Cultura
Ungheria & Democrazia: l’allarme della Rete Ungherese degli Accademici

Riproponiamo questo articolo alla luce degli ultimi avvenimenti – L’Ungheria volta le spalle all’Europa: è il titolo del preoccupante rapporto pubblicato pochi giorni fa e curato da un gruppo di docenti e professionisti

Alla luce degli ultimi avvenimenti in Ungheria, vi riproponiamo questo articolo che raccoglieva il grido d’allerme di intellettuali e accademici ungheresi. I fatti hanno superato quanto qui riportato, ma è interessante rileggerlo per capire meglio la situazione nel Paese.

 

C’è uno Stato semi-totalitario a qualche centinaio di chilometri da casa nostra, e facciamo finta di non accorgercene. C’è un Paese tra i 27 dell’Unione Europea che non è più una democrazia, e non muoviamo un dito per salvarlo da sé stesso.

Parliamo dell’Ungheria. Riflesso condizionato: sì, già sentito, letto un trafiletto sul giornale qualche tempo fa – next news please. Non così facilmente. Perché quello che sta accadendo lassù è una rovina vera per milioni di persone – ed a lanciare il grido d’allarme a tutti noi ora sono gli ungheresi stessi. O per lo meno, in nome loro, un gruppo di accademici rimasti ancora indipendenti e autonomi quanto basta per riuscire a mettere insieme un rapporto organico sullo smantellamento scientifico di qualsiasi forma di libertà o pluralismo nel Paese. Un timelapse agghiacciante della distruzione pezzo dopo pezzo di una democrazia negli ultimi dieci anni.

L’Ungheria volta le spalle all’Europa, s’intitola significativamente il rapporto, pubblicato pochi giorni fa e curato da un gruppo di docenti e professionisti riuniti sotto l’ombrello della Rete Ungherese degli Accademici. Arte, cultura, educazione, ricerca scientifica, media: gli estensori analizzano la situazione in cui versano tutti i campi della produzione e diffusione di conoscenza in Ungheria, e il panorama è devastante.

Da quando nel 2010 Viktor Orbán si è insediato al potere (dopo un primo mandato tra il 1998 e il 2002), il sistema autocratico costruito e raffinato mese dopo mese dal partito di governo Fidesz sta anestetizzando la società, e le resistenze che incontra sono sempre più flebili. La centralizzazione ossessiva di ogni processo decisionale è il primo degli strumenti adoperati per raggiungere quest’obiettivo, tipico di qualsiasi regime fascista. Le leve del potere politico sono ben più incisive di quanto spesso si denunci, in fondo. La governance di ogni iniziativa in ambito culturale è stata portata al più alto livello e sotto il diretto controllo del governo – spesso nelle mani di burocrati senza alcuna competenza nel settore. L’unico criterio d’interesse, d’altra parte, è la fedeltà al regime (difficile usare altri termini) delle persone-chiave e la funzionalità al disegno propagandistico di Orbán di qualsiasi progetto. Il risultato, spiegano gli estensori del rapporto, è la politicizzazione totale di ogni azione culturale, ma spesso anche la produzione di singole decisioni completamente irrazionali o platealmente disfunzionali.

La propaganda stessa, d’altra parte, è una potentissima arma di penetrazione culturale: dalla scuola all’università, dall’arte ai media, da dieci anni il regime di Fidesz occupa spazi sempre più ampi di trasmissione di informazioni o conoscenza per veicolare il suo messaggio “unico”. Quello arcinoto della tradizione bianca e cristiana (ma di quale cristianesimo, esattamente?), magiara nello specifico, da proteggere ad ogni costo dai suoi nemici stranieri: banchieri, migranti, islamici, rom, chi più ne ha più ne metta.

Sul piano mediatico, l’operazione è quasi giunta a compimento: il 75% del mercato dell’informazione, calcolano gli estensori del rapporto, è oggi direttamente o indirettamente sotto il controllo del governo: quel tanto che basta, come ha notato di recente Timothy Garton Ash, per poter permettere ad Orbán di negare di aver azzerato del tutto la libertà d’espressione. Ma il disastro è sotto gli occhi di tutti: quasi tutti i giornali o le tv indipendenti hanno chiuso o sono stati comprati da imprenditori vicini a Fidesz, e gli spazi rimasti vuoti vengono riempiti da tabloid di bassa qualità che ripetono spesso a macchinetta gli slogan e stereotipi spacciati dal potere.

