Cultura
Eran Riklis: “Al centro dei miei film c’è sempre l’essere umano”

La nostra intervista al regista israeliano: “Non c’è un grande classico del cinema italiano che non abbia amato”

La quattordicesima edizione del Pitigliani Kolno’a Festival – Ebraismo e Israele nel Cinema, dedicato alla cinematografia israeliana e di argomento ebraico, dal 16 al 20 novembre a Roma presso la Casa del Cinema di Roma e il Centro Ebraico Italiano Il Pitigliani, ha consegnato il Premio alla Carriera 2019 al regista Eran Riklis.

Classe 1954, Riklis è uno dei più importanti rappresentanti del cinema israeliano. A Roma sono stati proiettati i film Il Giardino dei limoni (2008), amato e acclamato in tutto il mondo e vincitore dell’Audience Award al Festival Internazionale del Film di Berlino, Dancing Arabs (2014) e Shelter (2017).

“Quest’anno abbiamo deciso di dare il premio alla Carriera ad Eran Riklis, grande regista israeliano, sicuramente uno tra i più conosciuti nel mondo”, hanno affermato le direttrici artistiche Ariela Piattelli e Lirit Mash. “Con il suo cinema, Riklis ha saputo portare sul grande schermo capolavori della letteratura israeliana, storie in cui ha saputo sperimentare linguaggi narrativi diversi, mettendo sempre al centro del suo discorso l’essere umano”.

Abbiamo incontrato il regista in una sala della Casa del Cinema di Roma per porgli alcune domande.

Mister Riklis, che cosa rappresenta per lei ricevere questo premio alla carriera del “Pitigliani Kolno’a Festival” a Roma, la città del grande cinema italiano? Quali sono i suoi registi italiani preferiti?

“Amo l’Italia e Roma: anche se sono ancora giovane e dirigo film, fa comunque piacere ricevere un premio alla carriera. Sono felice di incontrare le persone italiane, che sento vicine a me. Roma è ricca di storia e il cinema italiano è stato fondamentale quando ho studiato cinematografia, ha avuto una grande influenza su di me. Non c’è un grande classico del cinema italiano che non abbia amato. Due registi sono stati importantissimi per me: Federico Fellini, per la sua visione, per la sua follia, per la sua umanità e per i suoi colori; Michelangelo Antonioni, che è un po’ l’opposto del regista riminese, molto rigoroso, freddo e logico. Loro sono senza dubbio i miei due modelli”.

Com’è riuscito a trasportare così bene i capolavori della letteratura ebraica nel cinema?

“Credo che il modo migliore per approcciarsi a un libro nel cinema sia leggere il libro e poi non pensarci più. E successivamente chiedersi: qual è il mio viaggio emotivo attraverso questa storia? Che cosa mi ha toccato nel profondo? Non si tratta di tradurlo, quanto di adattarlo alla mia visione della storia, a quello che ha significato per me e quali sentimenti mi ha risvegliato. È l’unico modo che conosco affinché un libro funzioni anche sul grande schermo”.

Possiamo affermare che Shelter è un manifesto della forza delle donne, in questi tempi del movimento “Me Too”? Oggi sembra che nessuno sia al sicuro e che ognuno sia alla ricerca del suo personale “riparo”…

“Shelter è basato su una storia molto breve, scritta nel 1988 e per la quale avevo già scritto il soggetto per un film, che poi avevo accantonato per altri progetti. Ci sono tornato pochi anni fa e anche Shelter, così come The Syrian Bride e Lemon Tree, mette le donne al centro della storia. Non tanto per il Mee Too e per il femminismo, ma perché è interessante vedere le dinamiche che si creano tra le due protagoniste, diversissime tra loro, in un ambiente claustrofobico come quello di un piccolo riparo, che non offre vie di fuga”.

Lemon Tree è incentrato sulla conseguenza di un conflitto politico, ma è esso stesso un film politico? Si può dire che è anche un film sul risveglio e sulla presa di consapevolezza di una donna?

Io non faccio film strettamente politici nel senso che non faccio dichiarazioni politiche in essi, ma mi interessa mostrare situazioni politiche, in cui le persone comuni combattono contro le istituzioni. In fondo si può dire che tutto è politico, anche la vita stessa. Lemon Tree è basato non tanto sulla lotta politica delle donne palestinesi, quanto su un risveglio individuale, prima ancora che collettivo, di una vedova palestinese oppressa per anni dal suo ruolo, da cui tutti si aspettano la rassegnazione. Questa donna combatte per difendere i suoi amati alberi di limoni, che per lei rappresentano la sua anima, la sua famiglia, la sua terra e la sua storia. Il risveglio individuale, in questo senso, diventa un risveglio politico. Alla fine, è un film su un essere umano che cerca di trovare un modo per sopravvivere in una situazione politica molto complessa come quella del Medioriente. Il conflitto tra ebrei e palestinesi è sempre presente, dobbiamo cercare di mantenere le persone attente e consapevoli su quello che sta succedendo, perché ci sono ancora molti che stanno soffrendo in quei territori”.

È corretto affermare che l’essere umano, con le sue fragilità e le sue qualità, è sempre al centro dei suoi film?

“Assolutamente sì, per me l’unico modo per realizzare una rappresentazione artistica della realtà è mettere al centro l’essere umano. Il cinema si basa sulle idee, sulle emozioni e sui colori, ma alla fine riguarda soprattutto le persone, come avete fatto voi italiani nel Neorealismo: persone che hanno paure, speranze, amori, odio e dispiacere. Il cinema non deve essere basato sulle idee, ma sulle persone che hanno idee: c’è una grande differenza, soprattutto per gli spettatori, che in questo modo possono identificarsi con i protagonisti del film”.

Come si possono avvicinare più persone al cinema?

“Conta la qualità. Il problema è il modo in cui la fruizione dei film è cambiata: ciascuno di noi oggi può vedere in ogni momento un film o una serie televisiva sullo schermo del suo smartphone o sul televisore di casa. I film possono avere pochi spettatori nelle sale e molti, anni dopo, nelle case. Dobbiamo riuscire a creare una curiosità artistica negli spettori, anche perché noi registi indipendenti non abbiamo i budget promozionali di Hollywood, mettendo al centro della nostra poetica la verità. So che può sembrare un concetto generico, ma in realtà è una cosa molto concreta e a volte dura da far accettare: l’importante è che gli spettatori ti credano, la credibilità non ha prezzo, per un regista ma anche per un giornalista e uno scrittore. Un film è interessante quando posso identificarmi nelle pellicola e quando credo al messaggio che vuole lanciare un regista, anche indirettamente”.

Il cinema può essere un valido aiuto per avvicinare culture diverse?

“Ne sono certo: è forse il mezzo più forte per riunire le persone in una sala e condividere insieme un’esperienza emotiva. Magari un film della Marvel è un’esperienza diversa, ma più che l’azione alle persone interessa il significato di quello che vedono. A volte è un processo lungo, che può richiedere anni. Una delle maggiori soddisfazioni del mio mestiere è quando incontro qualcuno che mi dice che ricorda perfettamente, ad esempio, Lemon Tree, un film uscito dodici anni fa. Un film riuscito crea una forte connessione emotiva, che dura negli anni e che continua a vivere dentro di noi”.

Gabriele Antonucci
Collaboratore

Giornalista romano, ama la musica sopra ogni altra cosa e, in seconda battuta, scrivere. Autore di un libro su Aretha Franklin e di uno dedicato al Re del Pop, “Michael Jackson. La musica, il messaggio, l’eredità artistica”,  in cui ha coniugato le sue due passioni, collabora con Joimag da Roma


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