L’artista italo-israeliana sta per lanciare il suo lavoro sul gett, il divorzio, a partire da un fatto personale che le ha cambiato la vita. E a JoiMag racconta perché
Agunot, letteralmente “ancorate” o “incatenate”: è la parola con cui nell’ebraismo si definiscono le donne che restano vincolate, contro la loro volontà, a un matrimonio che di fatto è finito. Succede quando l’uomo rifiuta di concedere il cosiddetto gett (divorzio), impedendo alla donna di rifarsi una vita. Un abuso di potere che può durare anni, o anche non concludersi mai. Dopo averne parlato in questo articolo, presentiamo qui una prospettiva personale, attraverso una storia che arriva da Israele. Dea, artista italo-israeliana (conosciuta anche come Shazarahel), ha vissuto come agunah gli scorsi due anni e ha trasformato la sua esperienza in un progetto artistico di prossima uscita. Ecco che cosa ci ha raccontato.
Ci racconta la sua esperienza?
Sono stata agunah per due anni. Una situazione nella quale non mi sarei mai aspettata di trovarmi. Quando ho aperto le pratiche di divorzio e ho espresso al mio rabbino il timore che mio marito potesse rifiutare il gett, lui mi ha rassicurata dicendo che oggi le cose sono cambiate, che il Rabbinato ha gli strumenti per intervenire e tutto sarebbe stato facile. E invece non è andata così. Mio marito rifiutava di darmi il gett e io non avevo alcuno strumento di tutela.
Dopo un anno, esasperata, ho deciso di compiere un atto di rottura forte e pubblico. Ero molto religiosa, avevo vissuto in un moshav religioso per sette anni e per ben dieci ho portato il kissui rosh (il velo con cui le donne ebree religiose si coprono il capo dopo il matrimonio). Sono andata dal rabbino del moshav e gli ho comunicato la mia decisione di toglierlo. Siccome mio marito, benché già da un anno vivessimo separati, continuava a definirmi davanti agli altri “mia moglie”, togliere il kissui rosh era il mio gesto personale per dichiarare pubblicamente che no, io non ero più sposata. Il rabbino ha reagito dicendomi che ciò avrebbe complicato ulteriormente la mia situazione. Avrei infatti acquisito lo status di isha moredet, ovvero “donna ribelle”, perdendo il diritto alla ketubah (i diritti previsti dal documento di matrimonio) e fornendo a mio marito il diritto a rifiutarmi il gett.
Ero fuori di me, ho chiesto per ben tre volte al rabbino se secondo la Halakhà fosse lecito tenere legata a sé una persona contro la sua volontà. Ha chiuso gli occhi e non mi ha risposto. Il kissui rosh, l’ho tolto davvero. È stato un gesto forte. Si sente dire spesso che le donne ebree, a differenza delle musulmane, sono completamente libere di scegliere. Ma la verità è che scegliere di toglierlo, dopo averlo portato a lungo e aver vissuto in un ambiente religioso, ha delle conseguenze sulla propria vita. Se mi fossi presentata a scuola con il capo scoperto, le mie figlie sarebbero state espulse (e comunque sono state emarginate dalle amiche).
E poi cos’è successo?
Mio marito ha sfruttato in ogni modo il mio status di isha moredet per ricattarmi. È stato un incubo: il rifiuto del gett è un’arma per mantenere il potere sulla donna; essere vista in compagnia di un uomo può essere una prova per il tribunale rabbinico di una nuova relazione. E per una cosa del genere possono togliere alla donna la custodia dei figli.
Come è finita?
Ho finalmente ottenuto il gett un mese e mezzo fa, ma al prezzo di accettare tutte le condizioni imposte dal mio ex marito. Erano scritte sul foglio che mi hanno fatto leggere alla fine del processo: rinuncia alla ketubah, alle mezonot (alimenti) e all’educazione delle bambine, più l’obbligo di custodia condivisa. Non ci ho visto più e ho letteralmente lanciato la ketubah addosso ai rabbini, gridando: “Dov’è la giustizia?”. E loro mi dicevano: “Signora, lei ha ragione…”. “Non mi serve avere ragione! Se ho ragione, fatemi giustizia!”, avevo risposto loro. Sì avevo ragione, ma per poter essere libera, alla fine, quel foglio ho dovuto firmarlo.
Conosceva la realtà delle agunot prima di farne parte?
Per niente, vivevo in una bolla. È un argomento di cui non si parla, se ne prende coscienza solo quando si è coinvolte. Condividevo anch’io quella diffusa convinzione ottimistica secondo cui “oggi è diverso, i tempi sono cambiati, i mariti vanno in prigione…”. È vero, la legge israeliana prevederebbe il carcere per i mariti che rifiutano il gett, ma in pratica si conosce solo un caso in cui sia stata applicata. Il mio divorzio ha cambiato molto la mia percezione, come donna, della realtà e della società. Nel momento in cui ho osato oltrepassare la misgeret, la cornice dei confini entro i quali una donna perbene deve restare, ho capito in quale società patriarcale e maschilista mi trovassi.
Da agunah poi ho scoperto un altro mondo: le persone si aprono, hanno bisogno di raccontare le proprie storie. Come una volta che ero dal parrucchiere, un ragazzo francese, il quale al sentire che ero agunah mi ha raccontato del suo mancato matrimonio: era già tutto pronto, ma all’ultimo le nozze sono andate a monte perché si è scoperto che lui era mamzer (figlio illegittimo). Era nato infatti dal secondo matrimonio della madre, che si era risposata civilmente senza aver ottenuto il gett dal primo marito.
