Cultura
Che ce ne facciamo della memoria?

Analisi del tempo presente, tra identità, post-memoria e rigenerazione

Con postmemoria intendo il contenuto culturale, emozionale, e mentale che ci troviamo a “governare” dopo “l’era del testimone”, come anni fa ha suggerito Annette Wieviorka.
Non solo. Infatti la post-memoria è una condizione culturale che obbliga a riflettere da una parte su ciò che ereditiamo, sulle forme del sapere e della coscienza pubblica che abbiamo acquisito in seguito all’ascolto di narrazioni di coloro che hanno vissuto un tempo diverso da quello dei loro ascoltatori, le cui storie personali sono forzate a farsi da parte dalla irruzione delle storie della generazione precedente con cui devono ancora “prendere una misura”; dall’altra, su quale sia il rapporto che intratteniamo col passato. Su tutto il passato del Novecento, per riflettere nel presente.

Per un errore di proiezione molti ritengono che questa condizione ci lascerà orfani di un supporto essenziale – la voce dei testimoni – e dunque il percorso incerto avviato con l’emergere del ruolo della testimonianza sui fenomeni di massa della storia, subirà un arresto, una deviazione, comunque sarà seriamente destinato a perdersi.
È molto probabile che la condizione in cui noi ci troveremo dopo registrerà incertezze, silenzi, marginalizzazioni. Probabilmente l’emergere di nuove centralità culturali e tematiche verrà percepita e interiorizzata come “regressione”.
Tuttavia, noi oggi se vogliamo che quel tema rimanga nell’agenda culturale della formazione civile dovremmo preoccuparci non tanto di cosa accadrà dopo i testimoni, ma di come noi siamo entrati nell’era del testimone, di ciò che ha significato questa fase, e dunque di che cosa tratterremo di essa.
Così come per i totalitarismi non c’è un individuo creato dal totalitarismo nel momento in cui questo si produce come sistema (mentre certamente esiste un individuo totalitario come effetto della durata di quel sistema), ma c’è una mentalità totalitaria in gran parte anticipata dall’avvento dei sistemi totalitari (come per esempio ci invita a riflettere ‘Al Al-Aswani nel suo La dittatura, Feltrinelli), così noi dovremmo chiederci non cosa sarà di noi dopo i testimoni, ma quale sia il nostro rapporto con la storia nel momento in cui è iniziata l’era del testimone e quale sia oggi e prevedibilmente domani quel rapporto. Il problema a mio avviso è quanta consapevolezza storica noi oggi abbiamo, se ci sia uno scarto rispetto a prima; se siano cambiate le nostre domande rispetto al passato e se siamo in grado o meno di interrogare in forma critica e non a-prioristica il nostro presente. In breve, se la nostra competenza storica (non la nostra conoscenza dei fatti) è aumentata.

La mia risposta discende da un duplice groviglio di questioni.
Sono convinto che nel momento in cui la testimonianza o la voce testimoniale è entrata a far parte a pieno titolo (legittimamente) delle fonti e dei documenti che uno storico deve prendere in carica se vuol tentare non solo di descrivere, ma anche di comprendere un fatto storico, quella fonte sia inovviabile e anzi sia indispensabile per discutere non solo di quell’evento, ma soprattutto della percezione e della comprensione, dopo, che un’opinione pubblica informata ha di quell’evento. Non solo quella fonte è indispensabile, ma la discussione se essa sia legittima o meno, se essa abbia un fondamento o meno, è parte di quella retorica che ha come fine la negazione di quell’evento. Sotto questo profilo la riflessione proposta da Pierre Vidal-Naquet è inoppugnabile sia sul piano della discussione metodologica sulle fonti, sia su quello dell’analisi storica tra narrazione della storia e discussione pubblica.

Coloro che pretendono di negare l’esistenza del Genocidio ebraico – scrive Pierre Vidal-Naquet a p.224 – cercano di colpire ciascuno di noi nella propria memoria individuale. Questa memoria non è la storia. Ma la storia è fatta anche dell’intreccio tra le nostre memorie e la memoria dei testimoni.

