Cultura
Antisemitismo e ossessioni antisioniste in Europa: una riflessione

Perché il pregiudizio antisemitico non può essere considerato prerogativa esclusiva di piccole nicchie politiche

In Italia verrà dunque costituita la commissione parlamentare di «indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza, questi ultimi meglio conosciuti come l’universo dell’hate speech.

La proposta circolava già dalla legislatura precedente ma è stata approvata a maggioranza al Senato, tra le astensioni di un congruo numero di parlamentari, tutti appartenenti alla destra (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia). Centocinquantuno sì, novantotto astensioni e nessun voto contrario. In buona sostanza, a fronte di un rilevante numero di senatori favorevoli, è emerso anche il diffuso scetticismo della parte restante. Che in tutta probabilità, a fronte dei richiami pur condivisibili alla necessità di tutelare il «diritto d’opinione» e non confondere immediatamente l’eventuale radicalità di esso con suggestive ipotesi di reato, evidenzia una contrapposizione crescente all’interno del mondo politico, e della stessa società, tra chi rifiuta il razzismo a prescindere e chi invece si riserva di assumere un atteggiamento più selettivo, inteso evidentemente a restringere il campo di identificazione e ricaduta del fenomeno medesimo. Che invece sarà, se ne può stare certi, oggetto di lotta e conflitto nei tempi a venire.

Poiché in Europa, come in Italia, vi sono formazioni politiche che, pur senza rivendicare apertamente il ricorso a discriminazioni legali (peraltro impraticabili fino a che vigerà lo stato di diritto), hanno da tempo incorporato nel loro linguaggio rimandi e richiami all’etnonazionalismo, ovvero quella visione della relazioni sociali che si basa sul primato di un gruppo, o “ceppo etnorazziale”, ancorché maggioritario, nei confronti del resto della società. Usiamo il virgolettato poiché quando si parla di razzismo le parole si fanno scivolose, piene di significati riposti, tanto manipolabili quanto manipolatorie.

Peraltro, ed entriamo nel merito delle nostre riflessioni, tutti i centri di ricerca, a partire dal Kantor, dell’Università di Tel Aviv, e dal Cdec di Milano, rilevano come gli atti di antisemitismo siano a loro volta in netta crescita. Con essi, va da sé, il pregiudizio che li accompagna e li correda, quasi a volerli giustificare agli occhi dei molti. Se qualcuno ha pensato, anche solo per un attimo, che gli uni e l’altro fossero destinati, prima o poi, a decrescere e, magari, a concludersi, si è semplicemente illuso.

Senza tanti giri di parole possiamo dire che l’antisemitismo non solo è vivo e vegeto ma “lotta con noi”. Anzi, contro di noi, in quanto cittadini democratici. In generale si registrano tre grandi ordini di problemi: l’incremento delle violenze fisiche dirette; l’aumento di manifestazioni, sia in ambito pubblico che privato, di atteggiamenti ostili e pregiudiziosi, con il crescere di una legittimazione di senso comune piuttosto accentuata; il timore, da parte degli ebrei, che la propria sicurezza nelle società d’origine possa essere messa a repentaglio e con essa il diritto a considerarsene ancora parte a pieno titolo.

La definizione di antisemitismo fatta propria da almeno una trentina di Stati (tra i quali l’Italia ed Israele, insieme alla stessa Unione Europea) è quella messa a fuoco, in maniera giuridicamente non vincolante, dall’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto (IHRA). In essa si afferma che è tale il fenomeno che rimanda ad: «una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio nei loro confronti. Le manifestazioni retoriche e fisiche di antisemitismo sono dirette verso le persone ebree, o non ebree, e/o la loro proprietà, le istituzioni delle comunità ebraiche e i loro luoghi di culto».

