La questione sicurezza, dal 1948 a oggi
“Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”, recita l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tre concetti che non potevano, e non possono, pensarsi separati – quelli di vita, libertà e sicurezza. Ed è facile intuire a che cosa pensassero in primis gli estensori di uno dei documenti fondanti del nuovo ordine (giuridico) mondiale all’indomani della fine del secondo straziante conflitto mondiale nell’arco di tre decenni. Sicurezza significava far tacere una volta per tutte le armi, proteggere le città da altri bombardamenti, smettere di mandare al macello centinaia di migliaia di giovani in nome di ideali folli. E consegnare per sempre alla Storia progetti genocidi come quello della Shoà. Tutto il resto veniva dopo.
La Costituzione italiana, redatta poco prima, era ancora più tranchant: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, inscrivevano i costitutenti nel dna nella nuova Repubblica. Al tempo del disegno del nuovo ordine post-bellico, insomma, sicurezza significava libertà dalla paura di incursioni straniere, pace tra le nazioni. Che l’architettura dell’Onu avrebbe consentito effettivamente di mettere da parte le preoccupazioni militari, poi, è tutto un altro paio di maniche: prima ancora che la Dichiarazione fosse firmata, il mondo si era già diviso in due blocchi integralmente contrapposti, che presto avrebbero fatto le fortune delle rispettive industrie militari, e gettato nei decenni seguenti milioni di persone nel terrore della distruzione imminente.
La sicurezza, 70 anni dopo
Ma la sicurezza di cui proclama il diritto inalienabile la Dichiarazione universale del 1948 che significato ha, o dovrebbe avere, nell’Europa di 70 anni dopo? La domanda è molto meno scontata di quanto appaia. Certo tra meno di un anno si celebrerà un altro cruciale anniversario, il trentesimo dal crollo del muro di Berlino: di fatto la festa della maturità di un’intera generazione di europei a non aver mai conosciuto guerra né calda né fredda. Eppure. Eppure quella stessa generazione si sente oggi più insicura che mai, e con lei una buona fetta dell’Occidente – o di ciò che ne resta. Come è possibile?
L’impressione è che tutti – leadership politiche, istituzioni internazionali, opinione pubblica – ci siamo dedicati con grande trasporto ad assicurare che l’articolo 3 fosse applicato alla lettera, ma molto meno che lo fosse nel suo significato più completo e profondo. Per capirlo basta (sarebbe bastato) sfogliare con attenzione le (poche) pagine della Dichiarazione stessa. Il termine “sicurezza” vi compare tre volte. Oltre a quella citata, all’articolo 22, che recita: “Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale”; e al seguente 25, che proclama il “diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”.
Come a dire che la sicurezza è sì una pre-condizione per una vita libera e degna, ma che la si può intendere in senso completo solo se a quella immediata, fisica, se ne integra un’altra, indispensabile: la sicurezza dalle minacce sociali ed economiche. Non una pretesa di protezione pubblica ad ogni costo, sia ben chiaro, ma quella di un ombrello pronto ad aprirsi in caso di serie difficoltà “indipendenti dalla propria volontà”. Sino a che il lavoro resta la ricetta primaria per garantire la stabilità socio-economica, l’impossibilità di usufruirne per ragioni anagrafiche, di salute o “di contesto” va compensata tramite adeguata protezione. Una conquista che sembrava essere a portata di mano per le società europee – con le relative differenze interne – ma che è andata sgretolandosi come un castello di carta non appena il glorioso trentennio di rilancio post-bellico ha ceduto il passo all’avvento della globalizzazione, forza suprema in grado di spazzare via le frontiere di ogni genere ma con esse anche le certezze sociali della piccola Europa.
