Cultura
Uva passa, passolina, sultantina, uva di Zibibbo, uvetta… Storia di un ingrediente prezioso

I mille usi dell’uva essiccata nella tradizione ebraica

Che cosa hanno in comune un kugel tedesco, delle triglie romane in agrodolce, un babanatza greco e un frisinsal veneziano? Oltre naturalmente a essere piatti di origine ebraica, si tratta di preparazioni che prevedono tra gli ingredienti un piccolo quanto prezioso prodotto: l’uvetta. Chiamata anche uva passa, passolina, di Corinto, sultanina, di Zante o di Zibibbo, già con le tante denominazioni possibili denuncia la propria diffusione. Anche in luoghi lontanissimi tra loro. Uscendo dall’Europa, agli esempi già fatti si possono accostare piatti come il malida, riso zuccherato indiano arricchito con cocco e frutta, o lo jaaleh, spuntino yemenita consumato per Shabbath, o ancora diverse versioni di charoset, l’ashure turco o il plov, il riso pilaf uzbeko. Tanto per farsi un’idea della loro onnipresenza, basta fare una veloce ricerca su uno dei testi di riferimento sulla cucina ebraica, The Book of Jewish Food della studiosa di origini egiziane Claudia Roden. Bene, la parola “raisins” vi compare la bellezza di 237 volte, equamente distribuite nelle sezioni dedicate alla cucina dell’Europa nord-orientale o mediterranea, del Nord Africa, dei Balcani, del Medio Oriente e dell’India.

Discrete ma decisive nel dare carattere a una pietanza, quelle che d’ora in poi indicheremo genericamente come uvette hanno più di un motivo per essere protagoniste nella cucina ebraica. Si va da ragioni storico-geografiche ad altre economiche, oltre naturalmente a quelle squisitamente gastronomiche. Partiremo dalle prime, facendoci aiutare dalla leggenda o anche semplicemente dal buon senso quando la storia è lacunosa.
Premesso che una trattazione completa dell’argomento dovrebbe toccare anche il frutto da cui tutto ha origine, cioè l’uva, diciamo subito che eviteremo qui di approfondire il tema, già affrontato altrove. E salteremo quindi direttamente alla sua versione essiccata. Come ci si sia arrivati non è così sicuro, ma è intuibile. Lo storico del cibo Gil Marks, che all’uvetta dedica una voce importante della sua Encyclopedia of Jewish Food, colloca la nascita di questo prodotto nel Levante di circa quattromila anni fa. Non potendo contare su testi sul tema, immagina che si fosse trattato come spesso capita di un caso. Qualcuno aveva probabilmente notato che le uve rimaste ad appassire sulla vite erano ancora commestibili e aveva così pensato di sfruttare la cosa per farne una buona scorta. Tra l’altro anche più dolce e più trasportabile del prodotto fresco. Col tempo, si sarebbero individuate anche le uve più adatte allo scopo. Le tipologie più comuni giunte fino a noi sono la moscato, la sultanina e quella di Corinto. La prima è forse la più antica, ha chicchi grandi, dolci e dotati di semini. Ne è priva invece la sultanina, nome con cui di solito si indica l’uva passa, ma che propriamente è solo una tipologia di frutto. Nata in Turchia e portata in forma essiccata in Europa dagli inglesi, secondo una leggenda sarebbe nata grazie… a una tigre. Si racconta infatti di un sultano che mentre stava mangiando un grappolo di uva era stato sorpreso da una belva. Fuggito a gambe levate, avrebbe lasciato il suo spuntino a seccare al sole. Ritrovatolo poi più dolce e appetibile, avrebbe dato il via alla produzione di uva passa. Infine, l’uvetta di Corinto proviene da una varietà nata nell’omonima città greca e si riconosce dai chicchi piccoli, scuri e senza semi.

Passando alle fonti, si parla di uvetta fin nel Pentateuco. Chiamata in ebraico tzimukim, dal verbo che significa avvizzire, fa parte del patrimonio alimentare degli ebrei fin dalle origini e con la diaspora ha continuato ad arricchirne i pasti in ogni angolo del globo. Tanta affezione è legata anche alle attività produttive e commerciali delle popolazioni ebraiche. Molti dei vigneti dei paesi musulmani erano infatti coltivati da ebrei, che si occupavano anche della essicazione delle uve e della loro esportazione. Il commercio avveniva sia all’interno del mondo arabo sia in Europa, dove già da tempo l’uvetta faceva parte delle abitudini delle famiglie sefardite. A questo proposito va ricordato che all’epoca, e nei diversi secoli successivi, l’uvetta era perlopiù riservata alle grandi occasioni o a Shabbat. Le ragioni erano sia simboliche sia pratiche. Innanzi tutto, parliamo di frutti dolcissimi. Una caratteristica che li rende perfetti per augurare un felice anno nuovo a Rosh Hashanah, così come un futuro luminoso in occasione di una festa di nozze. È questo il caso delle celebrazioni in uso presso i marocchini, quando lo sposo invia alla sposa e ai suoi ospiti un vassoio colmo di uvette, mandorle e dolciumi. Ed è sempre la dolcezza delle passoline a giustificarne l’impiego nei piatti del sabato. La componente zuccherina risulta infatti provvidenziale nel compensare il gusto acidulo dei piatti freddi conservati sott’aceto, primi tra tutti gli escabeche di scuola sefardita. Pare inoltre che l’impiego dell’uva passa fosse rimasto nelle abitudini dei discendenti americani dei conversos anche quando questi erano ormai ignari delle proprie origini ebraiche.

