Hebraica
La Meghillat Echà, percorso di formazione dall’individuo al divino

Analisi del testo in lettura il 9 di Av, giornata di lutto e digiuno che commemora la distruzione del Tempio di Gerusalemme

Il 9 di Av, giornata di lutto e digiuno che commemora la distruzione del Tempio di Gerusalemme, si usa leggere la Meghillat Echà. Normalmente la chiamiamo così, dalla prima parola del testo (Echà = Come mai?), ma il vero titolo del testo è Sefer ha-Kinnot = Libro delle Lamentazioni. Una Kinah è un lamento funebre pubblico fatto per la morte di una persona, come quello che intona David per le morti di Shaul e suo figlio Jonathan (cfr. 2Sam 1,17-27), ma spesso i profeti usano la Kinah per piangere la fine di una città, di una nazione, di un intero popolo: questo è ciò che fa, ad esempio, Geremia quando piange la caduta di Gerusalemme (cfr. Ger 9).

E secondo la tradizione è proprio Geremia l’autore della Meghillat Echà. Il testo biblico non riporta alcun riferimento al proprio compositore, ma il Talmud osserva che «Geremia scrisse il suo libro e il Libro dei Re e le Lamentazioni [Kinnot]» (TB, Baba Batra 15a) e nella stessa direzione vanno anche molte traduzioni antiche, quali il Targum aramaico, la Peshitta siriaca, la versione greca dei LXX e la Vulgata latina. Certamente molti temi collegano i libri biblici di Geremia ed Echà: la descrizione della distruzione di Gerusalemme e del Tempio, la terribile carestia che conduce al cannibalismo in cui le madri divorano i figli, il collegamento tra peccato e sofferenza, il ruolo giocato da Dio in questi eventi luttuosi. Tuttavia la mancanza di un riferimento diretto all’autore e la differenza di stile tra i due libri hanno condotto gli studiosi moderni a ritenere che Geremia non fosse l’autore della Meghillà, che sarebbe invece stata scritta immediatamente dopo il 587 a.e.v., data della distruzione di Gerusalemme da parte dei babilonesi. Ed effettivamente la descrizione della distruzione della città è così vivida da fare pensare ad una testimonianza oculare: «il Signore fece dimenticare in Sion il giorno festivo e il sabato e rigettò nel furore della Sua ira re e sacerdote. Il Signore abbandonò il Suo altare, sprezzò il Suo santuario, consegnò le mura dei suoi palazzi in mano dei nemici; questi levarono la voce nella casa del Signore come in giorno di festa» (Echà 2,6-8).

Se la distruzione di Gerusalemme rappresenta la cornice storica in cui si situa la Meghillà, comprensibilmente la tradizione non limita il valore del libro al riferimento a questo particolare contesto storico: Echà rappresenta invece il paradigma della catastrofe nazionale e, per certi aspetti, anche della catastrofe umana. Il testo – a differenza di molti altri libri biblici – non ha una struttura narrativa, né personaggi che agiscono sulla scena: il linguaggio è poetico, volto a suscitare emozioni anche quando descrive fatti storici come la distruzione di pascoli e fortezze, o del Tempio stesso. La struttura compositiva è assai accurata: nel primo, secondo e quarto capitolo ogni versetto inizia con una lettera dell’alfabeto seguendo l’ordine da aleph a tav; nel terzo capitolo ogni lettera, sempre seguendo l’ordine alfabetico, dà inizio a tre versetti; solo l’ultimo capitolo non è alfabetico, ma è comunque composto di 22 versetti, quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. Il contenuto della Meghillat Echà potrebbe essere definito “teologico” (se questa espressione non fosse guardata con malcelato, e forse eccessivo, sospetto dalla tradizione ebraica) o almeno “teologiche” sembrano le domande che la lettura evoca. Israele viene distrutto: perché? E qual è il ruolo di Dio in questa catastrofe? Come si fa a continuare a credere in Dio davanti alla tragedia della distruzione del Tempio?

Nel secondo capitolo della Meghillà, per ben tre volte, si dice: «[il Signore] tese il Suo arco come un nemico, stese la Sua destra come un avversario […]. Il Signore, divenuto nemico, distrusse Israele» (Echà 2,4-5). La catastrofe non sembra accaduta per caso: Dio stesso l’avrebbe causata. Un Dio percepito come avversario, nemico, accusato con impeto. Il secondo capitolo (ma anche il quarto, che gli fa da contraltare ideale) è difficile da leggere per i toni veementi e i contenuti duri. Il terzo capitolo, centro topografico ma anche tematico del testo, riporta il discorso sulla sofferenza individuale: «Io sono l’uomo che provò la miseria sotto la verga del Suo sdegno» (Echà 3,1). La lista delle sofferenze cui l’autore è stato sottoposto da Dio è lunga: «mi fece camminare nell’oscurità e non nella luce. […] Consumò la mia carne e la mia pelle, spezzò le mie ossa. […] Tese il Suo arco e mi pose qual bersaglio delle Sue frecce» (Echà 3,2.4.12). Ma ad un tratto il tono cambia e si apre alla speranza: «Le misericordie del Signore certo non sono finite, né la Sua pietà è terminata. I segni della Tua grande lealtà si rinnovano ogni mattina» (Echà 3, 22-23). E poi tre versetti che iniziano con la parola tov (buono/bene): «Buono è il Signore verso coloro che sperano in Lui, verso l’anima che a Lui ricorre. Bene è sperare in silenzio nella salvezza del Signore. Bene è, per l’uomo che già nella fanciullezza si adattò, sopportare il giogo» (Echà 3, 25-27).

Sembra esserci un cambiamento di prospettiva, di punto di vista sulla propria vita. Un cambiamento reso evidente anche dal fatto che proprio il terzo capitolo inizia con la parola anì (io) e termina con il Nome di Dio, invocato a difesa del sofferente dai suoi nemici: «Ripagali, o Signore, secondo il loro operato. Procura loro angustie, la Tua maledizione sia su di loro! E li perseguiterai con ira e li distruggerai da sotto i tuoi cieli, o Signore!» (Echà 3,64-66). Il Signore, nella Meghillat Echà, è autore della devastazione di Gerusalemme e della desolazione del popolo, ma è anche artefice della sua rinascita in un movimento che pare passare attraverso il cambiamento, la teshuvà, dei figli di Israele che sollevano lo sguardo dalla propria individualità alla divinità. Così, al termine del testo, in un intreccio tra azione divina e risposta umana, si eleva l’esortazione «Facci ritornare, o Signore; a Te ritorneremo!» (Echà 5,21).

 


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