Come si potrebbe cambiare la situazione?
Penso che il primo passo sia prendere coscienza della gravità del problema, smettere di illuderci che abbiamo gli strumenti legislativi per tutelarci e che il Rabbinato difende i diritti delle donne. Perché non è vero. Noi donne siamo lasciate sole con noi stesse. Le associazioni spesso chiedono soldi o si rivolgono a categorie specifiche (come le harediot, le ultraortodosse), perciò anche sul versante della società civile non si riceve molto supporto.
Gli accordi prematrimoniali sono uno strumento utile, ma non tutelano al 100%. Ci vorrebbe prima di tutto un cambiamento di mentalità. Da parte delle agunot che spesso si mostrano rassegnate, vivono la loro situazione come ingiusta ma allo stesso tempo normale. E soprattutto da parte della società. Le difficoltà che ho vissuto io non sono prerogative degli ambienti religiosi. Ho aperto il dossier del divorzio al tribunale civile prima di andare a quello rabbinico e ho trovato lo stesso identico maschilismo. E durante il periodo in cui sono stata agunah, la preoccupazione maggiore della gente, amici compresi, era solo che io non mi mettessi a frequentare un altro uomo.
Ha scelto di raccontare la sua esperienza di agunah in un progetto artistico: di che cosa si tratta?
È un progetto al quale ho iniziato a lavorare quando ero ancora agunah. Si tratta di un disco di techno-progressive al quale si unisce un video di protesta, intitolato Remove The Veils. Uscirà a breve e mi aspetto che faccia rumore, perché ho scelto uno stile molto provocatorio, ma è quello che voglio. Ho scelto di non pensare alla mia esperienza come a una parentesi brutta della mia vita da dimenticare, ma di trasformarla in qualcosa di utile. Essere artista vuol dire essere la voce della società in cui si vive. L’arte ha uno scopo spirituale, sociale, politico. La mia speranza è contribuire alla conoscenza del problema, per le donne che devono tutelarsi e per la società che deve cambiare. Uno degli incoraggiamenti più importanti l’ho ricevuto dal regista Shlomi Elkabetz (autore del film Gett – Il processo di Viviane Amsalem, incentrato appunto sul dramma di una donna agunah) al quale ho mostrato il mio lavoro, chiedendogli se il suo film avesse aiutato a smuovere le acque. Mi ha risposto che ci sarebbero tantissime storie da raccontare in merito e che il linguaggio dell’arte può fare piccoli miracoli. Io parto dal mio vissuto personale, ma non parlo solo alle donne ebree. La condizione di agunah è una delle tante manifestazioni di abuso di cui sono vittime le donne ovunque, in ogni cultura e società. Per questo la mia è una protesta universale.
Laureata a Milano in Lingue e Culture per la Comunicazione e la Cooperazione Internazionale, ha studiato Peace & Conflict Studies presso l’International School dell’Università di Haifa, dove ha vissuto per un paio d’anni ed è stata attiva in diverse realtà locali di volontariato sui temi della mediazione, dell’educazione e dello sviluppo. Appassionata di natura, libri, musica, cucina.
Trovo questo racconto molto toccante e penso e spero possa far riflettere tutte noi donne perché in ogni famiglia la parità dei sessi possa essere riconosciuto come” normale”! Auguro un strepitoso esordio sia con il video che con il film ! Forza Rahel! Ti abbraccio e sono fortunata ad averti conosciuta!
complimenti vivissimi per l’articolo.
Avv Mario Pavone
mariopavone54@gmail.com
Infotel 333 3416146
Questa storia avrebbe per me dell’incredibile, se qualche anno fa non avessi visto un film che narrava le vicissitudini ( durate molti anni ed analoghe a quelle narrate qui, e, credo, anche quelle tratte da storia vera) di una donna che potè ottenere il divorzio solo a patto di mai più potersi sposare (nè tanto meno convivere). Chiesi ad una cara amiche che vive in Israele da decenni se non fosse possibile sposarsi solo civilmente. Mi rispose che no, che per questo bisognava recarsi a Cipro. Credo che la questione possa essere affrontata proprio da questo punto: la divisione tra Stato e Religione, in altri termini la laicizzazione dello Stato, che nulla togliendo alla fede religiosa, crei però spazio alla libertà e dignità umana, che, se non sbaglio, furono tra i principi fondanti lo Stato d’Israele.
È un articolo fuorviante che offre solo un aspetto della vicenda. Senza niente togliere alla problematica realtà delle agunot, esistono molti mezzi di tutela prematrimoniali che molto probabilmente la signora non ha pensato di dover mettere in atto. L’ingenuità di uno non può permettersi di condannare un’intera società offrendo solo un lato della storia. È imparziale e dannoso, e non solo per questo argomento
Su segnalazione di una mia conoscente a Gerusalemme sono vari anni che sostengo l’organizzazione israeliana Mavoi Satum che aiuta psicologicamente , legalmente e materialmente le Agunot , le volontarie fanno un lavoro veramente efficace, per chi volesse contribuire o semplicemente informarsi questo è il sito mavoisatum.org
è un articolo molto interessante, e ciò che più colpisce è la volontà di questa signora di far sì che “il personale diventi politico”
fantastica esperienza per una rivoluzione spirituale e concreta!!!!!!!!!!!
Brava Rahel…