Ne deriva una concezione al medesimo tempo estensiva, poiché articolata, ma anche esaustiva delle maggiore casistiche di riferimento. Rientrano in un tale ambito, tra gli altri:«incitare e contribuire all’uccisione di ebrei o a [procurare] danni a loro scapito, o a giustificarli, nel nome di un’ideologia radicale o di una visione estremista della religione; avanzare accuse false, disumanizzanti, perverse o stereotipate sugli ebrei, in quanto tali, o sul potere degli ebrei come collettività, ad esempio, ma non esclusivamente, il mito di una cospirazione mondiale ebraica o degli ebrei che controllano i media, l’economia, il governo o altre istituzioni sociali; accusare gli ebrei di essere responsabili di comportamenti scorretti, effettivi o immaginari, commessi da una sola persona o da un gruppo ebraico, o addirittura di atti commessi da non ebrei; negare il fatto, l’ambito, i meccanismi (ad esempio le camere di gas) o l’intenzionalità del genocidio degli ebrei perpetrato dalla Germania nazionalsocialista e dai suoi sostenitori e complici durante la Seconda guerra mondiale (l’Olocausto); accusare gli ebrei come popolo, o Israele come Stato, di aver inventato o esagerato le dimensioni dell’Olocausto; accusare i cittadini ebrei di essere più fedeli a Israele, o alle presunte priorità degli ebrei in tutto il mondo, che agli interessi dei propri paesi; negare al popolo ebreo il diritto all’autodeterminazione, ad esempio, sostenendo che l’esistenza di uno Stato di Israele è un atteggiamento razzista; applicare una doppia misura, imponendo a Israele un comportamento non previsto o non richiesto a qualsiasi altro paese democratico; usare simboli e immagini associati con l’antisemitismo classico (ad esempio gli ebrei uccisori di Gesù o praticanti rituali cruenti) per caratterizzare Israele o gli israeliani; paragonare la politica odierna di Israele a quella dei nazisti; ritenere gli ebrei collettivamente responsabili delle azioni dello Stato di Israele».

Per essere più chiari sul nesso tra antisemitismo e antisionismo, ovvero tra giudeofobia e avversione per Israele, si considerano espressioni di odio razzista gli «attacchi contro lo Stato d’Israele concepito come collettività ebraica». Non rientrano in quest’ultima fattispecie, pertanto, le critiche mosse alla politica dei governi israeliani, così come le opinioni che valutino aspetti della condotta dello Stato ebraico nel suo insieme, ma quando sono espresse al pari di come si giudicano le condotte di tutti gli altri Stati. Se queste prescindono dal merito effettivo delle scelte effettuate da Israele, usando quindi pretestuosamente certi fatti solo per esprimersi – per interposto oggetto, ossia coprendo con un alone di finzione le proprie intenzioni reali – nell’obiettivo di delegittimare il diritto storico, giurico, politico e morale all’esistenza di quello Stato, vanno intese come atti di antisemitismo. Questa casistica è tanto minuziosa quanto ancora non del tutto esaustiva. Poiché la semplice enumerazione delle situazioni in cui si può identificare una manifestazione, o un atto, di natura antisemitica muta con il trasformarsi del pregiudizio. Che sa adattarsi a contesti, luoghi e tempi diversi. Al momento, i paesi dove i fenomeni si rivelano più intensi sono gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia, la Germania, il Canada, il Belgio, l’Olanda e l’Argentina.

Meno intensi sono stati i casi registrati nell’Europa orientale, anche se va comunque ricordato che un fattore di grande incidenza è la denuncia o meno che le vittime fanno di ciò che hanno subito. Infatti, se un reato o un crimine non è reso pubblico, difficilmente potrà essere annoverato e registrato in quanto avvenuto, al di là, ovviamente, della cerchia di coloro che ne sono stati protagonisti. I numeri individuati dalle comunità ebraiche, dagli istituti di ricerca e dalle agenzie governative sono peraltro monitorati secondo criteri tra di loro diversi, che variano da un paese all’altro e quindi non sono facilmente comparabili. Quanto alla natura dei gesti antisemitici, il vandalismo la fa da padrone (circa la metà dei casi), seguito dalle minacce (a voce, via web, nelle strade e nelle piazze reali ed in quelle virtuali, contro i singoli così come contro un intero gruppo), le violenze senza ricorso diretto ed esclusivo alle armi ed infine, invece, le aggressioni con strumenti potenzialmente mortali (tra di essi anche gli incendi dolosi).

