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Israele e il governo del Signor B.

Analisi e previsioni su un esecutivo che con tutta probabilità non avrà vita lunga… E che tra 18 mesi prevede un passaggio della staffetta tra Bibi e Gantz

Domenica 24 maggio Benjamin Netanyahu, in tutta probabilità, dovrà partecipare in aula all’apertura del processo a suo carico. Non sarà l’unico procedimento, per intenderci. Poiché da tempo, in Israele, si è aperto un feroce conflitto tra esecutivo e giurisdizionale. Al pari di molti altri paesi a sviluppo avanzato. Facciamocene una ragione, al netto della specificità di ogni caso. In quanto il nostro tempo non è più, in misura esclusiva, il confronto tra culture politiche contrapposte ma il conflitto tra giurisdizioni: in questo caso, da una parte l’esecutivo, identificato con un “capo”; il resto, con le prerogative della magistratura (un ordinamento, non propriamente un potere – quello giuridico – di cui ne incarna solo alcuni aspetti, non tutti, ma spesso in misura pressoché esclusiva).

Intanto, il “Signor B.” è riuscito finalmente a varare il suo quinto governo, quello delle sliding doors, che prevede il passaggio della staffetta con Benny Gantz («the alternative Premier») tra diciotto mesi. Se mai dovesse avvenire, poiché una delle abilità di «King Bibi» è di muoversi giorno dopo giorno, reputando il tempo corrente come l’ultimo possibile (per poi presentarlo come tale ai suoi elettori e sostenitori) ma, al medesimo tempo, al pari di un’opportunità che si fa piattaforma dalla quale costruire prospettive. Netanyahu conta sulla sfiancamento dell’ex generale, suo alleato nemico; il suo avversario, confida nell’usura del tempo (e della magistratura). La longevità politica di Bibi, al netto degli infiniti giochi di potere che lo accompagnano, si inscrive in questa feroce dialettica. Di cui è regista assoluto. Piaccia o meno. Poiché quanti avrebbero potuto contrastarlo da molto tempo non ci sono più. A partire da Ariel Sharon, scomparso dalla scene pubbliche già quindici anni fa.
Dopo alcuni giorni di mediazioni (e tergiversazioni) supplementari, alla fine è stato varato un megagoverno, composto di ben trentaquattro titolari di ministeri e sedici vice. Si tratta del prodotto di quello che in Italia si chiama «manuale Cencelli»: un esercizio di equilibrismo, tra deleghe e loro spacchettamenti, per intenderci. Il ritardo è stato generato dalla maretta nel Likud, dove quei prominenti del partito che erano rimasti a bocca asciutta, hanno esercitato la loro ultima levata di scudi, ottenendo quanto cercavano oppure rimanendo a bocca asciutta. Il rischio di non ottenere i voti parlamentati alla Knesset, ha quindi obbligato il Premier incaricato a ritessere la trama dei dicasteri.

Per ciò che resta di Blu e bianco, la grande lista elettorale nel frattempo già dissoltasi attraverso la scomposizione dei suoi tre partiti originariamente confluiti in un’unica piattaforma anti-Netanyahu, le cose sono invece state più semplici. Nell’accordo con tra Bibi e gli oramai ex anti-Bibi, questi ultimi sono stati “premiati” con ministeri di rango: Gantz alla Difesa; Ashkenazi (anch’egli già capo di stato maggiore delle Idf) agli Esteri; Avi Nissenkorn, già segretario generale dell’Histadruth, passato dai laburisti ad Hosen L’Yisrael («Partito della resilienza d’Israele», la formazione elettorale di Gantz, attualmente a quindici deputati in Parlamento), alla Giustizia. Forse la carica più importante, almeno dal punto di vista simbolico, e che come tale ha interessato una parte della stampa internazionale (che assai poco conosce delle dinamiche interne ad Israele) è la nomina all’Immigrazione di Pnina Tamano-Shata, giovane avvocata e già esponente di Yesh Atid, il partito centrista e secolarizzante di Yair Lapid, poi entrata in Kahol Lavan. Tamano-Shata, di origine etiope, arrivata in Israele nel 1984, grazie all’operazione Mosè realizzata dal Mossad,rappresenta quella parte del Paese che si sente come la meno avvantaggiata. Oggi, il governo del binomio Netanyahu-Gantz, un tandem che probabilmente si spaccherà prima o poi (ma decisivo è il comprendere quale sarà il punto di rottura), conta su ben settantadue voti parlamentari su centoventi. Un record, per Israele. Proprio per questo, in tutta probabilità, destinato a non durare.

