responsabilità dell’individuo. E’ interessante anche l’interpretazione di Lifshitz della seconda parte della massima, “quando io sono per me stesso, che cosa sono”. Occorre infatti distinguere tra azioni fini a se stesse e azioni fini ad altro – l’accento è qui spostato sull’intenzione – e chiedersi se quello che faccio lo faccio per me oppure per l’atto stesso.

Anche rav David Zvi Hoffmann, come Lifshitz, segue il modello di Maimonide. La sua spiegazione della seconda frase della massima di Hillel è però originale. Secondo Hoffmann “quando io sono per me stesso, che cosa sono” indica un impegno non solo verso se stessi, ma anche verso gli altri e riecheggia un altro detto dei Pirke’ Avot, attribuito a Yshmael: “A chi studia allo scopo di insegnare viene data la possibilità di studiare e insegnare”. Lo studio (della Torà), in altre parole, è non solo studiare, ma “studiare e insegnare”, è dunque essenzialmente un evento collettivo o almeno non solitario.

Un rabbino del Novecento, Chanokh Albeq, propone una spiegazione diversa da quelle fino a qui viste svolgendo la massima in questo modo: “Se io non faccio in modo di correggere le mie azioni, chi lo farà? E se pure lo faccio per me stesso, che cosa ottengo, visto che l’uomo non può raggiungere la perfezione attraverso alle proprie azioni?”. Anche compiendo il nostro dovere, insomma, non possiamo pretendere di raggiungere il fine. Questa lettura non è in contraddizione con un’altra massima, attribuita a rabbi Tarfon – “Non spetta a te portare a termine l’opera, ma non sei nemmeno libero di sottrarti a essa” – ma è evidente come rispetto a questa sposti vigorosamente l’accento. Per Albeq, infine, “se non ora, quando” indica ogni momento, che è unico e irripetibile.

C’è anche chi, come rav Seligman Baer, ritiene che la prima parte della sentenza significhi che se io non rispetterò una mitzvà (precetto) non ci sarà nessun altro a farlo per me, al mio posto. Nel Novecento alcuni commentatori hanno ripreso e allargato questa impostazione, leggendo per esempio “se non mi perfeziono, chi lo farà per me? E se lo farò per me solo, che cosa sono?”. Lo studio e il perfezionamento, insomma, sono doveri di fronte a cui nessuno può negarsi, ma come già sostenuto da Hoffmann lo studio è anche e innanzitutto divulgazione e condivisione, un percorso dunque non solitario ma comune.

Volendo cercare una sintesi, possiamo dire che i modelli fanno riferimento a due grandi aree. Da una parte l’idea che l’istinto domini l’uomo, che solo con l’aiuto divino può contenerlo e indirizzarlo. Dall’altra l’idea, di Maimonide e dei suoi lettori, che l’uomo con le proprie forze ha la possibilità di raggiungere, o almeno di avvicinare, la completezza. All’ottimismo di questa seconda concezione si contrappone il pessimismo della prima. Questione di accenti? Può darsi. Ma gli accenti, come insegna la disputa ideale tra Tarfon e Albeq, contano.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

2 Commenti:

  1. Grazie Giorgio, conoscevo le ‘ massime dei padri’, ma rileggerle e vederne aspetti critici è sempre molto importante.
    Ciascuno di noi nella propria mente e nel proprio cuore ha dei riferimenti, ma accostarsi e ascoltare i pensieri ed il sentire di altri aiuta sempre a vedere oltre ed attraverso. C’è una dimensione comunitaria dello studio e della conoscenza che vale perchè pone le anime una accanto all’altra per un necessario reciproco aiuto.
    Dagli Ulivi di Puglia un grazie di cuore


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