Cultura
Stati Uniti, personaggi e interpreti delle imminenti elezioni

Un’analisi tra passato e futuro prossimo

Sarà interessante, a cose fatte, verificare come si è disposto l’elettorato ebraico americano rispetto a questa tornata di elezioni presidenziali. Ossia, rispetto a quale dei due candidati sia prevalsa la scelta della maggioranza di essi. Plausibile che, ancora una volta, l’opzione si riveli a netto favore di quello democratico. Posto che gli atteggiamenti assunti dal tycoon televisivo, nonché imprenditore edile (più volgarmente qualcuno parlerebbe di “palazzinaro”), laddove sembra lisciare il pelo a quella destra radicale che in America ha spesso assunto posizioni antifederali, segnatamente razziste e a tratti antisemite, intercettano ben poco se non nulla delle sensibilità ebraiche. Che invece, trattandosi di elettorato perlopiù metropolitano, concentrato nelle grandi città, con un’estrazione socioeconomica e scolastica in genere maggiore della media degli altri gruppi, è molto più vicino al “patto di cittadinanza” su cui poggia la coesione civile e sociale statunitense di cui l’attuale sfidante Biden dice di volere essere titolare e custode.

A titolo di sequenza storica, per capire qual è la disposizione delle cose, basti osservare la divisione del voto e la disposizione verso i candidati del partito democratico: nelle quattro tornate che vedevano Franklin Delano Roosevelt suo candidato (1932, 1936, 1940, 1944), la percentuale di assensi tra gli ebrei americani è stata, nell’ordine, dell’82, dell’85 e poi per due volte del 90% circa. Truman, nel 1948, si garantì il 75%; Stevenson prese prima il 64% (1952) e poi il 60% (1956) contro un ben più carismatico Eisenhower; Kennedy arrivò all’83%; Johnson al 90%; Humprey (nel 1968) all’81%; McGovern, quattro anni dopo, al 65%; Carter al 71% nel 1976 per poi scivolare al 45, il risultato più basso tra gli elettori ebrei per un democratico, quando fu sconfitto sonoramente da Reagan; Mondale, nel 1984, riacquistò il 57%, Dukakis il 64% mentre il Clinton del 1992 raggiunse l’80%, per scendere al 78% quattro anni dopo. In tempi più recenti, le preferenze verso i democratici sono state del 79% con Gore (elezioni del 2000, vinte da Bush jr), del 76% con Kerry, del 78% con Obama (primo mandato, del 2008) e del 69% nel suo secondo mandato. Hillary Clinton, infine, nel 2016 ha raggiunto il 71% dei voti.
Tralasciamo le retoriche sulla presunta “epocalità” del confronto tra Biden e Trump. Poiché si può dire che oramai qualsiasi passaggio elettorale venga presentato come tale, quasi che ogni riscontro delle urne costituisse una sorta di scontro tra il bene e il male. Non è così neanche in questo caso, al netto del posizionamento che ciascun lettore può comunque nutrire, quindi delle preferenze così come delle diffidenze, verso i due nomi. Trump porta con sé il successo degli «accordi di Abramo», prodotto tuttavia di circa vent’anni di diplomazia silenziosa e collaterale da parte anche degli Stati Uniti. Non solo di essi, beninteso. Ne raccoglie quindi i frutti dopo avere accelerato su una serie di pedali, ovvero quello dell’unilateralismo, l’errabondare “pragmatico” rispetto a decisioni politiche assunte di volta in volta spesso sulla base di impressioni occasionali e la predilezione per la contrattazione bipolare. Il tutto si traduce nel non cercare assensi tra un arco di potenziali interlocutori troppo ampio, agendo semmai in conto proprio, anche attraverso un’azione muscolare che si rifà più alla contrapposizione ideologica che non a quella militare; così come il privilegiare gli scambi e le partnership binarie, al netto di quelle multiple, che invece possono ingenerarsi solo dopo avere ricondotto le proprie opzioni ad una mediazione tra prerogative e interessi diversi (quindi in contrapposizione).
L’una e l’altra condotta sono il prodotto della progressiva riconfigurazione del sistema di relazioni internazionali, dal declino del bipolarismo, a partire dagli anni Ottanta, e il conseguente transfert di potenza dagli Stati Uniti ad un circuito di attori che è ancora in movimento. Plausibilmente, sia Trump che Biden lo ritengono un processo irreversibile ma si guardano bene dal dichiararlo in pubblico, entrambi sapendo quanto ciò potrebbe nuocere alla propria immagine. Pare plausibile pensare che dalle vicissitudini pandemiche che ci accompagneranno in questo e nei prossimi anni, ad uscirne premiata sarà la Cina. A Washington, un tale pensiero non è di certo inedito: le strategie in campo vertono semmai sul ruolo che gli Stati Uniti potranno disegnarsi nel secolo che è oramai consegnato alla prospettiva e alla propensione egemonica di Pechino, contendendone il perimetro e obbligandola a più miti consigli. Nella consapevolezza, inoltre, che le guerre non sono più quelle combattute con i soli eserciti, come ancora i Bush pensavano, ma rimandano a complesse partite dove la dimensione digitale e l’infosfera (l’habitat degli scambi virtuali) diventano prevalenti. Il vero oggetto di contesa sarà sempre di più l’economia dei Big Data, la raccolta, la computazione, l’interconnessione e la messa a frutto economico della crescente mole di dati eterogenei, con lo scopo di identificare e stabilire correlazioni presenti nonché anticipare quelle a venire.