L’esito, al netto della specificità di questa tornata politica, rivela che la costituzione di una piattaforma politica di opposizione – quella di Blu e bianco – basata su un esclusivo obiettivo, il veto a Netanyahu, non poteva, né è poi riuscita nei fatti concreti, risultare vittoriosa. Sia perché il sistema elettorale, e quindi politico, israeliano si basa sulla frammentazione, con un polo di riferimento legato ad un partito a maggioranza relativa (ovvero ad un leader), intorno al quale si deve fare comunque coalizione; sia perché la figura del garante della sicurezza, intesa in senso lato ma declinata come colui che incarna fisicamente la “continuità della Nazione”, è strategica. Da questo punto di vista, l’inquilino di Gerusalemme, aveva già vinto al netto dei successivi risultati elettorali.

Benjamin Netanyahu, rispetto ad una parte del suo Paese, infatti ricopre a pieno titolo un tale ruolo. Ed è improbabile che, a questo punto, le inchieste ancora in corso su di lui, come i processi che vanno ad aprirsi, possano azzerarne il diffuso gradiente popolare. Altro discorso, sarà invece il logoramento che potrebbe intervenire nei tempi a venire. Rimane il fatto che il capo del Likud, quando si sentirà di nuovo accerchiato, aprirà un nuovo fuoco di fila. Nell’età del rapporto diretto tra “capo” e collettività, Netanyahu ha rivestito appieno i panni del leader di prossimità. Come tale, visto al pari del fumo negli occhi da quanti – invece – lo ritengono solo un abile manipolatore, un disinvolto “utilizzare finale” delle strutture dello Stato, piegandole spietatamente ai suoi calcoli di interesse.

Che non sono neanche più quelli del Likud bensì di sé e dei suoi sodali. Anche per questa ragione, il suo conflitto con i vecchi likudnikim, depositari della cultura politica revisionista – tra i quali Reuven Rivlin, il capo dello Stato, ne è la massima espressione – in questi anni è stato così intenso e ben lungi dall’essere ricomposto. Per Netanyahu, che appartiene a pieno titolo alla schiatta dei leader mondiali che fanno politica in morte della politica medesima (il termine appropriato è «populismo» ma è oramai troppo consunto dall’uso inflazionato), la leadership è qualcosa di “oltre” rispetto all’esistente. Detto questo, rimane il fatto che  gli accordi di governo prevedono che le due componenti principali che compongono la maggioranza si vedano riconosciute un uguale numero di ministri. Ragione per cui, il leader del Likud ha dovuto in primo luogo accontentare gli alleati del suo blocco di cinquantanove parlamentari, a partire dai partiti religiosi, lo Shas sefardita, e l’United Torah Judaism aschenazita, cui si è aggiunto un transfuga dall’alleanza di estrema destra Yamina (formazione che invece ha scelto di restare all’opposizione), Rafi Peretz, capo di Bayit Yehudi, che ha ottenuto il portafoglio per Gerusalemme. Poi, lo stesso Netanyahu ha dovuto placare le domande dei membri eletti del Likud, che non hanno comunque ottenuto l’agognato incarico. Tra di essi, non pochi dei dieci “migliori”, tali in quanto scelti alle primarie di partito (come tali, in grado di controllare cospicui pacchetti elettorali).

Netanyahu ha cercato di dare respiro al principio di “fedeltà”, prima ancora che a quello di competenza. Ad esempio, Amir Ohana, già titolare del dicastero della Giustizia nell’uscente esecutivo, molto vicino al Premier, ha ottenuto il ministero della Sicurezza, con un implicito mandato, ossia quello di fare in modo che la polizia – e quindi gli inquirenti – non acceleri troppo nelle ulteriori indagini sul Premier. Del pari, a Yuli Edelstein che, come presidente della Knesset, si era rifiutato a suo tempo di convocarla, nonostante l’ingiunzione della Corte Suprema e la richiesta della maggioranza dei parlamentari, arrivando quindi a dimettersi pur di dar tempo a Netanyahu e Gantz di perfezionare il loro accordo, si è visto conferire il ministero della Sanità, le cui funzioni e prerogative di sono moltiplicate in tempi di pandemia.

