Cultura
100 equivoci e stereotipi filosemiti. In mostra a Vienna

Si intitola “100 Missverständnisse über und unter Juden”, ossia: 100 equivoci su e tra gli ebrei, l’esposizione al museo ebraico della città austriaca

A differenza di quanto riguarda l’antisemitismo, gli stereotipi filosemiti sono stati finora poco indagati. Il Museo Ebraico di Vienna intende finalmente affrontarli con una esposizione in corso fino al 4 giugno 2023 e intitolata 100 Missverständnisse über und unter Juden, ossia: 100 equivoci su e tra gli ebrei.
L’obiettivo dichiarato non è quello di dissipare i pregiudizi contro gli ebrei, bensì di chiedersi quali siano le idee sbagliate che ne sono alla base e di contrastarle mettendone in discussione i fondamenti, possibilmente con una certa dose di ironia. La mostra al museo di Dorotheergasse procede così sia sul piano storico sia su quello ironico, trattando come recita il titolo un centinaio di idee sbagliate e suddividendole in sette capitoli. Si passa così dalla romanticizzazione dell’ebraismo all’idea che tutto ciò che è ebraico debba passare dalla Shoah, dalle trasgressioni linguistiche o morali a quello che viene definito dai curatori un vero e proprio voyerismo nei confronti di donne e uomini ebrei fino alla stereotipizzazione e all’appropriazione dell’ebraismo, in particolare a partire dall’Olocausto.

Jean Paul Gaultier, Collection Juive, 1993

 

Il processo di analisi e di destrutturazione dei pregiudizi procede di sala in sala attraverso l’esposizione sia di oggetti e di opere d’arte sia di immagini e di documenti. Si va dall’immagine della collezione Chic Rabbis di Jean-Paul Gaultier, che nel 1993 aveva creato una serie di abiti ispirati a quelli degli ebrei ortodossi, alla riproduzione firmata da Simon Fujiwara dell’abito-tutina azzurrino che Beyoncé aveva indossato nel 2014 in occasione della sua visita al Museo Anne Frank di Amsterdam. Dopo che la cantante aveva pubblicato la propria foto con questa mise sul suo profilo Instagram, il vestito, in origine del marchio Topshop, era andato esaurito in tutto il mondo. Intitolata What Beyoncé wore to the Anne Frank House, l’istallazione del 2018 di Fujiwara presenta invece un pezzo unico, realizzato con un patchwork irripetibile di tessuti. L’opera gioca sull’ambiguità di quanto accaduto e sulla connessione tra buone intenzioni e questioni meramente consumistiche, nonché sulla mercificazione dei simboli attraverso la loro diffusione sui social media.

Cary Leibowitz 2001; Photo Courtesy The Artist New Directions

Non manca poi l’ironia di opere come quella del 2001 dell’artista visivo Cary Leibowitz intitolata Do theese pants make me look Jewish? e costituita da questa stessa scritta tracciata in caratteri fucsia su fondo rosa o del neon Endsieger sind dennoch wir (Tuttavia, siamo noi i vincitori finali) dell’installazione luminosa del 2021 firmata da Arye Wachsmuth e Sophie Lillie o, ancora, la serie di rossetti allineati su una borsetta dorata matelassé della Chanel Hanukkah di Cary Leibowitz e Rhonda Lieberman del 1991.

Tra i temi affrontati non poteva mancare la stessa denominazione di “ebrei”, che dopo più di 75 anni dal regime nazista viene ancora associata alla vergogna da molti, gli stessi che sostituiscono il termine con espressioni tipo “concittadini ebrei” o “popolo ebraico”. Nessuno mette in dubbio che le intenzioni siano buone, e che si voglia con questo evitare discriminazione ed emarginazione, ma il risultato è spesso esattamente l’opposto. Con le donne e gli uomini ebrei ritenuti sempre in qualche modo altro rispetto a un “noi” che invece non avrebbe bisogno di un aggettivo. Qui l’equivoco denunciato è l’idea, tipicamente nazionalistica e ottocentesca, che la popolazione ebraica sia altra, immigrata, rispetto a una presunta autoctona. Un concetto ampiamente confutato dalla storia, che mostra come tutti gli abitanti di una regione in tempi più o meno remoti vi siano giunti comunque da un altro luogo.

Debora Kass, Double Ghost Yentl (My Elvis), 1997. Courtesy the artist and Kavi Gupta; Photograph by John Lusis

Che le visioni scorrette e frutto di pregiudizio siano quanto mai attuali è dato anche dai recenti dibattiti sulle norme di prevenzione alla diffusione del Covid o alle politiche vaccinali, con i no vax che hanno fatto propria una narrazione di vittima ebraica. Allargando il campo di analisi, la mostra affronta l’idea che tutto quello che ha che vedere con l’ebraismo finisca con l’essere osservato sotto una lente luttuosa o idealizzato in forma romantica.
Oltre ai già citati social media, alla moda e alla pubblicità, tra i principali strumenti di diffusione dei pregiudizi la mostra cita anche il cinema, la televisione e, con una buona dose di autocritica, i musei ebraici. Lo stesso ente che ha realizzato la mostra sotto la guida della direttrice Barbara Staudinger e del curatore capo Hannes Sulzenbacher si mette sotto processo e si accolla la responsabilità, pari a quella di tante altre istituzioni analoghe in tutto il mondo, di avere contribuito a rafforzare, nel passato come nel presente, le immagini stereotipate sugli ebrei. Anche in questo caso il discorso finisce con l’estendersi agli ebrei in genere e alla percezione che hanno di se stessi. Come riportato dalla nota stampa della mostra, sarebbe lo stesso obbligo di solidarietà interna all’ebraismo o l’idea di una storia tutta ebraica ad avere portato gli ebrei a sviluppare di sé e degli altri un’immagine che spesso non reggerebbe a un esame critico.

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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