In buona sostanza: mentre negli Stati Uniti l’uso della violenza armata è piuttosto diffuso, in Europa prevalgono l’inibizione, l’offesa, la soggezione e l’assoggettamento al silenzio. Svolgono una parte fondamentale –  comunque  – quasi sempre gli attacchi contro quelle persone e le proprietà, o quei luoghi (come i cimiteri), dove minore o nulla è la protezione da parte delle forze dell’ordine o di servizi di tutela. Rimane il dato comune a tutte le situazioni: mentre l’antisemitismo sta lievitando, per una parte crescente della società ebraica europea l’incertezza si fa più pronunciata. Gli ebrei francesi, inglesi, olandesi ma anche tedeschi, italiani, polacchi e così via si sentono sempre più insicuri. A ciò si accompagna una non meno sgradevole sensazione di essere “estranei in casa”, ossia di potersi vedere revocare, prima o poi, il diritto a continuare a considerarsi cittadini a pieno titolo dei proprio paese d’origine. In un tale sentire, piuttosto diffuso, concorrono molti fattori.

Tre in particolare sono fondamentali.

Il primo è la legittimazione (ovvero, se si preferisce, lo sdoganamento) dell’antisemitismo nelle comunicazioni online, a partire dai forum di discussione per arrivare ai social network.

Il secondo è la sovrapposizione tra termini (e pensieri) antisemiti e discorso antisionista, in una sorta di effetto di travaso che usa il contenitore dell’avversione nei riguardi di Israele per rendere maggiormente plausibile, quindi moralmente accettabile. il pregiudizio contro gli ebrei.

Il terzo elemento, più soffuso ma – in prospettiva – non meno pericoloso, è il diffondersi di un accentuato razzismo nei confronti dell’immigrazione il cui impatto, sulle società nazionali, è comunque quello di rafforzare l’avversione per chiunque non sia visto come “normotipo”, ossia coincidente in tutto e per tutto con un certo cliché identitario, che viene fatto corrispondere forzatamente con il “carattere nazionale” della maggioranza dei cittadini.

L’insieme di questi fattori concorre a sfondare porte di senso comune, rendendo “normale” ciò che altrimenti rimarrebbe inaccettabile o comunque disdicevole. Almeno per una parte della società. L’antisemitismo, attraverso il discorso xenofobico e quello antisionista, è quindi tornato a fare parte del vocabolario di diverse forze politiche. Le quali non debbono condividere le medesime piattaforme programmatiche o gli stessi obiettivi per fruire di un linguaggio che cerca “colpevoli” per le trasformazioni che stanno accompagnando le società europee.

Non esiste una sorta di internazionale antisemitica, identificabile direttamente con un certo numero di partiti, bensì un’area di opinione sulla quale formazioni politiche diverse intervengono per accreditarsi attraverso la rilegittimazione del pregiudizio antiebraico. Magari sottilmente inteso, non esplicitato direttamente ma senz’altro evocato tra le righe. La situazione della Polonia e dell’Ungheria testimonia come i partiti di governo siano indirizzati su questa falsariga. Ma se si guarda a certe forze di opposizione, come nel caso del partito laburista in Gran Bretagna, si possono identificare molte sacche di ambiguità. L’impatto del conflitto israelo-palestinese, ovvero di ciò che resta di esso, ma anche di un immaginario antisemitico di lunga durata, che si autolegittima in assenza di qualsiasi riscontro, può rivelarsi, per più aspetti e tratti, trasversale rispetto all’asse che porta dalla destra alla sinistra. Se gli ebrei sono stati raffigurati per secoli come gli assassini del messia, mentre gli israeliani vengono oggi paragonati ai nazisti, l’immagine corrente dell’ebraismo in una parte delle società europeee accentua il rafforzamento dell’antisemitismo classico.

Si ha a che fare con la raffigurazione maniacale dell’ebreo di “sempre”, quello che non cambierebbe mai; quindi, per sua interna costituzione morale, motivato all’avidità, straniero in patria perché doppiamente fedele (sostenendo Israele) nonché sleale, egoista, endogamico e tribale, assetato di potere e di denaro, anima delle cospirazioni mondiali.

