Cultura Di canto in canto
Una poesia d’amore di Yehuda Amichai

Quella forza ibrida, estatica e salvifica tra sacro e profano

Pochi poeti israeliani hanno saputo cantare l’amore come Yehuda Amichai. Nato col nome di Ludwig Pfeuffer nel 1924 nella città tedesca di Würzburg e morto a Gerusalemme nel 2000, Amichai era arrivato nella Palestina del Mandato Britannico nel 1936, a dodici anni, in fuga dal nazismo, scontrandosi immediatamente con la durezza della situazione nel Paese. “Ti sei sdraiato sul ventre, non per baciare il suolo santo / ma per le pallottole del 1936”, così più di trent’anni dopo avrebbe ricordato quell’istante della sua vita nel monumentale poema Viaggi dell’ultimo Binyamin di Tudela. L’esistenza di Amichai è fortemente intrecciata ad alcuni dei più significativi eventi storici del periodo. Egli, infatti, partecipò alla Seconda guerra mondiale arruolandosi nella Brigata Ebraica e combatté durante la Guerra d’indipendenza. Il trauma di quest’ultimo conflitto segnò in maniera indelebile la sua vita e, più tardi, anche la sua poesia. In particolare il ricordo di aver trasportato sulle spalle un commilitone ferito, Diki, la cui morte il poeta avrebbe rievocato lungo tutta la sua cinquantennale carriera.

Negli anni ’50 fu una delle voci principali della rivoluzione che animò il panorama letterario israeliano, interprete di una crisi post-bellica destinata a toccare ogni ambito: economico, culturale, ideologico. Forse più di ogni altro Amichai cantò il passaggio dalla cultura del noi a quella dell’io, il crollo delle ideologie e degli eroismi, lo smarrimento dell’uomo contemporaneo di fronte alla lenta erosione delle certezze del passato: il sionismo, l’ortodossia religiosa nella quale è cresciuto. L’io poetico di Amichai è un individuo inquieto, irrisolto, che “a una via” risponde con “molte”, spesso innumerevoli, indefinibili. In primis, appunto, l’amore. Tuttavia, ciò non avviene senza difficoltà. In particolare, l’abbandono della religione e la scelta di dedicarsi agli aspetti profani della vita, soprattutto all’amore, creano in Amichai un terribile senso di colpa, nei confronti del padre, una figura che non riveste soltanto un’importanza affettiva, ma anche psicologica e religiosa. Essa, infatti, rappresenta la tradizione ebraica da cui il poeta decise di affrancarsi, arrivando persino a essere identificata con la divinità stessa: “Angeli apparivano come libri della Torah con vesti di velluto e sottane / di seta bianca, con corone e campanelli d’argento, angeli / svolazzavano attorno a me, annusavano il mio cuore e si chiamavano uh! Uh! / l’un l’altro, con sorrisi di adulti: Lo racconterò a tuo padre!” O ancora: “Le preghiere che levasti da bambino, ora ritornano e cadono dall’alto / come proiettili inesplosi che ricadono / dopo un gran tempo a terra / senza destare attenzione né provocare danni. / Quando sei disteso con la tua amata / esse ritornano.” L’amore e la religione si sovrappongono anche nella lingua poetica scelta da Amichai che spesso propone una demistificazione dei testi sacri, le cui sacre parole sono utilizzate per descrivere vicende amorose ed erotiche. La studiosa britannica Glenda Abramson ha definito questo aspetto dell’opera di Amichai kilayim ossia di “due specie diverse”, un ibrido proibito di poesia in cui immagini erotiche e spirituali sono unite o sovrapposte, mentre ciascuna pervade l’altra tramite l’allusione a un differente tipo di estasi.
Nonostante questo intricato groviglio psicologico, per Amichai l’amore appare l’unica vera forza salvifica per l’uomo. Non c’è aspetto del sentimento e dell’erotismo che egli non abbia indagato. Non c’è gioia o dolore che non abbia saputo modulare in un verso. Ad esempio, la consapevolezza di un amore ormai perduto, che plasma la nostra vita e continua a vivere in noi, malgrado tutto.

Un tempo un grande amore tagliò la mia vita in due.
E la prima metà continua a dibattersi
altrove, come un serpente mozzato.
Gli anni trascorsi mi hanno placato,
recando sollievo al mio cuore e riposo ai miei occhi.

E io sono come uno che se ne sta in piedi nel deserto di Giuda
dinanzi al cartello con su scritto “livello del mare”:
non vedrà il mare, eppure sa.
Così è ricordare il tuo volto in ogni luogo
al livello del tuo volto.

Sara Ferrari
Collaboratrice

Sara Ferrari insegna Lingua e Cultura Ebraica presso l’Università degli Studi di Milano ed ebraico biblico presso il Centro Culturale Protestante della stessa città. Si occupa di letteratura ebraica moderna e contemporanea, principalmente di poesia, con alcune incursioni in ambito cinematografico. Tra le sue pubblicazioni: Forte come la morte è l’amore. Tremila anni di poesia d’amore ebraica (Salomone Belforte Editore, 2007); La notte tace. La Shoah nella poesia ebraica (Salomone Belforte Editore, 2010), Poeti e poesie della Bibbia (Claudiana editrice, 2018). Ha tradotto e curato le edizioni italiane di Yehuda Amichai, Nel giardino pubblico (A Oriente!, 2008) e Uri Orlev, Poesie scritte a tredici anni a Bergen-Belsen (Editrice La Giuntina, 2013).

 


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