Hebraica
Midrashim per Tishà beAv

La data del 9 di Av evoca gli avvenimenti più luttuosi conservati nella memoria collettiva ebraica: dalla distruzione del Tempio al disastroso esito della rivolta di Bar Kochbà

In segno di lutto per la distruzione di Gerusalemme e del Tempio è opportuno rinunciare a qualcosa nella vita di tutti i giorni. Quando imbiancherai la casa tralascia un angolino; se prepari un fastoso banchetto rinuncia a un cibo squisito; se, donna, ti adorni di gioielli, non indossarli tutti ma lasciane da parte qualcuno dei più belli. Anche nei momenti lieti della vita, sembra dire attraverso immagini questo midrash, ricorda che la completezza non è mai raggiunta e manca qualcosa di cui il ricordo della rovina del Tempio è segno e simbolo. La data del 9 di Av, Tishà beAv in ebraico, evoca gli avvenimenti più luttuosi conservati dalla memoria collettiva ebraica. Secondo la tradizione raccolta nella Mishnà è questo il giorno sia della prima distruzione del Tempio da parte babilonese (586 aev), sia della seconda ad opera delle legioni romane (70), ma anche del fallimento della spedizione degli esploratori raccontata nel libro di Bemidbar/Numeri e del disastroso esito della rivolta di Bar Kochbà sotto il regno dell’imperatore Adriano (135); con un tipico procedimento di accumulo, intorno alla data funesta sono state poi condensate le memorie di altri episodi dolorosi, come la distruzione delle comunità ebraiche della valle del Reno durante la prima crociata (1096) e le espulsioni da Inghilterra (1290), Francia (1306) e Spagna (1492). Alcuni, in anni recenti, aggiungono lo scoppio della prima guerra mondiale (1914), l’inizio della deportazione di massa dal ghetto di Varsavia al campo di sterminio di Treblinka (1942) e l’attentato contro l’Amia, a Buenos Aires, in cui vennero uccise 85 persone (1994). Frange nazionalreligiose della destra israeliana includono anche il disimpegno unilaterale da Gaza (2005).

Ci si potrebbe aspettare che una ricorrenza tanto luttuosa non abbia dato origine a midrashim, che della tradizione rappresentano il volto sorridente e amichevole, accessibile grazie alle storie e agli esempi. Non è così. Ci sono innanzitutto i midrashim sul libro di Echà/Lamentazioni, che viene letto a Tishà beAv nelle sinagoghe. Per esempio la storia di due prostitute di Ashkelon, città filistea esecrata per i suoi costumi dall’intera letteratura ebraica antica e tardoantica. Le due prostitute litigano, racconta il midrash, al punto che una grida all’altra “il tuo volto è simile a quello di un’ebrea!”. Dopo qualche giorno le due si riconciliano con una riserva, perché la prostituta offesa perdona tutto all’altra ma non quella frase che la assimilava a un’ebrea. Perfino per una prostituta di Ashkelon non vi è insulto peggiore di essere chiamata ebrea: questo il significato del racconto che vuole restituire il senso di umiliazione e vergogna successivo alla disfatta militare e alla distruzione del Tempio. “Tu hai udito il loro disprezzo, Signore”, scrive l’autore di Echà.

Un altro midrash, contenuto nel Talmud, con un procedimento classico – studiato tra gli altri dallo storico Yosef H. Yerushalmi – cerca motivazioni interne alla storia ebraica che spieghino le disgrazie. Perché fu distrutto il primo Tempio? Per tre motivi: idolatria, immoralità e omicidio. E perché fu distrutto il secondo Tempio, nonostante lo studio e le opere buone compiute dai figli di Israele? Per un motivo: la discordia interna al popolo. Si deduce quindi, conclude il midrash, che la discordia da sola è distruttiva come idolatria, immoralità e omicidio combinati. Stavo rientrando a Gerusalemme dopo la devastazione, racconta il profeta Geremia in un’altra parabola, quando scorsi una donna in piedi sulla cima di un monte. Vestiva di nero e si lamentava, strappandosi i capelli. Mi avvicinai e le parlai, continua il profeta: se sei veramente donna rispondimi, se sei spirito allontanati da me! Mi rispose così: “Non mi riconosci? Sono quella che aveva sette figli e il cui padre andò in terra straniera. Mentre io piangevo per lui, mi riferiscono che la casa è crollata sopra i miei sette figli e li ha uccisi. Per chi devo piangere adesso? Per chi strapparmi i capelli?”. Io, continua Geremia, le risposi allora che era infelice come mia madre Sion, landa dove si aggirano fiere predatrici. “Tua madre Sion sono io”, rispose lei, “io sono la madre dei sette figli”.