Ma l’uvetta è protagonista come si è visto anche nella cucina ashkenazita. Introdotta nell’Europa cristiana intorno all’anno Mille, nel XIV secolo si era diffusa dal Levante e dalla Spagna al resto del continente, affermandosi come la frutta secca più utilizzata. Alla base di innumerevoli pietanze degli europei del Nord e dell’Est, le uvette erano qui come altrove riservate alle occasioni di festa, da Rosh Hashanah a Sukkot e Purim, finendo in kugel e challot, cavoli ripieni e carpe in salsa. L’impiego in un certo senso eccezionale era in questo caso legato anche a ragioni economiche. Trattandosi di prodotti di importazione, erano infatti più costose di altra frutta coltivata localmente come ad esempio le prugne.

La diffusione dell’uvetta è attestata dai modi di dire, dai riti e persino dalle canzoni popolari. L’esempio più eclatante è la frase con cui si rispondeva in yiddish a una insolenza e il cui significato era sostanzialmente questo: “Forse che la mia anima è un’uvetta?”. Se in questo caso si puntava agli aspetti meno nobili del prodotto, in un altro se ne metteva in risalto il lato più desiderabile. Parliamo di Rozhinkes mit Mandlen, ossia “uva passa con mandorle”, ninna nanna ebraica tradizionale resa popolare nell’arrangiamento di Avram Goldfaden per il musical yiddish Shulamis del 1880. Qui l’uvetta era di buon augurio per il bambino, che sarebbe cresciuto forte e sano. Sempre ai bambini ashkenaziti l’uvetta veniva donata, insieme a noci e qualche soldino, in occasione di Hannukah, mentre il sabato precedente al matrimonio lo sposo veniva accolto da una pioggia di questi stessi frutti secchi, auspicio di buon matrimonio, fertilità e dolcezza.

Uscendo anche se solo relativamente dai simbolismi, l’uvetta è stata usata anche per realizzare sciroppi e vini. Parliamo in particolare dell’arrope de pasa, lo sciroppo a base di uvetta che un tempo sostituiva dolcificanti come il miele. Gli ebrei sefarditi facevano bollire la frutta secca per ore nell’acqua e, in occasione di Pesach, servivano la salsa ottenuta come accompagnamento delle frittelle di azzime oppure per completare il charoset.
Passando ai vini, anche qui si è spesso fatto di necessità virtù. In molti paesi del Nord Europa così come nella Penisola Arabica e in India, mancando l’uva fresca necessaria a realizzare del vino kosher, si usava al suo posto l’uvetta. Stessa cosa facevano i conversos, che per evitare i vini cattolici producevano autonomamente il vino per Pesach, o gli ebrei giunti in America alla fine dell’Ottocento. Mancando ai tempi una produzione locale di vino d’uva kosher adatto alle benedizioni, si provvedeva con il fai da te casalingo. Pare che l’uso di celebrare usando un vino passito o comunque dolce sia rimasto anche dopo la diffusione dei primi vini kosher prodotti da vitigni autoctoni statunitensi.

Babanatza

Ingredienti:
480 g di uvette
6 uova grandi
240 g di zucchero
180 g di miele
360 g di semola fine
240 g di mandorle o noci
2-3 mele
vino dolce

Mescolare qualche cucchiaio di vino dolce in una ciotola di acqua e immergervi l’uvetta lavata. Lasciarla in ammollo per una notte, poi scolarla e frullarla fino a ottenere una crema omogenea.
Montare le uova in una larga ciotola con uno sbattitore elettrico per 5 minuti, poi aggiungervi lo zucchero e il miele, a poco a poco, e lavorare il composto per altri 5 minuti fino a ottenere un composto denso. Aggiungervi quindi l’uvetta, la semola, le mandorle o noci macinate e le mele, sbucciate, pulite e tritate.
Versare l’impasto preparato in una teglia unta o foderata con carta da forno formando uno strato non più alto di un paio di dita, poi cuocerlo in forno già caldo a 180° per circa 1 ora. Sfornare, lasciare raffreddare e sformare. Servire tagliato a cubotti o a losanghe.

Carpa alle cipolle

Ingredienti
1 carpa (1-1,2 kg)
1 limone
olio extravergine d’oliva
sale
pepe 

Per la salsa:
3 cipolle
70 g di uvetta
1 cucchiaio di zucchero
50 g di burro
½ cucchiaino di cannella
2-3 chiodi di garofano
½ cucchiaino di zenzero macinato
½ cucchiaino di paprica
250 ml di vino bianco secco
½ cucchiaino di sale

Pulire il pesce privandolo delle interiora e dalle squame, poi lavarlo con cura e asciugarlo tamponandolo con carta da cucina. Praticarvi poi diversi tagli paralleli su ciascun lato, spruzzarlo con il succo del limone e lasciarlo marinare al fresco per 30 minuti.
Sbucciare intanto le cipolle, affettarle e farle rosolare nel burro in una larga padella a fiamma bassa. Bagnarle con il vino e unirvi l’uvetta lavata con lo zucchero, il sale e tutte le spezie indicate. Abbassare la fiamma al minimo e lasciare sobbollire per circa 5 minuti.
Scaldare 2 cucchiai di olio in un’altra padella antiaderente, unirvi la carpa scolata dal succo di limone e farla dorare a fiamma viva per pochi minuti per lato, poi prelevarla e trasferirla in una teglia. Coprirla con la salsa alle cipolle preparata a parte e trasferirla in forno già caldo a 180°. Cuocere infine per circa 1 ora.

 

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


1 Commento:

  1. Nella nostra famiglia di origine libiche(Tripoli) mia madre usava far bollire lo zibibbo ricavandone poi una bevanda che diveniva il vino per noi bambini durante il Seder di Pesach, utile anche per impastare il Charoset e renderlo morbido. Invece con il residuo della spremitura degli acini bolliti fatta attraverso un panno bianco, cucinava una pietanza,una sorta di stufato di carne in agrodolce.


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