È una suggestione che costituisce una buona pista e che dice due cose: la memoria e la testimonianza non sono né un’alternativa né concorrenti contro la storia. Questa oggi, a partire dall’ “era del testimone”, ha un futuro solo se è in grado di saper trattare e includere le fonti testimoniali come parti della propria problematica di indagine.
Ma questa questione non significa, peraltro, che oggi la storia sia l’indagine sui fatti accompagnata dalla testimonianza. Il gioco è più complicato e anche più sottile.

Consideriamo il secondo groviglio di questioni.
La storia d’Italia che gli italiani sanno, chi l’ha raccontata? Il manuale del liceo o un qualsiasi format narrativo un serial televisivo?
Non è solo un problema delle competenze del conduttore o dello sceneggiatore. E’ anche un problema di fonti, del loro uso, della loro molteplicità e di come si presentano. La storia la raccontano i film, la fotografia, gli oggetti, i diari, i libri, le lettere, i cippi, i memoriali. Dietro ciascuno di questi documenti c’è sempre un autore (o un gruppo di autori), non c’è “la storia”o “l’evento com’è andato”. Ci sono scelte, c’è un’idea del passato e c’è una proposta di interpretazione. C’è soprattutto una selezione del passato presentata invece come se fosse tutto il passato. Ovvero c’è una scelta soggettiva presentata come oggettiva e dunque come autentica e vera. Una scelta che viene nascosta, perché a priori si presume che l’idea di scelta sia l’origine del racconto falso o falsato. L’uso politico del passato nasce proprio da questa convinzione.
È una convinzione che la moltiplicazione dell’offerta di storia negli ultimi anni ha incrementato, anziché contribuire a ridurre. La storia visuale, gli strumenti di supporto, l’esplosione dell’offerta documentaria non hanno aiutato a farsi un’idea, ma hanno trasferito all’utente/fruitore del prodotto storico un kit di spiegazione senza dotarlo degli strumenti per giudicare.
Per individuarli occorrono competenze di due tipi: competenze di interpretazione e competenze disciplinari specifiche. Nel primo caso si tratta di dedurre in assenza di documenti, o in condizioni di carenza, informazioni da ciò che abbiamo a disposizione. Non è solo una condizione che deriva dalla pazienza del lettore. A monte implica anche una chiarezza sulla possibilità di reperire documentazione diretta e in assenza, di trovare le vie attraverso le quali riuscire a sapere dati, informazioni che direttamente non troviamo. Nel secondo caso si tratta di dotarsi di competenze definite dalla natura stessa dei documenti che si usano.
Ci sono competenze specifiche di analisi che riguardano i film, le fotografie, le testimonianze orali, i quadri, le lettere. L’analisi di ciascuno di questi documenti richiede una competenza specifica che non riguarda solo il linguaggio, ma anche la tecnica di montaggio. In breve, ciascuno di questi documenti è un risultato, non è un documento che nasce in questa forma.

Così un film è il risultato di un montaggio, include, per capire il prodotto che abbiamo di fronte, un’informazione sullo scarto, sulle tecniche di ripresa, sull’uso delle inquadrature p.e., ovvero chiede che ci siano delle informazioni tecniche inerenti la sua realizzazione specifica.
Una fotografia, al contrario di ciò che comunemente crediamo non è l’originale. L’originale è il negativo della fotografia. Ciò che ci troviamo di fronte spesso è solo una parte dello scatto originario, è uno sviluppo, un particolare. E inoltre dove la troviamo quella foto? chi ce la fornisce? in quale sequenza ce la fornisce?
Una fonte orale, come ci ha ricordato più volte Alessandro Portelli, include varie cose: un rapporto di fiducia tra intervistatore e intervistato; un confronto ripetuto; una tecnica di conduzione. La stessa questione, ovvero la competenza sul trattamento della fonte prescelta riguarda ovviamente i quadri e certamente le lettere, gli epistolari, i diari, comunque le fonti memoriali scritte.
Fin qui si potrebbe dire la competenza di cui stiamo trattando concerne la grammatica, la sintassi comunque le regole di montaggio della fonte in relazione al supporto prescelto.