La devastazione di Gerusalemme non sconvolge soltanto gli uomini. Secondo un lungo midrash su Echà, infatti, anche Dio piange insieme a tutti gli angeli. Allora l’angelo Metatron rimprovera il Signore: “Signore del mondo, io piango ma tu non devi piangere!”. “Lo farò invece”, risponde Dio, “e se tu non me lo permetterai qui mi ritirerò dove tu non puoi avere accesso e là piangerò”. E rivolto a Geremia: “Oggi sono come l’uomo a cui muore l’unico figlio nel giorno delle nozze”. Questo spiega il suo dolore. Poi Dio invia Geremia a chiamare dalle loro tombe Abramo, Isacco, Giacobbe e Mosè, perché anche loro partecipino al lutto piangendo. Dunque il profeta si reca alla grotta di Machpelà e sulle rive del fiume Giordano nel luogo indicato da Dio e invoca i patriarchi e Mosè, che sorgono dai sepolcri e, udita la disgrazia che ha colpito i loro discendenti, si lacerano le vesti e si colpiscono il capo. “E tutti andavano di porta in porta, come di fronte a un congiunto morto”. Abramo si presenta di fronte a Dio – piangendo e battendosi il volto, strappandosi la barba e le vesti e con la cenere sul capo – e gli domanda: “Signore del mondo, perché hai mandato in esilio i miei figli, abbandonandoli in balia di popoli che li hanno uccisi nei modi più orribili, perché hai distrutto il Tempio, luogo dove offrii in sacrificio mio figlio Isacco?”. “I tuoi figli”, risponde il Signore, “sono colpevoli perché hanno trasgredito l’intera Torà e non hanno rispettato le ventidue lettere che la compongono”.

Abramo, non soddisfatto, chiede chi depone contro i figli di Israele, non accetta il verdetto, vuole vedere le prove dell’accusa. Allora Dio chiama la Torà a deporre contro i figli di Israele, Abramo però le ricorda di quando nessun popolo volle accettarla tranne quello di Israele radunato sotto il monte Sinai. “E ora tu sei venuta ad accusarli proprio nel giorno della loro sventura!”. A queste parole la Torà, piena di vergogna, ritira l’accusa e si allontana in un angolo. Il Signore chiama dunque le ventidue lettere a testimoniare contro Israele. Ma Abramo non si arrende e ribatte una dopo l’altra alle lettere, che si ritirano come la Torà. Anche Dio però è un osso duro e non cede facilmente. Non bastano le preghiere e gli argomenti dei patriarchi e di Mosè e il ricordo di tutti i loro meriti. Infine si alza Rachele e di fronte a Dio dice: “Signore del mondo, Giacobbe mi amò con passione e lavorò sette anni per potermi sposare, poi altri sette dopo che alle nozze mio padre mi scambiò con mia sorella Lea. Ma io non fui gelosa e non esposi Lea a pubblica vergogna. Ora, se io, una semplice donna, non ho provato gelosia per la mia rivale, tu che sei re eterno e clemente, perché sei geloso dell’idolatria che non ha nulla di concreto, e hai mandato in esilio i miei figli?”. A queste parole Dio finalmente cede: “Per merito tuo, Rachele, farò tornare Israele alla sua terra”.

Secondo rabbi Pinchas ben Yair la distruzione del secondo Tempio segna la prevalenza dei violenti e sopraffattori sugli studiosi e gli autori di opere buone. A chi dobbiamo appoggiarci, dunque, se non al Signore che è nei cieli? Dal canto suo rabbi Eliezer suggerisce che dopo la distruzione il livello degli studi abbia subito un ridimensionamento: i maestri sono diventati scrivani, gli scrivani assistenti, gli assistenti allievi, gli allievi sono sempre meno numerosi e apprendono solo quando messi alle strette. A chi dobbiamo appoggiarci, di fronte al declino della Torà, se non al Signore che è nei cieli? “Giuda è andato in esilio per la miseria e i pesanti lavori forzati, egli siede tra le genti, non trova dove riposare”, lamenta Echà. Ma se avesse trovato un luogo dove riposare non avrebbe conservato il ricordo della patria perduta e un giorno non sarebbe tornato, aggiunge il midrash. In questa tradizionale ottica di filosofia della storia il versetto non è dunque solo una maledizione ma anche una benedizione, infatti se Giuda avesse trovato un luogo agevole dove sedersi tra gli altri popoli non sarebbe tornato in seguito a ricostruire Gerusalemme. Giuda, conclude il midrash, è qui come la colomba mandata da Noè a controllare se la terra fosse asciutta che torna sull’arca perché non ha trovato dove posarsi. Secondo i maestri del Talmud chi partecipa oggi al lutto per Gerusalemme parteciperà domani alla sua gioia. Coloro che invece non partecipano al lutto non gioiranno dopo “perché è detto: se ti dimentico, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra” (Salmo 137). Più radicali – e minacciose – le parole di rabbi Aqivà: “Chi svolge un lavoro il 9 di Av non ne vedrà il frutto”.

Proprio al centro della megillà di Echà emerge un lamento individuale, non collettivo. “Io sono l’uomo”, dice l’autore elencando le sofferenze che colpiscono l’uomo in quanto uomo in ogni tempo e in ogni luogo. C’è amarezza, in questo lamento. Ma è un lamento universale che coinvolge non solo la sofferenza del popolo di Israele, oggetto specifico delle altre parti del libro, ma quella umana in generale.

Giorgio Berruto
collaboratore
Cresciuto in mezzo agli olivi nell’entroterra ligure, dopo gli studi in filosofia e editoria a Pavia vive, lavora e insegna a Torino. Ama libri (ma solo quelli belli), musei, montagne

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