In Europa si dà come una sorta di schizofrenia: se da una parte molte istituzioni e diversi governi dichiarano apertamente di aborrire l’antisemitismo, e di volere quindi mettere in campo tutte le energie necessarie per contrastarlo, non la stessa cosa può essere detta di partiti, liste politiche e gruppi di pressioni che, a volte, sono parte delle stesse maggioranze che compongono i parlamenti e sostengono gli esecutivi. Si tratta di un cortocircuito solo apparente se si pensa invece che, tra le altre cose, il pregiudizio antisemitico non può essere considerato prerogativa esclusiva di piccole nicchie politiche; che le sue manifestazioni possono essere molto variegate; che l’impatto del razzismo diffuso, di natura sociale e di senso comune, più che di ordine ideologico, si incontra con l’uso politico che viene fatto in chiave autopromozionale dai partiti maggiormente radicali, nella speranza di ricavarne un beneficio di consensi; che gli effetti delle politiche o comunque delle condotte che si richiamano all’antirazzismo possono rivelarsi a volte controproducenti quando si rifacciano ad un impianto ideologico di natura “anti-imperialista” (arrivando a definire Israele come uno «Stato colonialista») o ad una impostazione basata esclusivamente sul cosiddetto «politicamente corretto».

Al riguardo, quando si usa questa locuzione ci si riferisce al movimento politico e culturale, di origine statunitense, che rivendica sia il riconoscimento di pari dignità e di eguali diritti per le minoranze sia una maggiore giustizia sociale, a partire dalle relazioni pubbliche e, quindi, dallo stesso linguaggio, laddove questo può evocare la falsa legittimità di atteggiamenti e condotte discriminatorie. L’Unione Europea ha recepito questo dibattito e ha cercato di tradurlo in norme e sollecitazioni rivolte agli Stati membri, anche dinanzi ai fenomeni innescati dai processi immigratori. Ma la questione dell’antisemitismo, e del suo uso politico, non è mai solo una questione esclusivamente culturale. Non si tratta, infatti, di un’ignoranza da colmare bensì di un pieno di pregiudizi che offrono, a chi li fa propri, una falsa coscienza, una fittizia comprensione del presente. L’una e l’altra costituiscono a loro volta un balsamo rispetto alle tante angosce del tempo corrente, altrimenti non governabili con la sola razionalità. Un tale fenomeno è tanto più enfatizzato quando si incontra, da una parte, con la crisi alla quale il ceto medio europeo è sottoposto, vivendo in diversi paesi una vera e propria retrocessione sociale; dall’altra, con il confronto rispetto all’immigrazione musulmana, che porta con sé storie, identità e a volte anche valori non sempre conciliabili con il diritto positivo e quello umanitario di cui invece il Continente europeo è depositario.

La persistenza e il ritorno dell’antisemitismo in Europa va quindi sempre messo in rapporto alle trasformazioni demografiche che il Continente sta conoscendo da tempo. La correlazione si dà nel momento in cui i processi migratori si stratificano, sovrapponendo alle identità collettive, nazionali e locali, quelle di chi è nel mentre arrivato. Prima ancora che una questione di veri e propri «imprenditori politici del razzismo», così come sono stati qualificati quei movimenti e partiti che fanno in qualche modo ricorso ad esso, il problema è pertanto l’insieme di relazioni e reti sociali che ricorrono al razzismo come strumento di coesione e reciprocità tra i loro appartenenti. Il web, da questo punto di vista, amplifica una tale disposizione d’animo, estremamente diffusa. E si manifesta non solo con l’antigiudaismo tradizionale ma anche con l’ossessione antisionista, laddove lo Stato ebraico, in quanto sorta di “ebreo collettivo”, viene caricato di tutti gli stereotipi più biechi. Come è stato ripetutamente osservato, la giudeofobia diventa antisionismo e quest’ultimo si trasforma in forma politicamente accettabile (ovvero “corretta”) del pregiudizio. Rimane il fatto che sul piano politico le organizzazioni della destra radicale, accomunate da un approccio illiberale e antisistemico nei confronti delle democrazie, hanno acquisito maggiore impatto e sostegno pubblico a causa delle trasformazioni indotte sia dai processi immigratori che dal ripetersi delle crisi finanziarie. Raffigurano gli ebrei come agenti stranieri del «cosmopolitismo» e del «modialismo», minaccia per l’identità locale e nazionale, accusandoli di costituire la forza trainante dietro l’arrivo degli immigrati in Europa. A tirare i fili sottili di ciò che viene definita come «grande sostituzione», ossia la transizione demografica e culturale da una popolazione autoctona ad una società ibrida e meticcia, sarebbero uomini come George Soros, filantropo e imprenditore naturalizzato americano, di origine ebraica, raffigurato in Ungheria come una sorta di vero e proprio diavolo.