In Israele, qualsivoglia istituzione, ministero oppure ente che si richiami alla «sicurezza» (materiale ma anche simbolica, fisica come economica, sociale e civile), ha un suo spazio di azione a prescindere. Mentre Bibi si muoveva a suo agio tra mediazioni e compromessi, cuciture e conflitti, Benny Gantz (diciannove eletti al Parlamento) ha invece faticato a comporre la sua delegazione al governo. Il primo sa bene una cosa: per fare valere la propria posizione, è decisamente meglio avere molti astanti al seguito piuttosto che dovere cercare i “meritevoli”. Anche per questo – si può stare certi – sta meditando l’ipotesi di un regolamento di conti quando si dovesse arrivare alle prevedibilissime frizioni prodotte da un governo che nasce da subito fragile.

I terreni di confronto saranno peraltro molteplici: dagli insediamenti ebraici in Cisgiordania alle stesse tribolazioni giudiziarie di Bibi, dagli effetti economici della pandemia (un numero ufficiale di disoccupati che è quasi quintuplicato rispetto al dato di gennaio 2020; sul piano sanitario, invece, al momento le cose paiono abbastanza soddisfacenti) al rapporto, sempre più divisivo, con le componenti ultra-ortodosse del Paese, le quali non hanno perso, in alcuni casi, l’occasione del Covid-19 per manifestare il loro “scissionismo” di vecchia radice.  Netanyahu si è avvalso, nel passato, della First Lady Sara (una sorta di dioscuro) che, adesso, invece, è invisa a molti. Non solo dalle opposizioni. Sopravanza semmai il figlio Yair, uno dei master della battaglia contro il procuratore generale Avichai Mandelblit, combattuta senza tregua, né rispetto delle regole, soprattutto sui social network. Netanyahu si è per il momento aggiudicato un potere di veto rispetto al filtro governativo per le nomine giudiziarie a venire. In realtà, la forza che da ciò gli deriva, non sta in lui medesimo ma nella debolezza di Gantz, il quale rischia di vedersi sfilare il potere di veto nel Comitato parlamentare che preside a tali decisioni e nel quale il Likud ha un ruolo oramai consolidato. Sul futuro della Cisgiordania, Bibi ha rivendicato non solo il “pieno diritto d’Israele sulla terre della Bibbia” ma anche l’assoluta congruenza con il «piano Trump»: dal punto di vista palestinese, imposizione dell’annessione del 30 per cento dei territori della periclitante “autonomia dell’Anp” in cambio di un temporaneo congelamento della costruzione di nuovi insediamenti. Per inciso, l’accordo di governo prevede che a partire dal 1° luglio Netanyahu possa formulare proposte di annessione. Il tutto, in stretto accordo con gli Stati Uniti, quindi tenendo conto del quadro regionale e internazionale, della necessità di preservare gli accordi di pace esistenti con la Giordania e l’Egitto, nonché dell’ipotesi di stipularne di nuovi con altri Stati arabi.

Francamente, è tuttavia molto improbabile che si proceda per davvero su questa china. Gantz ed Aschenazi nutrono infinite perplessità; la Giordania minaccia pesanti ritorsioni: Egitto e i paesi di osservanza wahhabita tacciono. Netanyahu, per alimentare il consenso, necessita di un richiamo continuativo verso il suo elettorato: un tracciato che non necessariamente sta nel mutamento dello status quo ma, piuttosto, nell’usarlo come bandiera di identità. Anche nel caso di effettive annessioni territoriali a venire, potrà comunque confidare – plausibilmente – sull’assenso, alla Knesset, della destra di Lieberman e Bennet.  Proprio in ciò, Netanyahu è legato a Trump non per il voto ebraico ma per quello “evangelicale”. Quest’ultimo, costituisce un terzo degli assensi all’attuale Amministrazione statunitense, dinanzi alla fragilità crescente di altre parti del suo seguito. Bibi si è interfacciato a questo carrozzone (tra Bible Belt e Rust Belt), anche se in cuore suo diffida delle vocazioni “messianiche” che va esprimendo, facendo un calcolo tra costi e ricavi. La recente presenza del segretario di Stato americano Mike Pompeo in Medio Oriente, si inscrive in questa logica di reciproco sostegno, tra Washington e Gerusalemme. Entrambe sapendo che gli equilibri geopolitici dopo Covid-19, subiranno non solo tensioni ma torsioni. Resta da dire che questo esecutivo è riuscito abilmente a marginalizzare sia l’opposizione di sinistra che quella di destra: a sinistra, Yesh Atid, guidato da Yair Lapid, tenta di creare un’unità con quel che resta dell’“estrema sinistra” ebraica, il Meretz, ed uno stretto raccordo con la Joint List arabo-israeliana, che da sola conta quindici seggi (per intenderci, voti congelati). Il totale da questa  parte assomma a soli trentaquattro deputati. Sulla destra, resta al palo Avigdor Lieberman, leader del Partito Yisrael Beitenu, di impronta secolare e antireligiosa, che pure si credeva l’arbitro della situazione; e restano confinati all’opposizione l’ex ministro della Difesa Naftali Bennet e Ayelet Shaked, già ministro della Giustizia fino al 2019, con il loro gruppo radicale. In tutta probabilità, questo esecutivo non avrà esistenza lunga. Ma tra il suo varo e il suo prevedibile inabissamento, c’è di mezzo il mare di un’epoca dove tutto cambia velocemente, forse troppo.