Rispetto al Medio Oriente, un tema sul quale avremo ancora modo di tornare in queste pagine nei prossimi giorni, Trump ha oramai dichiarato la decadenza della «questione palestinese» e, con essa, la riconfigurazione del conflitto arabo-israeliano. Si tratta di uno degli esiti non solo della cronicizzazione patologica del conflitto medesimo ma anche della scelta, praticata sia dagli israeliani che dai palestinesi, benché da posizioni di forza diverse e con disegni politici distinti, di alimentare lo status quo nelle relazioni di scambio e reciprocità. I tentativi delle amministrazioni americane precedenti a quella in carica di contribuire ad una soluzione consensuale, dopo il tramonto del progetto di «Final Status» negoziato infruttuosamente da Bill Clinton a Camp David nel luglio del 2000, sono anch’essi finiti in un nulla di fatto. Né secondo la logica di un «nuovo Medio Oriente», che implicava ancora l’attivismo americano, con l’intervento militare dell’amministrazione di George W. Bush (2001-2009), né in base alla politica della «mano tesa» di Barak Obama. Di mezzo c’è stata l’abortita iniziativa di pace, proposta nel 2002 a Beirut dalla Lega Araba, rilanciata nel 2007 a Ryad e poi ancora nel 2017 (il cui dispositivo era l’offerta di pace e di riconoscimento d’Israele – ovvero la «normalizzazione dei rapporti diplomatici» – in cambio del completo ritiro israeliano dai territori del West Bank, di Gaza, del Golan e di quella porzione di Libano controllata da Gerusalemme fino al 2005, insieme ad una «giusta soluzione» della questione dei rifugiati palestinesi e alla concessione al futuro Stato palestinese di fare di Gerusalemme Est la sua capitale).

La ricaduta simbolica nei rapporti con una parte dei Paesi del Golfo è il vero oggetto, al momento, degli accordi di Abramo. Ad essa seguiranno due temi indice, ovvero la questione delle risorse energetiche (in un’ottica che prevede il ruolo decrescente degli idrocarburi in una economia globale che nei prossimi anni sarà maggiormente stanziale, anche a causa della svolta di lungo periodo impressa dalla pandemia) e degli assetti geopolitici mediorientali. Da parte sunnita, in tutta plausibilità, ci si attende un cambio di leadership a Gerusalemme, considerando il tempo di Benjamin Netanyahu declinante. Le preoccupazioni, in questo caso, riguardano non solo l’Iran ma anche la Turchia di Erdogan. Rimane il fatto che gli accordi formalizzino quanto, come già si diceva, era da tempo oggetto di trattative silenziose. In un contesto dove però l’entropia mediorientale potrebbe ben presto sopravanzare rispetto a qualsiasi intenzione di “nuovo ordine”.

