Hebraica
Sogni filosofici e mistici

Terza e ultima puntata sulla storia dei sogni, dalla Torà alla mistica

Mio Dio, le tue dimore sono splendide
E così la tua vicinanza, veduta e non più solo adombrata.
Il mio sogno mi ha condotto al santuario divino
E ho cantato i tuoi meravigliosi canti di lode.
Il sacrificio, l’offerta e la libazione
E, tutt’attorno, colonne di spesso fumo.
Ho preso diletto nel canto dei leviti
Adunati per celebrare il culto.
Mi sono svegliato ed ero ancora con te, o Dio:
Ti ho reso lode, perché lodarti è bello.

Così Yehudà HaLevì univa nei versi la preghiera a Dio e il sogno. Per il poeta medievale il sogno consente di avvicinarsi a Dio a tal punto da non dissolvere del tutto al risveglio il cammino compiuto: “Mi sono svegliato ed ero ancora con te”. La visione onirica è quella dell’antico tempio di Gerusalemme distrutto nel 70 e.v. e al contempo del tempio futuro che verrà edificato in vista dell’era messianica.

Nel medioevo il tema del sogno è affrontato naturalmente non solo con i versi dei poeti ma anche dai filosofi. Tra i primi a farlo, ancora nel I millennio, troviamo pensatori influenzati dal neoplatonismo, che fin dal caposcuola Plotino nel III secolo aveva disegnato una realtà scalare con alla sommità l’Uno/Dio irraggiungibile con la sola razionalità, in basso il mondo della materia e dell’oscurità, in mezzo una serie di gradi intermedi. All’interno di questo orizzonte filosofico il sogno viene inteso da alcuni pensatori ebrei come visione più chiara della visione diurna perché permette di vedere realtà che con gli occhi del corpo materiale non siamo in grado di percepire. Il sogno, quindi, è uno strumento prezioso per quella che viene considerata la vera conoscenza – alla quale si oppone la conoscenza che proviene dalle percezioni captate dagli organi di senso, ritenuta inattendibile o addirittura mendace.

Una prospettiva completamente differente è quella elaborata nel X secolo da Saadia Gaon, che interpreta razionalisticamente l’esperienza onirica. I sogni non sono realtà autonome, ma immagini delle vicende vissute durante le ore di veglia precedenti il sonno che vengono trattenute dalla mente. Abbiamo così una lettura fisiologica del sogno. In alcune circostanze, tuttavia, per Saadia Gaon il sogno può essere prodotto dall’anima indipendentemente dalle percezioni diurne; può essere in altre parole frutto di conoscenza non esteriore ma interiore.

Due secoli più tardi, con la Guida dei perplessi di Maimonide, abbiamo forse la più importante teoria ebraica sul sogno del medioevo. Maimonide ritiene che il sogno sia legato alla profezia poiché entrambi rappresentano gradi dell’immaginazione. Sogni e profezie, se veridici, sono prodotti da un influsso divino che manifesta all’interno dell’uomo la verità. Esiste però tra i due una differenza di grado: la visione del profeta è raffigurazione perfettamente chiara e limpida della verità divina, il sogno invece è una profezia ancora acerba, una profezia parziale che contiene in potenza la verità divina la quale però non è ancora in atto, non è cioè ancora compiutamente manifestata. Per distinguere sogno e profezia Maimonide utilizza una coppia di chiara origine aristotelica come potenza/atto, dove il secondo – la piena realizzazione di qualcosa che prima esiste soltanto in potenza, come la quercia rispetto alla ghianda o l’uomo adulto rispetto al bambino – preesiste logicamente alla prima e la orienta.

Anche la mistica sviluppa in numerose direzioni il tema onirico. Elazar di Worms, figura centrale della mistica ashkenazita medievale, ritiene che il sogno sia la rielaborazione dei pensieri umani che viene compiuta di notte da parte di un angelo che trasforma le sensazioni dell’uomo in immagini. I sogni possono essere naturalmente veritieri oppure menzogneri: dipende non dall’operato dell’angelo ma dal materiale di partenza, cioè dai contenuti dell’anima umana. I sogni sono così il prodotto congiunto dell’uomo e di una forza divina.

Singolarmente la teoria dei sogni di Maimonide influenza la mistica provenzale e spagnola, che rappresenta per molti motivi quanto di più lontano dal pensiero aristotelico e che fiorisce dopo la morte del filosofo. Il castigliano Moshe de Leon riprende l’immagine maimonidea del sogno come frutto acerbo, considerandola tappa lungo il percorso di salita di ramo in ramo verso le sefirot più alte, le manifestazioni del divino che sono intese come rami carichi di frutti maturi. Come ogni scala mistica, anche quella del sogno può essere percorsa nei due sensi ascendente e discendente. Nell’ascesa si sale dalla corporeità verso ciò che non è corporeo, come nella poesia di Yehudà HaLevì e nelle indagini dei neoplatonici. Nella discesa si procede dal sogno profetico perfettamente chiaro fino al sogno notturno dell’uomo. Nello Zohar, il più influente testo di mistica ebraica medievale scritto probabilmente dallo stesso de Leon, viene chiarito che “il sogno viene dall’alto, quando le anime sono uscite dal corpo e sono ascese, ciascuna seguendo la propria via”. Per lo Zohar ogni notte l’anima lascia il corpo per innalzarsi verso la propria origine divina. Il sogno diventa così un esercizio di abbandono del corpo e del mondo fisico, dando un saggio anche se in forma solo temporanea e parziale del movimento di ritorno alla fonte di tutte le cose.

Nello Zohar e nella letteratura mistica successiva non mancano i sogni premonitori e tutta una serie di credenze sui sogni caratteristiche del folklore in età medievale e moderna.
Letteratura, mistica ed esegesi ebraica del secondo millennio non smettono d’altronde di guardare alle letture rabbiniche, che a loro volta facevano riferimento costante alla Torà. Non stupisce allora che il mistico Abraham Abulafia riprenda un filone dell’esegesi rabbinica sui sogni secondo cui ogni esperienza onirica avviene precisamente affinché sia interpretata e spiegata. Per Abulafia della Torà non basta la conoscenza testuale, cioè la lettura che svela il significato palese e letterale del racconto. Occorre anche la conoscenza interpretativa, identificabile con il midrash mistico. “È come il sogno”, spiega Abulafia, “il quale in sé e per sé necessita una spiegazione, giacché ogni sogno non interpretato è come una parabola, un’allegoria scritta e indecifrata”. Abulafia ricorre al sogno come esempio per spiegare la pluralità di letture che del testo biblico deve essere fatta. Un ragionamento analogo è svolto nello Zohar attraverso l’impiego di una delle modalità argomentative caratteristiche della logica midrashica, il qal vachomer (a minori ad maius: “se vale x, tanto più varrà y”, dove x è minore di y): “Se anche i sogni [che sono umani] vanno interpretati secondo norme precise, tanto più bisognerà accostasti in modo veritiero alle parole della Torà”, che è divina, interpretando al di là della lettera del testo.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.