Hebraica Nizozot/Scintille
Tisha beAv, un lutto da elaborare ad ogni generazione

Le ragioni contemporanee di celebrare il 9 di av

Il 9 del mese di Av (Tisha beAv, quest’anno domenica 7 agosto, posticipato di un giorno perché cade in effetti di shabbat) è il secondo giorno di digiuno più imporante del calendario ebraico, dopo Kippur: si digiuna da sera a sera per oltre 24 ore. Mentre però il digiuno e le privazioni di Kippur valgono come un segno di espiazione e di teshuvà, a Tisha beAv si tratta di veri e propri segni di lutto: il giorno ricorda infatti la duplice distruzione del Tempio di Gerusalemme, per mano dei babilonesi nel 587 e poi nel 70 e.c. per mano dei romani. È giorno di mortificazione voluto dai maestri di Israele, nel quale confluirono tutte le altre memorie dolorose dei più tragici eventi storici del popolo ebraico, a partire dal ‘peccato’ biblico degli esploratori della terra di Israele, che ne parlarono male, con mancanza di fede, fino all’espulsione degli ebrei dall’Inghilterra (1290), al gerush Sfarad ossia la cacciata dalla penisola iberica (1492), ai vari progroms e massacri in Europa dell’est nel corso del XVII secolo… Per alcuni anche la Shoà andrebbe commemorata in questa data liturgica. Altri segni che marcano questo lutto: non lavarsi completamente, non spalmarsi creme estetiche o mettere profumi, non indossare indumenti di cuoio, non avere rapporti sessuali e, come detto, astenersi dal mangiare e dal bere dal tramonto al tramonto. Cadendo in estate, quest’ultima non è cosa leggera. Insomma, è una giornata di lutto collettivo, anzi nazionale. Il fatto che stia nel calendario religioso-liturgico dice della difficoltà strutturale, anche in questo caso, a separare nel giudaismo le dimensioni: quella individuale da quella comunitaria, la sfera religiosa da quella politica, il passato dal presente.

I maestri hanno insistito su questo triste giorno per instillare, naturalmente, il senso della gravissima perdita del Tempio e di conseguenza di Gerusalemme, cuore pulsante di Israele; il Tempio fungeva da motore economico-sociale della vita in Giudea, nell’epoca detta appunto ‘del secondo Tempio’, e ancor più da simbolo teologico-politico del legame tra Israele e il Santo Benedetto, testimonianza dell’alleanza e dell’intera storia biblica ma anche concreta possibilità di vivere secondo i precetti della Torà, che ruotano in buona parte sulla vita agricola in terra di Israele e gli obblighi connessi al culto templare (pellegrinaggi, sacrifici di espiazione/purificazione, offerte, ecc.).

La distruzione del Tempio è stata percepita, almeno fino al XX secolo, come la più grande tragedia storica di Israele e come tale ricordata nel lutto. È nota la tesi di Stefano Levi Della Torre per cui l’intero Talmud andrebbe ricompreso come un’elaborazione di quel lutto estesa per secoli, al fine di aiutare il popolo ebraico a sopravvivere ‘senza’: senza tempio, senza sacerdozio, senza sacrifici espiatori, senza stato. Persino lontano dalla propria terra.
Ma elaborare non significa (solo) teorizzare la rassegnazione e coltivare una stoica attitudine al fatalismo. Anzi, sin da quell’epoca, dal II secolo, la speranza della ricostruzione del Tempio prese forma in molte aggadot rabbiniche incentrate sul miracolo di un intervento divino per cambiare le sorti di Israele. Nel trattato talmudico Makkot 24a-b si narra, ad esempio, l’episodio dei maestri (i maggiori di quel tempo: Gamliel, Elazar ben Azarià, Yehoshua e ‘Aqivà) che, camminando presso le rovine del Tempio, videro una volpe che vi aveva costruito la tana… La volpe è ‘rossa’, rimanda linguisticamente a Adom/Edom ossia Roma, essendo Gerusalemme in quel momento parte dell’impero romano. Tre di loro si strapparono le vesti, come prescritto, in segno di lutto, tranne rabbi ‘Aqivà che al contrario “rideva”, dice il Talmud. Interrogato sul perché di quel riso apparentemente fuori luogo, costui rispose: “Rido di gioia al pensiero che, come si realizzarono le profezie [di Isaia e Zaccaria] sulla ricostruzione del Tempio distrutto dai babilonesi, così esse si realizzeranno anche dopo la distruzione del Tempio da parte dei romani!”. “Tu ci consoli, tu ci consoli!” avrebbero esclamato gli altri maestri. Tale speranza è confermata dall’antica credenza rabbinica che il messia nascerà a Tisha beAv! La realtà storica del Tempio è andata persa, ma la fede in Dio e la fedeltà di Israele all’alleanza sono solide proprio perché la memoria tiene vivo l’ideale, il luogo simbolico e la fede che gli dà senso. Il modo liturgico con cui si elabora tale tragica memoria è la lettura della meghillà di Ekhà o Lamentazioni, un complesso poema acrostico, seguita dalla recita delle qinot o inni pieni di condoglianza per la desolazione di Gerusalemme e del suo popolo. Tradizione vuole che la meghillà sia recitata a lume di candela, stando seduti a terra e non su panche o sedie, come si usa quando si è in lutto per un familiare. L’halakhà regola molti dettagli, tutti tesi a sottolineare la tristezza collettiva.