Detto questo, per tutto quel che resta, ossia il 95% della sua politica, Trump continua a presentarsi come un uomo volutamente rozzo e grezzo. Tuttavia, sarebbe un errore considerarlo stupido. Ha una sua logica, che persegue anche a rischio di comportarsi come una palla da bowling dinanzi alla fila di birilli. Per questo è in forte sintonia con un elettorato nativista, fatto perlopiù di maschi bianchi, di estrazione sociale modesta, senza particolari pretese che non siano quelle riconducibili alla logica del «lavoro e del territorio». Quest’area, assai magmatica ma storicamente radicata sia nelle periferie degli Stati Uniti che nel cuore dei vecchi centri industriali ed agrari, da tempo sta vivendo un appassimento del proprio orgoglio di appartenenza collettiva. La sua crisi precorre ed accompagna quella dei ceti medi in Europa. Tradizionalmente, pur esprimendosi in chiave conservatrice, un tale segmento di elettori non è stato sempre proclive alle posizioni più radicalizzate di cui Trump è invece un abile manipolatore. Quest’ultimo lo ha fatto non sul piano politico né “ideologico” (dell’una come dell’altra cosa, nel suo empirismo opportunista, ne fa volentieri a meno) bensì su quello della comunicazione pubblica.
L’immaginario di Donald Trump si rifà ad un concentrato di simbolismi, ovvero di tropi capaci di generare identificazioni elementari. Per intenderci, è un tropo ciò che nella linguistica indica «una figura semantica o di significato per cui una espressione dal suo contenuto originario viene ‘diretta’ o ‘deviata’ a rivestire un altro contenuto» (Treccani). Tutta la comunicazione politica si alimenta di metafore, traslazioni di significati, sovrapposizioni e di figure retoriche. Pressoché da sempre. Il punto è che l’attuale presidente non può né intende andare oltre, intendendo la sua proposta politica come un rituale esercizio di identificazione alle sole ragioni di cui si ritiene unico titolare, condensate nel motto, reso anche come acronimo di riconoscimento, «Make America Great Again» (Maga, per l’appunto). La stessa vicenda del Covid 19 che lo sta interessando (in tutta probabilità per nulla conclusasi all’interno della sua famiglia) è stata ribaltata dal riscontro della fragilità delle sue politiche sanitarie – una costante di buona parte delle élite cosiddette sovraniste e che sta coinvolgendo, a modo suo, anche la gestione fattane in Israele da Netanyahu – in un esercizio di forza individuale dai tratti sovraumani. Le movenze, comunque stanche e spesso impacciate di un uomo che sembra rivelare una certa fatica a reggere la scena pubblica se non recitando una partitura dove esiste solo la sua figura e null’altro, sono state stilizzate nell’immaginario surreale e fantasioso della lotta tra un supereroe in puro stile Marvel Studio – The Avengers: Earth’s Mightiest Heroes e la «cosa venuta dall’altro mondo».

Non è una novità quella per cui un politico, in condizione di potenziale handicap elettorale, cerchi di ribaltare in elementi di favore quelli che altrimenti sono fattori di oggettiva difficoltà. Tuttavia, in Trump la distinzione tra reale e virtuale è deliberatamente compromessa. Il salto logico viene esercitato concentrando su di sé l’immaginario eroico. Quello maschile, viriloide, machista, a tratti suprematista. Trump, d’altro canto, condivide con Biden un elemento di sintesi storica, ossia l’esaurimento della “spinta propulsiva” dei due grandi partiti federali, i repubblicani e i democratici. Gli uni fattisi espropriare dallo stesso tycoon, la cui presidenza rimane invisa ad un buon numero di loro esponenti; gli altri, dopo la presidenza Obama, caricata di troppi significati e di un eccesso di aspettative, incapaci di produrre una leadership che non sia quella paludata di cui Joe Biden rimane un perfetto “esemplare”, politico di antico retaggio, uso a frequentare i poteri federali, oltre che il suo solido collegio, legato ad una leadership democratica cristallizzata intorno a figure generazionali molto connotate, a partire da Nancy Pelosi. La scelta di Kamala Harris si inscrive dentro questa cornice. Non ha torto Donald Trump quando dichiara al suo elettorato che è lei la vera “presidente”. Da figura di sostegno ad una candidatura mediana, capace quindi di garantire un ticket “al centro” tra due liberali, un uomo piuttosto anziano ed una donna ancora relativamente giovane, adesso ha assunto la fisionomia di soggetto di garanzia sovra-determinata, ossia in grado di sostituirsi, all’occorrenza, ad uno «Sleepy Joe» (copyright Donald Trump) che al momento convince soprattutto i vertici del suo partito ma che fatica ancora a consolidarsi rispetto ad un elettorato che lo voterà soprattutto perché non ne può più di «Donald Mcdonald».

 

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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