Ma il tema delle fonti non è solo avere consapevolezza delle procedure tecniche relative alla loro costruzione in quanto documenti e dunque avere la competenza per “decostruirli”, ma anche avere la competenza per comprendere che cosa contiene quel documento, ovvero quante informazioni (intenzionali e non intenzionali) è in grado di fornirci.
Un documento propone, ma poi bisogna anche farlo parlare. Per farlo parlare occorre sapere scavare dentro. Ovviamente occorre conoscere la storia fattuale a cui quel documento di riferisce, ma bisogna anche avere un’autonomia rispetto al modo in cui quel documento si presenta.
C’è dunque un compito preciso che abbiamo davanti. Questo compito riguarda la riflessione sulla storia, la capacità di far lavorare sul passato e che quella conoscenza più estesa sia il risultato di una capacità maggiore di saper lavorare sui documenti. Di non essere ripetitori, ma di dotarsi di una cassetta degli strumenti in grado di “muoversi” nella storia. È una sfida e non riguarda l’eroismo. E in ogni caso, proprio perché la conoscenza del passato solo in parte e solo formalmente coinvolge la scuola, noi dobbiamo sapere che la coscienza civile della generazione che domani sarà adulta non si forma solo all’interno di un’aula di scuola e dunque non possiamo ritenere responsabile la scuola, ovvero gli insegnanti dei nostri figli, come i soli, o i principali, responsabili della loro formazione.
Ciò detto, è corretto chiedere al corpo docente della scuola una qualità dell’insegnamento che abbia come obiettivo anche la formazione culturale e civile dei giovani. Ma è anche necessario capire che questa richiesta deve preliminarmente contenere una consapevolezza: la formazione professionale non è un optional o un generico “fai da te” dove vige l’arte di arrangiarsi. Perché ci siano insegnanti competenti occorre che ci sia non solo un sistema scolastico che funzioni, ma anche una società che capisce che niente è un atto dovuto, che sapere è avere gli strumenti, i mezzi, le opportunità perché quella richiesta abbia la possibilità di essere soddisfatta. Certo che occorrono volontà, determinazione e curiosità. Ma occorre anche una società che investe sul miglioramento della qualità di un servizio.
Gli insegnati sono spesso soli, avvertiti come un mondo alieno, talora sono anche un mondo non “friendly”. Ma se vogliamo che domani sia meglio, se siamo convinti che il passato abbia dato prove pessime e soprattutto se non vogliamo che quelle eventualità si ripetano, e se siamo convinti che uno dei modi per impedirlo sia nella costruzione di una consapevolezza critica profonda, non abbiamo che da assumere una maggiore consapevolezza del ruolo di cittadini, di genitori, di operatori pubblici e mettere in condizione che un percorso sia possibile. Poi certamente vale la scelta degli individui, la loro disponibilità, a impegnarsi.