In luce di tutto ciò, sono molte le domande sollevate da maestri e pensatori del giudaismo dopo il ritorno di Israele nella sua terra, grazie alla determinazione – spirituale e politica, ideologica e pratica – del variegato movimento sionista sin dalla fine del XIX secolo. Dopo la rinascita dello Stato di Israele, che viene celebrata come “inizio della fioritura della nostra redenzione”, seppur in mancanza di un Tempio (che comunque sarebbe halakhicamente problematico ricostruire oggi), ha ancora senso questo giorno di lutto? Lo Yom ha-‘atzmaut, e dopo il 1967 lo Yom Yerushayim, non hanno di fatto sostituito Tisha beAv nel calendario ebraico? Un teologo ebreo conservative come rav Robert Gordis ha difeso questa giornata tradizionale, Tisha beAv, sostenendo che gli ebrei hanno sempre bisogno di riflettere sui rischi storici della propria esistenza, che non va mai data per scontata e per la quale occorre sempre combattere. E se anche politicamente si possono raggiungere grandi obiettivi, restano i doveri etici e religiosi che ne derivano e questi sono sempre davanti a noi, come ideale che nessuno può affermare di aver raggiunto una volta per sempre. Continuare a digiunare a Tisha beAv è anche un atto di solidarietà intergenerazionale con chi ci ha preceduti, che nel lutto ha coltivato la speranza e nella speranza non ha smesso di elaborare il lutto.

Rivisitando le aggodot connesse alla distruzione del Tempio del 70, il già citato Stefano Levi Della Torre e Vichy Franzinetti e Joseph Bali hanno scritto, nel loro libro edito da Giuntina Il forno di Akhnai, sulla simbolica fuga di rabbi Jochanan ben Zakkai da una Gerusalemme assediata (cfr. Bavli, Ghittin 56a-b) in una bara portata a spalle dai suoi due più importanti discepoli, rabbi Yehoshua e rabbi Eliezer ossia gli antagonisti della disputa sulla purità/impurità del predetto forno. Con quel gesto, essi portarono in salvo l’essenziale, la sapienza, nella persona del loro maestro che si finse morto in un finto funerale. Fu sfida agli oppressori, ma anche a se stessi: in una bara il sapere sembra morto ma non lo è; il maestro pare impuro in quanto un cadavere ma è puro come un vero maestro di Torà; nella tragedia, si escogitano con astuzia strategie di vita e sopravvivenza. “Ieri come oggi – commentano i tre autori citati – in ogni trasformazione c’è trauma, e il lato distruttivo è più evidente di quello costruttivo. Rabbi Yehuda diceva, a nome di rabbi Shmuel: tremila leggi della tradizione furono dimenticate durante il periodo di lutto per la morte di Mosè (cfr. Bavli, Temurà 16b). Si perdono le cose che si conoscono, mentre le cose nascenti ci paiono ancora indefinite”. Davvero, la lezione connessa alla memoria e all’ortoprassi di Tisha beAv non è ancora finita. Tzom qal.

Massimo Giuliani
collaboratore

Massimo Giuliani insegna Pensiero ebraico all’università di Trento e Filosofia ebraica nel corso triennale di Studi ebraici dell’Ucei a Roma


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