I governi dell’Europa orientale, in particolare della Polonia, dell’Ungheria e della Lituania, continuano, d’altro canto, a promuovere con forza una visione della propria storia recente nella quale le compromissioni con l’occupante nazista e gli episodi di collaborazionismo sono negati o comunque ridimensionati.  Questo ethos nazionale è una fonte di costante conflitto con le comunità ebraiche locali che, nel tentativo di recuperare la memoria dei fatti, sono invece accusate di volere dare anima e corpo ad una narrativa pubblica distorta, malevola, in buona sostanza antinazionale, attribuendo colpe storiche che non esisterebbero. Nei paesi occidentali, a fronte dei mutamenti in atto soprattutto nella sfera sociale, una parte dell’estrema sinistra, ancorché minoritaria, considera la «potenza ebraica mondiale» responsabile degli impatti più violenti causati dall’economia globale. Gli ebrei vengono accusati di favorire, ovviamente a proprio beneficio, la globalizzazione, che aumenta le incertezze economiche, di status così come l’ansia nell’uomo comune, abbandonandolo alla mercé di poteri che non può identificare né tanto meno controllare.

Populismi e sovranismi convergono su questa interpretazione, benché il più delle volte cerchino di evitare riferimenti diretti all’ebraismo, ben sapendo che  in diversi paesi una tale manifestazione razzista sarebbe censurata dalle autorità. Rimane il fatto che sia nell’Europa occidentale che in quella orientale si ritiene – del tutto erroneamente, anche da un punto di vista storico – che gli ebrei costituiscano un gruppo sociale coeso, distinto dal resto delle società in cui pure vivono, immuni dagli effetti delle crisi economiche (per le quali avrebbero almeno una parte delle responsabilità).  In estrema sintesi, lo spazio dell’antisemitismo si fa crescente poiché il quadro politico europeo sempre più spesso è caratterizzato da persistenti instabilità e da crescenti radicalizzazioni. Le une e le altre sono direttamente proporzionali alla crisi delle democrazie sociali, ovvero alla loro incapacità, sempre più marcata, di creare coesione e integrazione, dinanzi alle trasformazioni indotte dall’economia mondiale. Si tratta quindi di una questione più che mai aperta, interpellando non solo il futuro di una minoranza ma il destino delle maggioranze. Poiché l’antisemitismo chiama in causa gli ebrei in prima persona ma, nei suoi effetti patologici di lungo periodo, si riflette sui precari equilibri di intere collettività. Come la storia recente si è incaricata di dimostrarci.

Claudio Vercelli
collaboratore

Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.


2 Commenti:

  1. Un ottimo, esaustivo commento a quel che succedendo in Italia , in Europa, nel mondo : condivido il lungo articolo anche per diffondere e consolidare conoscenza e preparare solide argomentazioni a difesa dei principi di giustizia , di libertà, che in questi tempi sembrano essere in pericolo.

  2. Bellissimo ed esaustivo. Ma tralascia tutto quell antiebraismo e antisionismo fatto ed espresso dalla sinistra e dall Islam radicale.
    Che e oggi il piu diffuso.
    Le vignette di Vauro sono una dimostrazione minima, e i discorsi degli Imam in tutte le moschee europee sono stati esclusi dalle osservazioni.
    E la Shoah non deve essere sfruttata a scopo politico per poi essere usata appena tacciati di antisionismo o antiisraele.
    Peggio ancora

    Sarebbe opportuno approffondirle invece.
    Una visione ampia contribuirebbe alla causa.
    Basta politicizzare la Shiah!
    Yossi K Aminoff


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