Cultura
Bologna ebraica

Storie di una città e della sua memoria

Città dal rilevante passato ebraico, a Bologna è possibile individuarne la storia anche solo passeggiando. Dell’antico ghetto, istituito nel 1555 da papa Paolo IV con la bolla Cum nimis absurdum e reso effettivo nel 1566, il centro storico conserva quasi intatta la struttura urbanistica originaria. Camminando tra via dell’Inferno, via dei Giudei, via Canonica, vicolo del Mandria, vicolo San Giobbe, via del Carro e via Valdonica non è difficile immaginare la vita che si svolgeva tra oscuri passaggi, stretti androni e cortili chiusi. Certo, quello che oggi si presenta come un intrico di romantiche viuzze, con i loro bravi portici e gli inattesi slarghi, andrebbe ripensato come un luogo che all’epoca di poetico aveva ben poco. A differenza che altrove, si trattava di un’area relativamente ampia, chiusa tra le attuali via Zamboni e via Oberdan, in posizione centrale e, come spesso capitava, già zona di residenza di molti degli ebrei locali.

La loro presenza in città si suppone risalisse al III e IV secolo, ma è attestata solo dal XIV secolo, quando vi era stata una consistente immigrazione da Roma e dal resto dell’Italia centro-settentrionale. Alla fine del Trecento, nel periodo detto del Secondo Comune Bolognese, la città aveva conosciuto un notevole sviluppo, incentivando l’arrivo di lavoratori specializzati che contribuissero alla sua costruzione. Gli ebrei che al tempo erano giunti in città si erano fermati nella cosiddetta zona interstiziale. Terra di nessuno ancora da bonificare, si trovava tra l’antico insediamento romano e l’antico accampamento longobardo, nella zona che dalle Due Torri si estende da un lato fino a piazza Malpighi e dall’altro si apre a semicerchio verso San Giovanni in Monte, Santo Stefano, Santi Vitale e Agricola e San Donato, con piazza di Porta Ravegnana al centro. Due secoli dopo, sarà questa stessa piazza a subire lo sfregio del primo cancello del ghetto, all’imbocco di via dei Giudei. Il secondo portone sarebbe stato eretto nell’attuale via Oberdan (un tempo via Cavaliera), nell’arcone che immette sul vicolo Mandria attraverso l’attuale vicolo Tubertini. Il resto della zona era stato chiuso a partire dal 1555 con muri eretti tra i palazzi in modo da isolare la popolazione ebraica da quella cristiana. Nel ridisegnare il quartiere, si era fatto in modo di lasciare fuori dal ghetto ospedali, chiese e attività commerciali che avessero interesse per i non ebrei, lasciando i banchi fruibili da entrambe le parti, per non interrompere le relazioni economiche.

L’istituzione del ghetto non sarebbe però bastata alla Chiesa. Dopo qualche timida concessione da parte di Pio VI, successore di Paolo IV, con l’avvento di Pio V la situazione era precipitata e il 26 febbraio 1569 il papa aveva emesso la bolla Hebraeorum Gens con la quale costringeva tutti gli ebrei a lasciare i territori direttamente governati dalla Santa Sede, Bologna compresa. Nella stessa occasione era stato anche espropriato il cimitero ebraico di via Orfeo, donato alle suore della vicina chiesa di San Pietro Martire con l’autorizzazione (nonché l’istigazione) a profanare le tombe e a utilizzarne a piacimento i sepolcri.
Di questo luogo sacro se ne erano perse le tracce fino a una decina di anni fa. Tra il 2012 e 2014, degli scavi archeologici hanno portato alla luce i resti di 408 sepolture di donne, uomini e bambini al cui interno sono stati trovati elementi d’ornamento personale in oro, argento, bronzo, pietre dure e ambra. Le quattro splendide lapidi monumentali ebraiche esposte nel Museo Civico Medievale, provengono molto probabilmente da questo cimitero, essendone state rimosse e quindi vendute o riutilizzate al pari di tante altre sepolture profanate.