Un problema urgente
Coronato insomma il sogno di proteggere il continente dalle minacce militari – salva la nuova sfida ben più sfuggente del terrorismo, spesso fai-da-te – ci si è resi conto che la sicurezza, tutto sommato, era tutt’altro che raggiunta: a mancare era, ed è, per fette perfino crescenti della popolazione, quella sul piano personale, famigliare, di comunità. Un problema particolarmente urgente se si pensa che oltre a rivolgimenti economici e tecnologici “scioccanti” e alla perdita di tutti i riferimenti tradizionali sul mondo del lavoro, alla globalizzazione si è accompagnato via via anche un cambiamento progressivo del panorama demografico nelle città. Genti nuove, di etnie, “colori”, religioni e costumi distanti sono arrivati a popolare i quartieri di molte città: un fenomeno certo di per sé fonte di potenziale arricchimento, ma anche di tensione se non governato. Negare questo semplice assunto o sottovalutare la necessità di politiche attive per gestire i flussi migratori e l’integrazione è stato un errore esiziale per tanti “democratici” sinceramente attaccati alla dottrina dei diritti dell’uomo. Tanto da finire per consegnare paradossalmente a custodi ben meno rigorosi la protezione di uno tra quelli fondamentali, quello alla sicurezza, rifiutando tale nozione come una specie di parolaccia.
Esclusione e povertà
Eppure la questione della “sofferenza”, sempre più acuta, dei quartieri periferici e disagiati potrebbe essere una piattaforma straordinaria di risposta e perfino rilancio politico per le forze progressiste, se solo si fosse in grado di riconoscere e interpretare il disagio in maniera omni-comprensiva e senza paraocchi ideologici. “Immaginatevi un mondo con poche e piccolissime isole di prosperità, immerse in un mare di povertà. Ecco: ci stiamo dirigendo lì”, scrivono Joan Rosés e Nikolaus Wolf nel recente studio The return of regional inequality per spiegare la divisione sempre più radicale tra centro e periferie delle nostre città che la redistribuzione mondiale delle ricchezze sta provocando. Povertà ed esclusione sociale sono due fattori su cui le incomprensioni culturali e abitative legate all’arrivo di nuovi migranti possono innestarsi in modo potente, creando conflitti e dando forma a un senso di insicurezza forse diverso da quello del secolo scorso ma non per questo meno profondo ed esigente.
La Human Security
Che tipo di “sicurezza” potrebbe / dovrebbe prevedere una dichiarazione dei diritti dell’uomo redatta al tempo di Xi Jinping e di Foodora, dunque? La risposta più brillante si trova forse nella teoria sviluppata in ambito Onu sin dagli anni ’80 e divenuta più tardi parte vera e propria della dottrina di politica estera in Paesi come il Canada o il Giappone: quella della Human Security. Secondo quest’approccio, in sostanza, la sicurezza non può (più) essere intesa come semplice difesa degli Stati da episodi violenti, ma deve concentrarsi anche e soprattutto sulla protezione degli individui da tutte le minacce alla loro integrità: quelle fisiche certo, ivi compresa la criminalità, ma anche quelle meno tradizionali come la povertà, le malattie, l’esclusione sociale. L’idea di fondo è che in società complesse e iper-dipendenti l’una dall’altra le deprivazioni individuali / di comunità possono diventare una minaccia per la pace e la stabilità tanto quanto le minacce “classiche” alla sicurezza statale.
Vista sotto questa luce, la dichiarazione solenne dell’articolo 3 che ciascuno ha diritto “alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona” assume un significato ben più ampio ed ambizioso, e la protezione di questo fondamentale diritto diventa uno straordinario cantiere aperto su cui impegnare risorse, intelligenze e strumenti nuovi. Col risultato sperabile di ricondurre timori e insicurezze nel loro alveo, disinnescandoli, e togliere così la benzina dal motore dei troppi “imprenditori della paura” del nostro tempo che vorrebbero cittadini perennemente in preda ad angosce più o meno autentiche. Un bel regalo alla democrazia, di sicuro.
Politologo di formazione, giornalista di professione, si occupa in particolare di politica italiana ed europea. Già impegnato nel lancio del festival Biennale Democrazia a Torino e del think-tank ThinkYoung a Bruxelles, lavora per Reset e Good Morning Italia e collabora con altre testate nazionali.