Cultura
Un’esplosione di colori: Bruno Schulz narratore per gioco

Ottant’anni fa, il 19 novembre 1942, Schulz è stato assassinato per strada durante un rastrellamento nazista

Una lingua traboccante di ornamenti, rigogliosa come nelle più stravaganti opere déco e della Secessione viennese. Un’esplosione di immagini che, incontenibili, si susseguono una all’altra in un carosello impazzito. Lingua tropicale, esotica, erotica, folle come e più di quella di García Márquez e che pure, come nei Cent’anni di solitudine del romanziere colombiano, è tutta tesa a esprimere la trasformazione incessante, la foresta pluviale che soffoca l’opera dell’uomo, il vento che scorrazza a piacimento per le strade e spazza via Macondo dalla faccia della terra. Un esempio per dare l’idea di quello di cui stiamo parlando:

“I giorni erano fatti di pozzanghere e bagliori d’incendio, e nel palato avevano il gusto infuocato del pepe. Coltelli luccicanti ritagliavano la polpa mielata del giorno in fette argentate, in prismi che nel taglio mostravano colori e spezie piccanti”.

Il furore analogico di questo e tanti altri passi non arretra di fronte a metafore, personificazioni, metamorfosi, tripudi di colori suoni gusti e odori, intrecci di sfere sensoriali diverse. Qui e ovunque altrove nell’opera di Bruno Schulz la storia è poco più di un pretesto, uno sfondo su cui affiorano le descrizioni, o meglio le sensazioni, cioè la vita.

Uno shtetl in Galizia – Bruno Schulz nasce nel 1892 in Galizia orientale nello shtetl di Drohobycz non lontano da Leopoli, allora impero asburgico, poi Polonia, oggi Ucraina. Non lo lascerà, tranne per brevi periodi, per tutta la vita. Il piccolo negozio di panni del padre, per la famiglia argine appena sufficiente contro l’indigenza, è luogo che segna l’infanzia e segnerà indelebilmente la scrittura del figlio. Dopo essersi dedicato alla grafica, Schulz comincia a scrivere. Di lui restano però soltanto due raccolte di racconti – Le botteghe color cannella e Il sanatorio all’insegna della clessidra – qualche frammento sparso e alcune lettere. Un terzo volume di racconti, l’unico romanzo Il messia, lettere, quadri e disegni vengono perduti nella voragine della Shoah. Ottanta anni fa, il 19 novembre 1942, Schulz è assassinato per strada durante un rastrellamento nazista. Sappiamo della sua sepoltura con rito ebraico, ma la stessa tomba e il cimitero di Drohobycz oggi non esistono più. Nel 1973 dal racconto Il sanatorio all’insegna della clessidra il regista polacco ed ebreo Wojciech Has trarrà la sceneggiatura del magnifico film La clessidra

 

Esilio – Come per tanti scrittori ebrei della Mitteleuropa, da Kafka a Josef Roth, anche le pagine di Schulz sembrano sgorgare dalla condizione dell’esilio su una terra (la condizione ebraica? La condizione umana?) che è casa ma non si può chiamare casa segnata com’è dall’incertezza, dall’indigenza, dal timore. Dalla solitudine per la lontananza di una legge che giorno dopo giorno sembra ritrarsi nei cieli più remoti. Rispetto ad altri autori inoltre l’estraneità di Schulz è anche linguistica poiché invece di scrivere in tedesco o in yiddish sceglie la lingua polacca, collocandosi così da outsider in una tradizione letteraria scarsamente frequentata dagli ebrei. All’esilio si accompagna la nostalgia di terre lontane che non si osa nominare ma che trovano un equivalente nelle tele esotiche dei viaggiatori dell’Ottocento o nei dipinti un po’ naif dei primi immigrati nella Palestina ottomana agli albori del Novecento, pieni anch’essi di colori puri come le descrizioni dello scrittore galiziano.

 

Finis Austriae – Drohobycz sorge nell’estrema provincia dell’impero asburgico, alla quale la luce peraltro sempre più fioca delle capitali Vienna e Budapest giunge smorzata. Gli anni sono quelli della decadenza dell’impero dell’aquila bicipite che invecchia per lunghi decenni insieme al suo canuto imperatore Francesco Giuseppe. E quelli successivi alla frantumazione dell’impero dopo la prima guerra mondiale in cui il mito del tramonto dell’Austria invece di esaurirsi centuplica configurando universi di nostalgia e rimpianto. Francesco Giuseppe per Schulz è un vecchio noioso garante della tradizione fine a se stessa e dell’etichetta, non rappresenta però un’immagine da degradare come nel Buon soldato Šveik di Hašek o negli Ultimi giorni dell’umanità di Kraus. Schulz reagisce al rattrappimento e alla paralisi di un impero multinazionale che muore soffocato dall’incedere della modernità con l’esplosione linguistica e allegorica. Come in Alfred Kubin – nel romanzo L’altra parte e nelle opere oggetto nei mesi scorsi di una grande retrospettiva al Leopoldmuseum di Vienna – ecco l’emergere di figure che esprimono una fecondità smisurata, il femminile come forza dirompente, una comunione pagana con il mondo degli oggetti. Tuttavia – differenza decisiva – senza ricorrere come fa ossessivamente Kubin al demoniaco con il suo arsenale di simboli e inserendo invece questi elementi in un gioco multiforme che assume l’aspetto del tutto diverso di scherzo nonsense e burla.