Ripeto la domanda da cui sono partite queste considerazioni: è aumentata la nostra competenza storica (non la nostra conoscenza dei fatti)? La mia risposta è negativa.
Io ritengo che la nostra competenza storica oggi non sia aumentata e che spesso quella che abbiamo assimilato come incremento metodologico sia invece aver trasferito nelle tecniche di indagine una rinnovata, e oggi incrementata, incapacità/non volontà di giudizio. E che, parallelamente, si sia ulteriormente espansa la sfera del pregiudizio, a cominciare dalla solidità che oggi ha il paradigma vittimario e la spiegazione complottistica della storia.
Quel paradigma vittimario nell’età del sovranisno non è destinato a retrocedere. Al contrario crescerà.
Non solo.
Quello che abbiamo di fronte, anche limitandoci al territorio dell’Europa è una sfida.
La pubblicazione di Calendario civile europeo. I nodi storici di una costruzione difficile, a cura di Angelo Bolaffi e Guido Crainz (Donzelli) è l’occasione per ripensare l’idea di Europa, ma anche i processi che ne hanno definito la fisionomia, l’immagine, la memoria,….
All’interno del progetto proposto da Crainz e Bolaffi conta molto il percorso di riflessione che Lucien Febvre illustra nell’autunno 1944 a Parigi, appena liberata, nell’apertura del corso che tiene al College de France [il testo di quel corso è ora leggibile nel volume di Febvre dal titolo L’Europa. Storia di una civiltà), accanto non sarebbe improprio tenere presente anche quanto dice Federico Chabod, pochi mesi prima, nell’inverno-primavera 1944, a Milano (ancora occupata peraltro) intorno alla Storia dell’idea di Europa.
Tuttavia non sarebbe improprio accompagnare un terzo laboratorio di indagine a quei due diversi momenti riflessivi che hanno di fronte la percezione delle sfide aperte nel tempo presente e l’idea di Europa come possibilità o come scommessa di futuro. Quel terzo laboratorio è rappresentato dalla riflessione di Marc Bloch, in particolare le pagine di Problemi d’Europa.

Molti anni fa, nel 1935, quando in Europa i totalitarismi erano attraenti e le democrazie si difendevano a stento, Marc Bloch, da fine storico dei sentimenti, aveva intuito che la nozione di Europa si fonda su una nozione di panico. Si è europei (si dice di essere europei), scrive Bloch, perché si aderisce a un dato chiuso e non facendo riferimento a un codice culturale e normativo aperto. Per questo motivo definire l’Europa per molti significa fissare le sue frontiere. Talvolta il tema è dove finisce l’Europa (un confine che tradizionalmente si colloca a Est, da un po’ di tempo anche a Sud), qualche volta il tema è chi rappresenta lo spirito dell’Europa.
Quando le due questioni si sommano e si pensano in un solo luogo sappiamo che soffiano venti di intolleranza.
Forse è quello che sta accadendo in questo nostro tempo. Non è detto che sia ineluttabile, ma non è vero che ciò che vediamo in scena in questi ultimi anni sia l’antieuropa, o la non Europa. Sia in chi vuole muri, sia in chi manifesta disponibilità ad accogliere, soffia il vento dell’Europa, di due Europe diverse, da tempo in conflitto tra loro, ma entrambe parti della identità europea.
A lungo, nei precedenti venti anni, abbiamo pensato che la memoria costituisse un monito e fosse un modo per tenere a bada quelle voglie di identità chiusa. Non ne ero convinto allora e continuo a non esserlo ora.
La memoria forse ha una chance se gioca chiaro e se dice apertamente che non è il risultato di ciò che rimane dalla storia, ma è l’effetto e il combinato disposto di ciò che si trattiene dal passato, ciò che si scarta dal passato, e ciò che si prova mettere insieme nel presente per pensare futuro.
In breve: la memoria non è un “take away” già confezionato. Dentro ci sta anche una dismissione dall’atto di orgoglio dell’identità, che non è cosa conserviamo, ma come ci riscriviamo ogni giorno. A suo modo, a ogni generazione, o agni svolta la sottoscrizione di un “patto di rigenerazione universale” più che l’adesione a una “genetica della salvezza.

David Bidussa
Redazione JOI Mag

Classe 1955, nato e cresciuto a Livorno, studia a Pisa dove inizia la facoltà di Filosofia, ma si innamora di quella di Storia. Ha insegnato al liceo e all’università, da anni lavora alla Fondazione Feltrinelli in quanto Direttore dei contenuti editoriali. Si definisce uno storico sociale delle idee (ci ha assicurato essere una vera specialità, benché nessuno finora abbia capito cosa sia). Scrittore e giornalista, dicono che il suo branzino al sale sia leggendario.


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