Tornando tra le strade dell’antico ghetto, al numero 16 di via dell’Inferno, la sua arteria principale, è oggi possibile individuare l’edificio dell’unica sinagoga del quartiere. Oggi al suo interno non vi è più nulla da vedere, ma sulla facciata dello stabile successivo, al civico 20, è stata murata una lapide che ricorda gli antichi abitanti del ghetto e le persecuzioni subite dagli ebrei bolognesi degli anni e secoli successivi, dall’espulsione del 1593 alle leggi razziali del 1938 fino alle deportazioni nei campi di sterminio nazisti.
Esterna al ghetto, all’attuale 18 di via San Vitale, e fondata prima della reclusione, si trovava l’antica Sinagoga, più volte citata in documenti del XV secolo e rimasta attiva fino al 1567. Nel 1568 gli edifici che la ospitavano erano stati ceduti per decreto di papa Pio V alla neonata Chiesa dei Catecumeni, che l’anno seguente li avevano venduti a un privato.
L’attuale Sinagoga Grande sorge invece tra via Gombruti 9 e via Mario Finzi, nello stesso luogo in cui gli ebrei da poco rientrati in città avevano fondato un oratorio nel 1829. Nel 1877 la comunità aveva fatto edificare su progetto di Guido Lisi un tempio, che però nel giro di pochi anni aveva finito con l’essere a sua volta insufficiente alle esigenze della congregazione. L’architetto Attilio Muggia si era occupato della nuova sinagoga, inaugurata nello stesso edificio nel 1928. Si presentava come un’elegante aula quadrata, con volte a crociera e lucernario centrale ellittico, decorata alle pareti da disegni liberty.
Quella che oggi possiamo ammirare è l’opera di Guido, figlio di Attilio, ingegnere che nel 1954 aveva ricevuto l’incarico di ricostruire nello stesso luogo la sinagoga disegnata dal padre e rasa al suolo dalle bombe nel 1943. Riaperta nel 1953 e tuttora in uso, la nuova Sinagoga è una rilettura moderna di quella antica, con una sala rettangolare divisa in tre navate e volta a botte con nervature riportate. Sul muro perimetrale spicca un rosone con grande Stella di David, mentre l’interno presenta una serie di vetrate policrome che riproducono i principali simboli ebraici. Chiuso da una balaustra in marmo, l’aron si trova sul lato opposto della tevà, collocata in questa posizione solo recentemente. Di nuova collocazione sono anche i banchi dei fedeli, non più volti più verso l’aron ma posti a raggiera parallelamente all’aron e alla tevà e convergenti verso il centro, secondo l’uso italiano.
Qualche anno fa, il 27 gennaio 2017, in questo stesso edificio è stata inaugurata anche una sinagoga piccola. Detta Beth Yedidiah, viene utilizzata per la preghiera settimanale di Shabbat e consente anche la visione, sotto il pavimento in vetro, di reperti di una domus romana del I-II secolo d.C. affiorati durante i lavori di restauro. Sempre da via Finzi 2 si accede anche agli uffici della Comunità Ebraica di Bologna , mentre sulla facciata si può vedere la lapide posta in ricordo degli ebrei bolognesi assassinati dai nazisti.


Alle vittime della Shoah è stato dedicato anche un Memoriale, visibile da chiunque si trovi a passare dalle parti della stazione ferroviaria, all’ingresso dell’Alta Velocità. Nell’angolo tra il ponte Matteotti e via Carracci, sulla neonata piazza della Shoah, svetta con i suoi 10 metri di altezza il monumento inaugurato il 27 gennaio 2016. Firmato da Onorato di Manno, Andrea Tanci, Gianluca Sist, Lorenzo Catena e Chiara Cucina, si sviluppa in due giganteschi blocchi convergenti di acciaio Cor-Ten. Dalla superficie esterna piena e internamente vuote, a formare inquietanti celle cubiche, le due immense pareti si fronteggiano convergendo l’una verso l’altra. Al termine, solo una fessura, larga appena a far passare una persona.

Tornando nel centro storico e spostandosi al 16 di via Goito, si incontra un eccezionale esempio di monumento rinascimentale con iscrizione in ebraico. Si tratta di Palazzo Bocchi, fatto costruire tra il 1545 e il 1565 da Achille Bocchi, illustre umanista dello Studio bolognese vissuto a cavallo tra il Quattro e Cinquecento. Erudito in latino e greco con nozioni di ebraico, lo studioso aveva fatto progettare dall’architetto di Jacopo Barozzi, detto il Vignola, la sede dell’Accademia Hermathena, da lui fondata qualche anno prima. Sulla facciata, nel fregio posto sulla sommità dell’imponente zoccolo in arenaria, si possono ancora oggi leggere le grandi iscrizioni che Bocchi fece apporre, una in caratteri ebraici e una in latino. La prima riproduce un versetto del salmo 120, 2. (119,2. del Salterio): “Signore libera la mia vita dal labbro menzognero, dalla  lingua ingannatrice”. L’altra, accanto, cita parte della prima Epistola di Orazio: “Sarai re, dicono, se agirai rettamente”.

In una città così ricca di memorie non poteva infine mancare anche un museo dedicato alla storia degli ebrei. Per visitarlo è necessario rientrare nell’ex ghetto e raggiungere via Valdonica 1/5. Qui nel cinquecentesco Palazzo Pannolini, di proprietà del Comune, nel 1999 è stato inaugurato il Museo Ebraico di Bologna. Lo spazio espositivo si estende su 500 metri quadri ed è suddiviso in tre spazi adibiti ad altrettante funzioni. Il primo è quello destinato alla sezione permanente, incentrata sul tema dell’identità ebraica. Vi si possono trovare esposte per punti essenziali le vicende del popolo ebraico nell’arco di quasi 4.000 anni. Due sale di questa sezione sono dedicate agli ebrei di Bologna e dell’Emilia Romagna, dal medioevo all’epoca contemporanea. Il secondo spazio del museo ospita mostre, incontri, dibattiti e attività didattiche rivolte a bambini. Vi si tengono conferenze, corsi, seminari e presentazioni dei libri, mentre nel bookshop è possibile acquistare libri e oggettistica. La terza sezione comprende il Centro di documentazione del MEB, composto da una biblioteca specializzata e da un centro culturale e di promozione collegato con musei, università, biblioteche e centri di ricerca sia italiani sia europei, israeliani e statunitensi.

 

 

 

 

Camilla Marini
collaboratrice

Camilla Marini è nata a Gemona del Friuli (UD) nel 1973, vive a Milano dove lavora da vent’anni come giornalista freelance, scrivendo prevalentemente di cucina, alimentazione e viaggi. Nel 2016 ha pubblicato la guida Parigi (Oltre Edizioni), dove racconta la città attraverso la vita di otto donne che ne hanno segnato la storia.


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