La lista dei dicasteri e degli incarichi collegati al nuovo governo

Likud
1.    Prime Minister Benjamin Netanyahu.
2.    Finance Minister Israel Katz.
3.    Health Minister Yuli Edelstein.
4.    Education Minister Yoav Galant.
5.    Energy Minister Yuval Steinitz.
6.    Internal Security Minister Amir Ohana
7.    Transportation Minister Miri Regev.
8.    Environmental Protection Minister Gila Gamliel.
9.    Intelligence Services Minister Eli Cohen-
10.Regional Cooperation Minister Ophir Akuni
11.Minister of Settlements Tzipi Hotovely.
12.Higher and Secondary Education Minister and Water Resources Minister Ze’ev Elkin
13.Minister Without Portfolio Tzachi Hanegbi.
14.Ministerial Liaison to the Knesset David Amsalem
15.Deputy Health Minister Yoav Kisch
16.Deputy Internal Security Minister Gadi Yevarkan.
17.Knesset Social Welfare Committee chairman Haim Katz.
18.Knesset Corona Committee chairwoman Yifat Shasha Biton.

Blue and White
1.Vice Prime Minister and Defense Minister Benny Gantz.
2. Foreign Minister Gabi Ashkenazi.
3. Justice Minister Avi Nissenkor.
4. Culture and Sports Minister Chili Tropper.
5. Immigrant Absorption Minister Pnina Tamano-Shata.
6. Science and Technology Minister Izhar Shay.
7. Agriculture Minister Alon Shuster.
8. Social Equality Minister Meirav Cohen.
9. Minister in the Defense Ministry Michael Biton.
10. Tourism Minister Assaf Zamir.
11. Strategic Affairs Minister Orit Farkash Hakohen.
12. Diaspora Affairs Minister Omer Yankelevich.
13. Knesset House Committee head Eitan Ginzburg.
14. Knesset Interior and Environment Committee head Miki Haimovich.
15. Knesset Education Committee head Ram Shefa.

Shas
1.    Interior Minister and Negev and Galilee Development Minister Arye Deri
2.    Religious Services Minister Ya’acov Avitan.
3.    Deputy Minister for the Periphery, Negev and the Galilee MK Yoav Ben Tzur.
4.    Deputy Labor and Welfare Minister MK Meshulam Nahari.
5.    Chairman of Knesset Economy Committee MK Yaakov Margi.
6.    Deputy Knesset Speaker Moshe Arbel.

United Torah Judaism
1. Construction and Housing Minister Ya’acov Litzman.
2. Deputy Transportation Minister Uri Maklev.
3. Deputy Education Minister Meir Porush.
4. Chairman of Knesset Finance Committee Moshe Gafni.
5. Chairman of Knesset Law, Constitution and Justice Committee, in rotazione per quindici mesi di incarico, Yaakov Asher.

Labor
1. Economy Minister Amir Peretz.
2. Welfare and Social Services Minister Itzik Shmuli.

Derech Eretz
1. Communications Minister Yoaz Hendel.
2. Knesset Foreign Affairs and Defense Committee chairman Tzvi Hauser.
Gesher
1. Community Strengthening and Advancement Minister Orly Levy-Abecassis.

Bayit Yehudi
1. Jerusalem Affairs and Heritage Minister Rafi Peretz.

Ministro delle minoranze: non ancora nominato

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


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