Cultura
Tel Aviv, reportage dal Gay Pride

Centomila persone per i diritti civili

Dopo un anno di silenzio a causa della pandemia, quest’anno Tel Aviv Pride riapre, con orgoglio, le porte del Gay Pride, che, dal 2000, è una delle manifestazioni più attese dell’anno. Non solo per gli israeliani ma per un pubblico che, prima del Covid, arrivava, letteralmente, da ogni angolo del pianeta. Soprattutto dai paesi arabi limitrofi dove appartenere, apertamente, alla comunità LGBTQ+ è, purtroppo, ancora un’utopia. Per questa ragione, già da anni, il governo israeliano ha cominciato ad offrire asilo politico a palestinesi che appartengono a questa comunità, onde evitare episodi di ostracismo da parte dei clan famigliari che, in casi estremi, possono degenerare nella pena di morte.
Per molti di loro, come per molti arabi israeliani, la cui maggioranza vive tra Gerusalemme e i villaggi della Galilea, Tel Aviv rappresenta, non solo durante le giornate del Gay Pride, un luogo sicuro in cui poter vivere, senza dover affrontare pregiudizi nei confronti della propria appartenenza di genere, nazionale e religiosa.
Come si dice spesso tra gli israeliani, Tel Aviv non è Israele, ma “uno Stato nello Stato”.

Uno dei ritratti più interessanti della “bolla” di Tel Aviv è stato raccontato magistralmente nell’opera cinematografica di Eytan Fox, del 2006, Ha Buha, letteralmente “la bolla”. Il film descrive l’amore senza confini tra i diversi protagonisti, inclusi un ebreo ed un palestinese, che si innamorano durante gli anni dell’Intifada.
Quest’anno lo stesso regista è tornato sul grande schermo con Sublet, una co-produzione Israele – USA, che racconta la storia di un giornalista del New York Times, durante gli anni in cui l’AIDS raggiunge il suo picco storico, in visita a Tel Aviv per lavoro. Qui, in un appartamento in subaffitto, incontra un giovane israeliano, omosessuale come lui, con cui si troverà ad affrontare il divario generazionale e altri conflitti legati all’accettazione della propria identità. Anche in questa pellicola, acclamata con successo sia in Israele che all’estero, la vera protagonista della storia è Tel Aviv, la città che non dorme mai e in cui c’è sempre posto per tutti, come hanno dimostrato le 100.000 persone che venerdì hanno sfilato lungo le sue strade.
Nonostante quest’anno, a causa delle misure di sicurezza dovute all’emergenza sanitaria, l’evento non sia stato aperto al turismo, i cittadini israeliani, incluse famiglie straight, con tanto di prole al seguito, non hanno esitato a dimostrare la propria partecipazione e il proprio entusiasmo per uno degli appuntamenti annuali che contraddistingue l’identità cosmopolita e “fluida” di Tel Aviv.

La sfilata è cominciata alle 12.00 sul lungomare e da lì è continuata per l’intera giornata con un grande concerto al Charles Clore Park, dove si sono esibiti numerosi artisti fino al calar del sole, con l’ingresso dello Shabbat. È stata sicuramente la più grande parata del suo genere mai tenutasi, su scala globale, sin dallo scoppio della pandemia. E i festeggiamenti non sono ancora finiti. Sono cominciati la scorsa settimana e andranno avanti anche la prossima. Più che di una parata si tratta di un vero e proprio Festival. Non solo per celebrare l’orgoglio gay.
Come ha dichiarato il sindaco Ron Huldai durante l’inaugurazione dell’evento: “Questa manifestazione ha ormai una tradizione di lunga data, incentrata su un messaggio di uguaglianza per la salvaguardia dei diritti umani e civili. Tel Aviv rappresenta una casa accogliente per tutti coloro che vi risiedono ed è orgogliosa di essere una città rivoluzionaria, fonte di ispirazione a livello internazionale. Quest’anno, più che mai, festeggeremo insieme, marciando in nome della fratellanza”. Con queste parole il primo cittadino ha dato inizio alle danze, esprimendo, implicitamente, anche l’entusiasmo e il supporto verso il nuovo governo, inaugurato lo scorso 13 giugno, che, fra le tante novità, oltre alla più alta percentuale mai avuta di parlamentari donne, si contraddistingue anche per essere apertamente LGBTQ+, come il neo-Ministro della Sanità Nitzan Horowitz, leader del partito progressista Meretz, la lista da sempre sensibile nei confronti delle esigenze della comunità LGBTQ+ e promotrice di una risoluzione pacifica del conflitto arabo-israeliano. Un enorme passo in avanti per i diritti civili in Israele, che in questo nuovo esecutivo dalle larghe intese vede seduti allo stesso tavolo, per la prima volta nella storia del Paese, parlamentari di destra e di sinistra, laici e religiosi, arabi ed ebrei. Un vero governo “arcobaleno”.

Fiammetta Martegani
collaboratrice

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un Dottorato in Antropologia a cui segue un Postdottorato e nel 2016 la nascita di Enrico: 50% italiano, 50% israeliano, come il suo compagno Udi. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è Tel Aviv – Mondo in tasca, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca, Laurana editore.


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