Hebraica
Il silenzio e la parola. Riflessione a partire dai Pirke’ Avot

Viaggio alla ricerca della saggezza

Presso molte comunità ebraiche, nelle cinque settimane che da Pesach portano a Shavuot, è tradizione leggere i Pirke’ Avot, le Massime dei padri. I Pirke’ Avot sono un trattato incluso nella Mishnà che comprende una serie di detti attribuiti ai maestri dei primi secoli dell’era volgare o anche di epoca precedente. In questo florilegio dal valore marcatamente etico alcune massime affrontano il tema della parola e del silenzio.

Shimon, forse figlio di rabban Gamliel, afferma di essere stato “cresciuto per tutta la vita trai sapienti, e non ho trovato per il corpo cosa migliore del silenzio” (1,17). Non la dottrina, prosegue Shimon, è ciò che più conta, bensì l’azione. Nei secoli questa massima ha suscitato lo stupore di alcuni tra cui Abrabanel, secondo cui è un errore pensare che il silenzio sia una virtù e un vantaggio per il corpo perché chi, se non Dio, ha creato la bocca per l’uomo? La parola, secondo Abrabanel, è inoltre strumento indispensabile all’uomo per il dialogo, le discussioni, lo scambio intellettuale. Shimon in ogni caso, come lo stesso Abrabanel riconosce, non dichiara che il silenzio è buono in sé, ma che è buono, anzi migliore di ogni altra cosa, per il corpo perché è l’azione, cioè la pratica delle mitzvot, ciò che più è importante. Del silenzio, quindi, viene riconosciuto un ruolo pur sempre strumentale.

In un altro passo dei Pirke’ Avot rabbi Akivà, tra i maestri più importanti della Mishnà, dice che “il silenzio costituisce una siepe per la saggezza” (3,17). Il silenzio, in altre parole, ha la funzione di proteggere quello che davvero conta dalle tante parole che porterebbero confusione. Anche la parola, certo, è uno strumento dato all’uomo, si tratta però di un’arma potente e pericolosa di cui è opportuno limitare l’uso. Le capacità distruttive della parola sono superiori alle sue potenzialità creative, sembra sostenere Akivà, che non afferma che il silenzio sia l’atteggiamento migliore per l’uomo in assoluto, ma che serva a mettere al riparo la saggezza. Akivà, come Shimon, non dice che il silenzio è un valore, ma che è un utile strumento.

L’idea che la parola sia arma dal grande potere non è esclusiva della tradizione ebraica. Mezzo millennio prima della composizione della Mishnà, nell’Atene del secolo V a.C., sono i sofisti a studiare limiti e possibilità della parola, descritta da Gorgia al pari di “un gran dominatore che, con un corpo piccolissimo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti a calmare la paura, a eliminare il dolore e a suscitar la gioia e a ispirare la pietà […] C’è tra la potenza della parola e l’ufficio dell’anima lo stesso rapporto che c’è tra l’ufficio dei farmaci e la natura del corpo”. I sofisti non solo si specializzano nell’arte della parola, ma di questa diventano veri professionisti, disposti a insegnare dietro compenso le tecniche migliori per commuovere, coinvolgere, convincere. Platone rimprovera ai sofisti la trasformazione dell’uso della parola in arte retorica e la spettacolarizzazione della politica, le cui arene, dalle assemblee ai tribunali, sono dominate da chi sa padroneggiare meglio il potente strumento.

Ma torniamo da Atene a Gerusalemme. La liturgia ebraica evidenzia i pericoli dell’uso della parola in numerose occasioni, per esempio chiedendo a Dio di “preservare la mia lingua dal male e le mie labbra da parole che ingannano”. Yeshayahu Leibowitz in un volume di Lezioni sulle “Massime dei Padri” e su Maimonide (Giuntina) sottolinea che “nella grande confessione che costituisce la parte principale della liturgia di Yom Kippur viene dato spazio notevole, quasi sproporzionato, ai peccati veniali o meno commessi dall’uomo con la propria bocca” rispetto a quelli relativi a altri organi del corpo.