Perfino più drammatica, per le conseguenze sul futuro, è l’occupazione politica della scuola e dell’università. “L’educazione pubblica non è più in grado di formare i giovani a diventare membri interessati, aperti e orientati al futuro di una società della conoscenza”, denuncia la rete di accademici. È il risultato della nazionalizzazione progressiva di tutte le scuole locali, dell’abolizione di qualsiasi organo consultivo e dell’imposizione di curricula di studi sempre più infarciti di retorica reazionaria. La vita di maestri e professori, in parallelo, è resa pressoché impossibile: stipendi da fame, carico di lavoro didattico e amministrativo esagerato.

Quanto all’educazione superiore, il caso ben noto della Central European University, l’ateneo internazionale finanziato da George Soros, è solo l’emblema di un approccio capillare: università e dipartimenti sono stati portati sotto il controllo diretto esecutivo e finanziario del governo, e l’accesso ai corsi di laurea reso sempre più difficile e svantaggioso. L’ultima pietra dello scandalo è stata lo svuotamento del ruolo storicamente rivestito dall’Accademia Ungherese delle Scienze. La riforma del sistema scientifico le ha infatti tolto la supervisione sulla rete nazionale di ricerca per assegnarlo ad un organo alle dirette dipendenze del governo e presieduto dal consulente scientifico personale del primo ministro. Superfluo ricordare le conseguenze di tale “riforma” sulla libertà, qualità e attendibilità della produzione scientifica conseguente, ivi compresa quella storiografica tanto centrale per la costruzione propagandistica di Orbán.

Oliati i meccanismi – centralizzazione della governance, prosciugamento dei finanziamenti alle realtà “sospette”, nomine di uomini fidati – non c’è campo della cultura che negli ultimi dieci anni sia stato risparmiato dalla bulimia di controllo del potere centrale: dal teatro alla letteratura, dal cinema alle belle arti. L’unica eccezione, non certo incoraggiante, è rappresentata dall’ambito della protezione dei monumenti nazionali. Qui lo smantellamento deciso fin dal 2012 dell’organo centrale che era deputato a tale compito ha lasciato spazio semplicemente al caos: l’assenza di alcuna visione d’insieme o di preparazione professionale, notano gli autori, ha prodotto il vuoto di protezione istituzionale del patrimonio monumentale.

Questa è l’Ungheria dei primi Anni 20: non quelli del Novecento, questi. Questo è il profilo del sorridente magiaro che s’intende al volo con l’aspirante primo ministro italiano Matteo Salvini, cui a Roma hanno steso il tappeto i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, e che ha invitato a pranzo il “vecchio saggio” (?) Silvio Berlusconi. Questa, Fidesz, è la formazione che il Partito Popolare Europeo, ancora e dopo anni, non riesce a decidere se tenere al suo interno o espellere.

Davvero questa è ancora una democrazia? Davvero ha ancora senso tenere in vita la farsa che vuole quest’Ungheria ancora parte dell’Unione Europea da cui trae fondi cospicui di cui il sistema-Orbán beneficia ogni giorno? Cosa dovrebbe fare l’Ue, l’Italia, ciascuno di noi per frenare questa deriva intollerabile? Sono domande difficili, dolorose, cui al lettore resta la risposta. Ma della questione dobbiamo prenderci cura ed occuparci, prima che sia troppo tardi. Perché come afferma il piccolo gruppo di docenti che ha prodotto questo scientifico, disperato documento, “le istituzioni culturali autonome e i professionisti che esse impiegano hanno sofferto perdite enormi, si sono esauriti nell’affrontare la resistenza, e non hanno più che poche energie”.

Simone Disegni
Collaboratore

Politologo di formazione, giornalista di professione, si occupa in particolare di politica italiana ed europea. Già impegnato nel lancio del festival Biennale Democrazia a Torino e del think-tank ThinkYoung a Bruxelles, lavora per Reset e Good Morning Italia e collabora con altre testate nazionali.


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