Cultura
Serach bat Asher, la leggendaria matriarca che garantì agli ebrei l’uscita dall’Egitto

Un personaggio unico, simbolo della forza della gratitudine ebraica, della fedeltà femminile, dei legami e dei destini che trascendono il sangue, la cultura e l’etnia

La parashat Pinchas, che abbiamo ascoltato lo scorso shabbat, ha un discreto numero di figure femminili citate, tra le quali (Bemidbar/Nm 26,46) troviamo “la figlia di Asher il cui nome era Serach”. Costei era già comparsa in Bereshit/Gn 46,17. Se la Torà la cita ben due volte, Serach dev’essere importante. I maestri ci spiegano il perché in molte fonti, soprattutto nella letteratura midrashica; e proprio alla luce di queste storie ricaviamo un mito complesso cioè un personaggio unico dai ricchi risvolti simbolici, che vale la pena vedere da vicino. Anzitutto, all’altezza ‘cronologica’ di Numeri 26 i nipoti (e non solo i figli, di cui Asher è uno) del patriarca Giacobbe, Ya‘akov avinu, dovevano già essere tutti morti; per questo Rashì commenta: “La Scrittura la riporta nell’elenco [dei censiti per tribù ordinato dal Signore a Mosè e al sacerdote Elazar] perché Serach era ancora in vita”. Non è una questione meramente cronologica, perché la longevità di questa donna fa parte integrante della storia del soggiorno degli ebrei in Egitto, e in un certo senso l’accompagna dall’inizio alla fine. Anzi, con la paradossalità tipica del mito, la precede e la segue.

Infatti in una raccolta rabbinica di esegesi bibliche d’età medievale, il Sefer haYashar, Serach è descritta come dotata di saggezza e buon senso, adatta a una missione delicatissima, che viene raccontata dai maestri in coda alla ben nota saga di Giuseppe in Egitto: dopo che Giuseppe si fece riconoscere dai suoi fratelli, costoro tornarono in terra di Caanan dove, ad attenderli, vi era ancora il loro padre Giacobbe. E a Giacobbe ora dovevano dare la notizia che Giuseppe suo figlio, creduto morto e sbranato da una belva, era invece vivo e regnava sull’Egitto, e lo voleva vedere… Una notizia così sconvolgente avrebbe potuto essere fatale per il vecchio patriarca. Che fecero i fratelli? Poiché Serach era buona, saggia e capace di suonare la cetra, le chiesero di portare lei la notizia al nonno, che Giuseppe era vivo e governava in Egitto: e la ragazza mise la notizia in musica e la cantò più volte al nonno, così che con il canto la notizia entrò nel cuore e nella mente di Giacobbe senza sconvolgerlo.

Giacobbe infine la benedisse promettendole che “non avrebbe visto la morte”. Ecco di nuovo il tema della longevità di Serach. Lo ritroviamo, secondo Shemot rabbà (5,13), nel momento in cui Mosè torna in Egitto con l’ordine di far uscire i figli e le figlie di Israele: si presentò loro con la ‘parola d’ordine’, per così dire, paqod paqadti, “certamente visiterò [= vi redimerò]!”. Nessuno conosceva quella parola d’ordine; e gli ebrei allora si rivolsero a Serach, la più anziana, che l’avava appresa da suo padre Asher, da Giuseppe e i suoi fratelli, e tutti costoro dallo stesso Giacobbe; e Serach confermò che quella era la parola d’ordine e dunque Mosè era davvero il go‘el – il riscattatore/redentore – inviato da Iddio benedetto per far uscire Israele dalla schiavitù. Quanti anni aveva Serach quando Mosè tornò in Egitto? La tradizione calcola quel soggiorno in 210 anni, e Serach era già una ragazza che suonava la cetra quando la grande famiglia scese in Egitto, quindi doveva avere almeno 225 anni! Cronologia simbolica, si ricordi.