 

Infanzia – “Il genere d’arte che mi sta a cuore è appunto la regressione, è l’infanzia reintegrata”, spiega Schulz. “Maturare verso l’infanzia”, nelle parole dello scrittore, è un “ideale”: come un orizzonte, un punto di fuga che per definizione non può essere raggiunto e al quale tuttavia non si può fare a meno di continuare a tendere. Un compito impossibile e necessario allo stesso tempo, come l’attesa ebraica del messia. E infatti “avere ancora una volta la sua pienezza e la sua immensità” coinciderebbe con l’avvento dei “tempi messianici”.  I racconti di Schulz sono album di ricordi di infanzia che squadernano l’universo tramite l’accostamento di dettagli eterogenei come fanno gli album di francobolli. Il luogo dell’anima dell’infanzia nello shtetl è il negozio di tessuti del padre, trasfigurato nella scrittura fino a diventare emporio arcano, luogo incantato, bottega piena di odori di spezie e merci rare, di paccottiglia, sciocchezze dorate, automi e giochi meccanici.

 

Il padre – Nel negozio il padre Jakub rovista negli armadi in modo frenetico, sparge e riordina cianfrusaglie. Pronuncia spesso, come i personaggi di Hrabal, discorsi lunghi e cervellotici, magari mentre è impegnato a srotolare fino al polpaccio la calza della sarta Paulina (“le ragazze permettevano a quel ricercatore appassionato di studiare la struttura dei loro corpi magri e ordinari”). Come insegna il celebre film di Radu Mihaileanu Train de vie ogni shtetl ha un suo svitato, un meshugge, lo stravagante di cui abbondano le storie chassidiche. Nelle pagine di Schulz Jakub non è l’unico – abbiamo un piccolo inventario di matti, eccentrici e sgangherati – ma la figura del padre è senza dubbio quella centrale. E questo, da parte del figlio, è anche atto di amore verso il genitore.

 

I manichini – Pupazzi, oggetti ammucchiati alla rinfusa, fantocci di cera. Un motivo caro a dadaisti e cubofuturisti russi, ma anche contemporaneamente a Depero e alla pittura metafisica in Italia. È la rivolta delle cose. Il padre Jakub ritiene che le marionette si rianimino di notte come il mitico golem. Nel Trattato dei manichini, contenuto nelle Botteghe color cannella, Jakub coltiva il proposito di impastare pupazzi con colle e sale da cucina con il chiaro obiettivo di “creare una seconda volta l’uomo, a immagine e somiglianza di un manichino”. Schulz descrive il suo “solitario eroismo” con cui “mosse guerra all’elemento sconfinato della noia che soffocava la città”. “La creazione è un privilegio di tutti gli spiriti”, afferma Jakub che poi, da autentico prestigiatore metafisico o moderno demiurgo, si mette d’impegno a nobilitare i frammenti, riplasmare la materia vivente, il caos indistinto del tohu vavohu, insomma le cose da nulla e senza valore. L’esito è un gioco di figure da opera buffa, un cabaret-manicomio, un carnevale richiamato continuamente dalla presenza di tappezzerie coperte di arabeschi e grovigli.

 

Kafka – Salta all’occhio la parentela con Kafka, di cui Bruno Schulz traduce Il processo. Per il tema delle metamorfosi innanzitutto, ma anche per la figura del padre. Jakub però è l’antitesi del dispotico capofamiglia a cui Kafka si rivolge nella terribile Lettera al padre. Non è un ufficio retto da rigida burocrazia come quello praghese del padre di Kafka, il suo emporio galiziano, bensì feudo del bizzarro e del fantastico. Nel racconto Gli uccelli Jakub a furia di stare rinchiuso in soffitta in mezzo agli uccelli più vari comincia a dimenare le braccia come ali e a imitare il verso dei volatili, facendosi di giorno in giorno più simile a un condor impagliato. La soffitta diventa così il “regno alato di mio padre” il quale in una “nube infernale di penne, ali e strida” tenta “in preda al panico, di sollevarsi in aria sbattendo le braccia”. In altri luoghi dell’opera di Schulz abbiamo trasformazioni di Jakub in volpe, mosca, gambero e anche scarafaggio. Inutile aggiungere come, a differenza della soffocante metamorfosi di Kafka, tutte quante si risolvano in scherzo. Un gioco velato da malinconia per la follia del padre, e tuttavia sempre gioco.

 

Ai piedi del Sinai – La legge è in esilio nello shtetl di Schulz alla periferia di un grande impero declinante. Eppure i riferimenti biblici affiorano quasi ovunque nei racconti, spesso con risvolti buffoneschi. Il negozio è una “terra di Canaan” in cui Jakub vaga a grandi falcate, “le mani profeticamente levate al cielo, e plasmava il paesaggio a colpi di ispirazione”. Di tanto in tanto si arresta, sembra accorgersi di colpo della presenza dei clienti e lanciare anatemi sul gregge di idolatri intesi a palpare velluti e broccati tutto rattruppato “ai piedi di quel Sinai sorto dalla collera di mio padre”. In una scena memorabile afferra uno shofar e con rabbia ci soffia dentro per allontanare i clienti, “sconsiderato popolo di Baal” che prende d’assalto il negozio. “Ma la volta non si riempì del fruscio degli angeli accorrenti in soccorso, anzi, ad ogni gemito del corno corrispondeva il grande coro sghignazzante della folla”.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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