Gli ammonimenti dei Pirke’ Avot che invitano a limitare il parlare non fanno del silenzio un modello assoluto, ma per suo tramite tracciano un confine all’uso della parola. Di questo atteggiamento è emblematico il commento di Maimonide, secondo cui più parole si impiegano, più cresce il rischio di pronunciarne di fuori posto. Riprendendo un passo dei Proverbi (10,19), per il quale “quando le parole si moltiplicano, l’errore non ha più interruzioni”, Maimonide considera il silenzio un segno di saggezza, il molto parlare invece di stupidità. Il filosofo spagnolo propone una classificazione dei discorsi, che vengono divisi in cinque categorie. Ci sono innanzitutto i discorsi che costituiscono un precetto, come quelli che riguardano la Torà e il suo commento. Ci sono poi i discorsi da evitare in ogni caso, come false testimonianze, polemiche futili e sgradevoli pettegolezzi. Il terzo gruppo comprende i discorsi non vietati, come quelli del secondo gruppo, ma riprovevoli perché non portano beneficio di alcun genere, come le previsioni del futuro. Seguono i discorsi non prescritti, come quelli del primo gruppo, e tuttavia degni di lode perché sviluppano le capacità intellettuali e le virtù etiche. Le parole sulle scienze e sulla morale, in particolare, sono quelle che rappresentano il beneficio maggiore. Il quinto gruppo, il più vasto di tutti, è quello delle parole permesse ma vane. Comprende i discorsi che, nella quotidianità, circondano la vita degli uomini: il prezzo degli alimenti, il lavoro, abiti e cibi eccetera. E’ qui, nel regno sconfinato della chiacchiera, che lo stupido abbonda in parole, mentre il saggio le limita. Maimonide considera naturale all’uomo questo ordine di discorsi, che non è infatti vietato, ma invita a valutarlo nella sua capacità di portare beneficio, che è nulla.

La conversazione inutile è dunque per Maimonide quella della maggior parte degli uomini, lo spazio in cui, come sosterrà Martin Heidegger molti secoli più tardi in Essere e tempo, innanzitutto e perlopiù ci troviamo. Sui temi del silenzio e della parola riflette anche Amos Oz nel suo ultimo romanzo, Giuda (Feltrinelli). Oz mette a confronto il giovane esuberante e impacciato Shemuel, che investe gli interlocutori con lunghi discorsi pieni di ideali, e la taciturna e misteriosa Atalia, che preferisce il silenzio e l’ascolto delle voci della notte. Dopo la seconda uscita insieme, Atalia ringrazia Shemuel per la serata, aggiungendo che “si sta bene con te ogni tanto, soprattutto se non parli”. Forse il narratore israeliano, nel mettere in scena il dialogo, a volte pieno di parole a volte di silenzio, tra due personaggi opposti, vuole suggerire una terza possibilità mediana, quella cioè del compromesso e dell’incontro. E questo vale anche quando le parole, come quelle di Shemuel, perlopiù non ricadono nel novero di quelle che Maimonide classifica come vane. Lo stesso Maimonide, d’altra parte, suggerisce perfino per quanto riguarda i discorsi di Torà (il primo gruppo) l’utilizzo di poche parole, e riferite a molte questioni. “Questo è ciò che imposero i saggi dicendo: l’uomo insegni sempre ai suoi allievi la via breve”, chiosa il filosofo, che di fatto distingue tra qualità (da aumentare) e quantità (da diminuire) delle parole.

Parola, davar in ebraico, ha la consistenza di una cosa o, meglio ancora, di un fatto; possiede un peso specifico che le dà la realtà materiale di un evento. In quanto tale è uno strumento, un’arma che può essere utilizzata per compiere azioni grandi nel bene e nel male, quindi anche terribili. Le parole sono pietre non è solo il titolo di un magnifico libro quasi dimenticato di Carlo Levi, ma anche la sintesi del valore e della pesantezza della parola nella tradizione ebraica. E’ inutile aggiungere che oggi, in un mondo dove tutti o quasi scrivono in contesti di socialità virtuale, le parole diventano spesso pietre aguzze scagliate contro altri. Secondo un detto attribuito a Shlomo Ibn Gabirol, conosciuto nel medioevo occidentale con il nome di Avicebron, se si vuole andare alla ricerca della saggezza il primo passo da compiere è il silenzio, il secondo l’ascolto, il terzo la memoria, il quarto la pratica, il quinto l’insegnamento. Cominciamo, come si suol dire, dall’inizio.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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