Un altro midrash, registrato anche dall’antica raccolta nota come Mekhiltà, narra che, mentre i figli di Israele erano occupati a spogliare gli egiziani (onde farsi pagare il lavoro svolto come schiavi), Mosè cercò per tre giorni e tre notti la bara con le ossa di Giuseppe, poiché questi aveva fatto giurare – in Bereshit/Gn 50,24-25 – di essere portato, nel momento della liberazione, fuori dall’Egitto… Una promessa che Mosè doveva mantenere: senza le ossa di Giuseppe, niente esodo! Ma come poteva Mosè conoscere il luogo dove si trovavano quelle ossa? Glielo rivelò Serach bat Asher, che gli disse: “Gli egiziani hanno fabbricato un sarcofago di ferro e l’hanno immerso nel Nilo”. Allora Mosè dalla riva del fiume gridò: “Giuseppe, Giuseppe! Iddio benedetto ha mantenuto la sua promessa e ci ha visitati. Non ritardare la nostra liberazione. Esci dalle acque o saremo sciolti dal giuramento che ci hai fatto prestare”. Così il sarcofago di Giuseppe emerse dalle acque del Nilo, Mosè lo prese e finalmente i figli e le figlie di Israele poterono andarsene. Di questa storia fa cenno anche il Talmud, trattato Sotà 13a. Ancora una volta il midrash esalta questa eroina per la sua fedeltà, una fedeltà messa al servizio della continuità intergenerazionale che preserva la memoria identitaria onde garantire il futuro di Israele. Per i maestri questa è una prerogativa speciale delle donne ebree, delle “figlie di Israele”, simbolicamente rappresentate da Serach bat Asher. Non dimentichiamo il ruolo avuto dalle levatrici ebree contro il decreto infanticida di Faraone; e la cura di Miriam, sorella di Mosè e Aronne, per il popolo nel deserto; e neppure il ruolo avuto da Zipporà – che era una donna madianita, figlia di Yitro – nel salvare la vita allo stesso Mosè nel capitolo IV di Shemot/Esodo. Interessante notare che, secondo il Nachmanide (XIII secolo), Serach era figlia di Hadora, la seconda moglie di Asher, dunque figlia ‘adottata’ da Asher.

Nella Pesiktà de-rav Kahana (XI,13), raccolta di omelie che Leopold Zunz datava all’ottavo secolo e.c., si riporta una discussione sull’uscita dall’Egitto tra rabbi Yochanan e Resh Lakish, amoraiti del III secolo, su come le tribù avessero attraversato il mare, se le acque si fossero divise “come un muro”, di che natura fosse tale muro e se esso avesse impedito o meno che una tribù vedesse tutte le altre, ecc. Ora, nel bel mezzo della discussione, ecco irrompere ancora una volta Serach bat Asher, testimone oculare, per dire: io c’ero, e le acque erano mura trasparenti sì che tutti/e potessero vedere tutti/e, come i grembi delle madri incinta ai piedi del Sinai. Serach è dunque testimone e garante, memoria e presenza continua. Ricordate la benedizione datale dal patriarca Ya‘akov avinu? Secondo molteplici fonti (Derekh eretz zutà, ma anche Targum Yonatham e altre), Serach bat Asher appartiene al ristrettissimo novero di quanti ebbero in premio di entrare vivi nel gan eden, in paradiso, senza prima morire. Dell’epoca sua, gli eventi legati a Mosè e all’uscita dall’Egitto, solo un’altra donna ebbe questo privilegio riservato ai giusti, cioè Batya figlia di Faraone la quale ‘adottò’ come suo figlio il piccolo Mosè. Interessante legame questo dell’adozione… Si noti che nella Bibbia la principessa egiziana non ha un nome; è il midrash a chiamarla bat-ya, ossia figlia del Signore. Per quel gesto di compassione verso un neonato straniero, e per averlo preso come un figlio suo (sembra che Moses/Moshe in egiziano significi ‘figlio’), meritò di andare senza morire nel gan eden. Batya come Serach bat Asher: forza della gratitudine ebraica, forza della fedeltà femminile, forza di legami e di destini che trascendono il sangue, la cultura e l’etnia.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.